LIVEMMO

LIVEMMO (in dial. Lièm, o Livèm, in lat. Livemmi)

Frazione della Pertica Alta a 892 s.l.m., situata in amena posizione, tra il Tovere torrente affluente destro del Nozza, le basi del monte Ario (m. 1757) e degli altri monti che fan corona alla Corna Blacca (m. 2026). È considerato per la posizione uno dei più ridenti centri del Comune della Pertica Alta (v.) di cui è frazione ma anche sede comunale: ne è considerata la piccola capitale. Lo è non solo perchè sede del Comune e di servizi sociali ma anche ecclesiasticamente giacchè la vecchia parrocchiale di Barbaine, posta su un poggio vicino all'attuale abitato, fu la prima a staccarsi dalla pieve di Mura e per secoli il centro religioso di tutta la zona. Abitanti: 80 nel 1629, 72 nel 1630, 294 nel 1850, 350 nel 1934.


Strano, misterioso il nome. Dopo aver avvertito che il nome di Livemmo "è uno dei più strani della toponomastica bresciana" guardando alla sua posizione che si staglia su un'altura il Guerrini lo fa derivare dalla forma dialettale del latino "locus eminens" (luogo eminente) in dialetto "löck hem". L'Olivieri lo deriva dubitativamente da un nome personale germanico e lo accosta al nome di Memmo (in dial. Mèm) di Collio V.T. Natale Bottazzi invece lo fa derivare dalla voce dialettale loer o luer (lupo). Al che il Guerrini fa osservare che dovrebbe diventare non Livemmo ma Lovere. Negli Anni Ottanta il gruppo del Museo Archeologico di Gavardo trovò in luogo un'ascia litica di serpentino della più profonda preistoria. Ma in tempi più vicini anche se antichi, Livemmo fu dapprima come indica l'etimologia riportata, una cascina montana (cioè un locus in dialetto löck) posta sopra un piccolo promontorio che si protende sulla valle del Tovere (tuer da torrens) e intorno alla quale si è sviluppato il paese, in felicissima posizione aprica, quasi un balcone aperto sopra un vasto panorama di valli e di monti fino al lontano orizzonte del lago di Garda. Il primo piccolo centro del territorio non sarebbe stato quello di Livemmo d'oggi ma Barbaine dove attorno alla chiesa di S. Andrea sarebbe sorto un piccolo villaggio poi scomparso. La chiesa di Barbaine fu il punto di convergenza ecclesiale servendo oltre che Livemmo dopo il suo sorgere anche Prato (poi Belprato) e Avenone. Il nome di Barbaine sembra solo agreste senza rimembranze storiche. Viene fatto derivare infatti come Barbariga, Barbasso, Barbato ecc., da "barbe" ceppi di legna tagliati per fare una spianata che diventò un prato nel quale venne eretta la chiesa dedicata a S. Andrea che veglia su tutta la valle. Incontrovertibile l'antichità della chiesa nominata in un documento del 1384 e la sua ampia giurisdizione su Avenone, Prato. Non è invece suffragata da alcun documento la ipotesi di P. Guerrini secondo il quale avrebbe avuto giurisdizione anche su altri centri della Pertica Bassa. Eccezione forse potè fare Presegno dato che i suoi parrocchiani venivano qui in processione ogni anno. La giurisdizione su Livemmo, Avenone e Prato è testimoniata da inventari stesi il 1 maggio 1475, e il 18 giugno 1503. Da questi documenti risulta che S. Andrea aveva fondi in Castrezzone, Burago e Calvagese oltre che a Avenone, Belprato e Livemmo dove anche le cappelle locali avevano proprietà proprie. Da Livemmo si raggiunge Barbaine con una stradetta che si distacca dal passo della Santa che a sua volta mette in contatto la Pertica Alta con la Pertica Bassa e più direttamente Livemmo con Avenone.


La tradizione vuole che la prima chiesa sia sorta sopra un sacello pagano dove si sarebbe adorato l'idolo Dagon dalla faccia di cane, simile all'egizio Anubi, protettore dei morti. Leggende locali vogliono che qui esistesse un luogo sacro ai morti e che qui venissero portati a seppellire cadaveri fin da Presegno. L'antichità della chiesa è testimoniata da consuetudini raccolte in un manoscritto datato nel 1704 dal rettore di Livemmo don Antonio Zambelli. Egli, infatti, attesta che fin da tempi antichissimi il primo di giugno di ogni anno convenivano alla chiesa per portare beni in natura come bocce d'olio e ceri da Ono e da Presegno e latte dai monti di Livemmo, Avenone e Prato (cioè Belprato). Grazie alla posizione centrale nelle Pertiche alla ricchezza di boschi e di prati ed anche ad un forno fusorio in attività per secoli, Livemmo andò specie dal sec. XV sviluppandosi ed arricchendosi di case signorili con loggiati luminosi, bei portali le cui sigle e date appostevi specie dei secoli XVI-XVIII indicano un periodo di prosperità, data da mercanti, artigiani del ferro e proprietari di malghe. La casa più solenne e bella, del sec. XVII si trova all'estremità occidentale del paese. Ha porte e finestre con eleganti stipiti di pietra e conserva qualche avanzo di decorazione. Le famiglie Redolfi, Solonio, Bonomini, Piccini, Turri, Zanoni, e Zanolini, costituirono il nucleo primitivo delle famiglie "antiche originarie" del Comune di Livemmo, nella "Università" della Pertica di Val di Sabbia. Corre fama in paese che le famiglie più distinte abbiano fatto la loro fortuna a Venezia nei più svariati commerci. In effetti i legami di Livemmo con quelli della Repubblica Veneta sono testimoniati dalla dedicazione della chiesa a S. Marco, costruita nel cuore del nuovo centro abitato e che portò via via all'abbandono di S. Andrea di Barbaine. Barbaine e la sua chiesa e Livemmo sarebbero stati incendiati nel 1438 dalle truppe di Nicolò Piccinino. Pur in tempi di intenso sviluppo non mancarono momenti tragici: devastatrice fu la peste del 1576 e quella del 1630. Grave pure la devastazione causata dall'alluvione dell'agosto 1896. Del solo Livemmo su 692 abitanti nel 1630 se ne salvarono soltanto settantadue e fu una pena per il parroco don Giovanni Rossini raccogliere tutti i certificati e chiarire tutti i diritti e gli oneri tanto della chiesa quanto delle Confraternite e dei singoli anche delle chiese di Prato, di Avenone e di quella di S. Rocco di Livemmo. Nel 1797 Livemmo fu uno degli epicentri della rivolta antigiacobina ed il sindaco generale della Valle Sabbia Giacomo Turrini dimorante a Livemmo fu a capo di ben 600 armati che arringò con caldi proclami. Nel 1805 vennero uniti a Livemmo, in un solo comune Avenone e Prato che però nel 1817 ritornarono ancora alla loro primitiva autonomia. Nel 1866 Livemmo venne attraversato dalle truppe del gen. Cialdini.


Una sistemazione generale della strada veniva decisa in via straordinaria dal Consiglio Provinciale il 31 gennaio 1916 mentre il 28 dicembre 1921 la Provincia si sostituiva ai comuni nel progetto di costruzione di una nuova arteria efficiente che venne ripreso nel 1931. Sostenitore della necessità di inserire il paese in un sistema viario migliore fu soprattutto il cav. Angelo Piccini. La soluzione venne avviata soltanto negli Anni Cinquanta mentre la sistemazione definitiva arrivò per il tratto Tavernole-Livemmo nel 1966, su progetto del geom. Ruffini cui venne aggiunto su progetto dell'ing. Vittorio Mazzetti il tratto Livemmo-Belprato. Nel 1921 veniva ultimata la progettazione della strada Nozza-Belprato-Livemmo-Navono realizzate però solo nel 1938. Nel 1940-1942 venne iniziata la strada di allacciamento della arteria del Caffaro con i paesi della Pertica Alta. Ma nel 1942, causa la guerra, la strada si fermò a Belprato. Livemmo fu solo toccata. Solo negli Anni Cinquanta la strada venne realizzata. Nel 1906 su progetto dell'ing. Giovanni Quarena veniva costruito l'acquedotto. Nel 1927 Livemmo entrò con Belprato e Navono a far parte del comune della Pertica Alta. Negli Anni Trenta venne eretto su disegno dell'ing. Franco Zamboni il monumento ai caduti.


Pur nell'ammodernamento delle strutture e delle mentalità, Livemmo ha conservato tradizioni popolari antichissime che hanno il loro momento espressivo nel Carnevale che presenta maschere originali quali "La vecia de la val" e l'"omasì del zerlo" assieme ad una più recente l' "uomo bifronte" . La prima maschera è la donna che porta il suo uomo seduto in un grosso cesto (detto "val") ad indicare forse secoli di schiavitù femminile; la seconda è un uomo che pure trasporta in un grosso cesto per raccogliere uva un altro uomo e probabilmente raffigura la diversità di condizione sociale.


ECCLESIASTICAMENTE Livemmo rimase per secoli il centro religioso della Pertica Alta. La chiesa di Barbaine tuttavia fin dal sec. XV venne gradualmente abbandonata dagli abituali fedeli che preferirono sempre più le chiese più vicine di S. Bartolomeo di Avenone, di S. Antonio di Prato. Da documenti raccolti dal parroco don Zambelli (1703-1764) risulta che uno dei primi parroci di Barbaine fu don Giacomo Patuzzi il quale nel 1475, di sua iniziativa, stese l'inventario dei beni mobili ed immobili, in comunione con le cappelle di S. Bartolomeo di Avenone, S. Marco di Livemmo e S. Antonio di Belprato, alla presenza di un rappresentante delle tre comunità regolarmente nominati dagli abitanti delle tre Ville. Nel 1491 il parroco don Giacomo Solazzi, parmense, trovando troppo isolata e scomoda la chiesa di Barbaine, specie nel lungo periodo invernale, cessò di officiare in quella chiesa e, acquistata una canonica presso la cappella dedicata a S. Marco Evangelista, si trasferì a Livemmo. L'intraprendente parroco fece compilare 1'8 giugno 1503 un nuovo inventario di tutti i beni immobili, a rogito del notaio Raffaele Materzanini di Vestone, suddivisi però fra le tre chiese di Avenone, Livemmo e Belprato. Si vuole che i beni derivassero da donazioni fatte dalle leggendarie generose Donne di Fusio - che probabilmente ebbero il cognome di Alborghetti o Alberghini - costituiti da vasti boschi, montagne pascolive ed anche da un forno fusorio del ferro e molino che potevano trovarsi tanto a Fusio quanto a Forno d' Ono, dato che in entrambe le località esistevano veramente. Il declino della chiesa di S. Andrea fu definitivo nell'anno 1600 quando il vescovo Marino Giorgi visitando la Pertica decretò la soppressione della parrocchia a Barbaine, lo smembramento del beneficio e la erezione delle tre distinte parrocchie di Livemmo, Avenone e Prato. Gli stessi abitanti delle tre ville avevano invocato il provvedimento perchè la chiesa era molto incomoda, specialmente d'inverno. Il 13 dicembre 1601 Avenone era staccata ed eretta in parrocchia autonoma con diritto di giuspatronato alla Vicinia per l'elezione del parroco. Prato restò unito ancora per l'opposizione del parroco di Livemmo, Lanfranchi, che non voleva cedere i suoi diritti su quella chiesa; ma nel dicembre 1602 il Laffranchi moriva, e il 7 gennaio 1603 il vescovo emetteva un nuovo decreto di smembrazione delle tre parrocchie e dei tre benefici parrocchiali secondo l'inventario del 1503. Restò alle nuove parrocchie l'obbligo che i rettori fossero tenuti a celebrare la S. Messa nella chiesa di Barbaine il giorno di S. Andrea, che ricevessero l'olio santo dal rettore di Livemmo, che questi fosse obbligato a salire alla vecchia parrocchiale di S. Andrea a celebrare la S. Messa nel giorno di S. Andrea, la seconda festa di Pasqua, a Pentecoste e nella festa dell'Annunciata, che ancora il rettore di Livemmo "inherendo all'antica obligatione che haveva o fosse consuetudine" fosse tenuto a celebrare la "S. Messa, li divini offici et particolarmente li vespri, tenendo però sempre il primo logho et posto più degno" nella chiesa di Prato la festa di S. Antonio. Nonostante che la chiesa dei Morti avesse perso il suo ruolo primario, la devozione continuò viva. Le popolazioni della Pertica, anche dalla lontana Presegno, continuarono a portarsi processionalmente alla chiesa in particolari occasioni e calamità. Curiosa l'usanza delle ragazze di baciare il boncinello esterno della serratura della porta principale (in dialetto bolsù), per trovare marito. In tale consuetudine vi è stato chi ha visto riti priapei per ottenere la fecondità della maternità. Ancor oggi nelle Pertiche di una ragazza che è costretta a rimanere zitella si dice: «L'è 'ndada a basà el bulsù». Rimasero intorno alla chiesa anche leggende paurose. I vecchi raccontavano che nella notte fonda, i viandanti che transitavano nelle vicinanze della chiesa di Barbaine, udivano strani lamenti, vedevano teschi ghignanti volare come i pipistrelli intorno ad essa ed anche scheletri abbracciati in una danza macabra, nonchè, tra le fiamme, ombre delle anime del purgatorio oranti e quelle dei dannati che invocavano una seconda morte per sfuggire all'eterno supplizio. La chiesa parrocchiale di S. Marco, già esistente probabilmente fin dal sec. XV venne completamente riedificata nel 1611 come ricorda l'iscrizione che si legge sull'architrave della porta laterale che dice: «TEMP.m H.D.G. KL. AP. 1610 AD ID / SEP. 1611 AERE CO. FT. PIE OB. FUND. TUS RENOV.m.» Sciogliendo le abbreviazioni dice: «Templum hoc dei gratia a calendis aprilis 1610, ad idus septembris 1611 aere comunis fuit pie oblationibus funditus renovatum». Un'altra iscrizione sulla porta maggiore ricorda invece la dedicazione della chiesa con le seguenti parole: «DEDICATIO HUIUS ECCLESIAE / AB ILL.MO AC RE.mo D.D. M. GEORGIO PERACTA / COLITUR PRIDIE KAL. MAI. ». La chiesa è stata arricchita da notevoli soase lignee eseguite nel 1634 e 1635 da Angelo, Battista e Paolo Pialorsi detti Boscaì. Entrando, sul primo altare è stata posta una statua di S. Andrea Apostolo eseguita recentemente in una bottega di Ortisei di Val Gardena mentre le decorazioni sono di Vittorio Trainini. Il secondo altare è dedicato alla Madonna del Carmine verso la quale è vivissima la devozione della popolazione e la cui festa il 16 luglio è considerata una sagra. In una ricchissima e pregevole soasa è raccolta un'icona della Madonna. Sul terzo altare è una tela di Pietro Scalvini raffigurante la Madonna con i S.S. Domenico e Luigi Gonzaga. Sull'altare maggiore nella ricca soasa dei Boscaì vi è una pala con la Madonna col Bambino fra i SS. Marco e Andrea firmata "Petrus de Maronibus F.". Belli i bancali settecenteschi del presbiterio. All'unico altare laterale di destra, dedicato a S. Carlo e S. Antonio è stata tolta la mensa e la gradinata per guadagnare spazio, ma restano la pala, discreta tela secentesca, e la bellissima soasa dei Boscaì di grande effetto ed originalità. La chiesa ha decorazioni settecentesche nel presbiterio, più recenti nella navata, completate da V. Trainini. Gli affreschi sono stati restaurati nella primavera del 1978 da Albini di Pontoglio. L'organo ad un manuale porta la targa "Fabbrica d'organi Bianchetti e Facchetti - Brescia - 29/9/1897" collocato in cantoria, sopra l'ingresso laterale destro della navata, chiuso nella nicchia della parete, incorniciato da un ricco frontale scolpito e dorato, opera dei Boscaì. Ha un prospetto di 21 canne di stagno, del Principale di 8; formanti tre cuspidi, la maggiore al centro. La porta della facciata è un saggio di arte locale, tanto negli stipiti marmorei quanto nella porta di legno che reca sculture ingenue e primitive di notevole valore storico, come l'alato leone che rappresenta il simbolo del titolare evangelista S. Marco quanto della tradizionale fedeltà della piccola repubblica della Pertica alla grande repubblica di Venezia. La massiccia torre campanaria, tutta in pietra locale, secondo una iscrizione scolpita sulla porta è opera di Giacomo Lascioli di Capodiponte in Valle Camonica, costruttore edile valente ma ignorato anche nella sua valle. L'iscrizione dice: «IACOBVS . LA / SCIOLA DACP / D. S 15 . APIO / 16 . 48». Sciolta dice: «Iacobus . La / sciola da Capodiponte / die 15 aprilis / 1648». Le campane vennero rinnovate nel 1921 e benedette il 12 luglio dello stesso anno. Sul vecchio sagrato, ora scomparso per la nuova strada camionabile esisteva una colonna votiva in onore dell'Immacolata di Lourdes, segnata «M . V . IM / 1858» che secondo il Guerrini era forse il primo ricordo delle prodigiose apparizioni della grotta di Massabielle che nel 1858 confermarono la precedente definizione del dogma dell'Immacolata Concezione (1854). La sagrestia è ricca di un bell'armadio del '700 che racchiude bei paramenti fra cui una pianeta violacea laminata in oro del 600, un paramento completo di stile neoclassico completo in raso bianco con ricamata la Madonna e santi, pizzi del '700. In canonica vi sono tele di Pietro Scalvini fra cui un ritratto di Papa Clemente X, quattro episodi della vita di Giuseppe l'ebreo, cinque paesaggi con uomini e corsi d'acqua.


A Barbaine rimane ancora la veneranda chiesa di S. Andrea più comunemente detta: "Morti di Barbaine" la cui prima notizia documentata si trova in una sentenza del 1384. Se ne parla poi nel catalogo capitolare del 1410; in quello Queriniano del 1532 (aumento di proprietà o di offerenti, oppure già allora inflazione galoppante, visto che rendeva allora 22 ducati e che S. Carlo, nella visita del 1580 ne registra cento?) e via via in occasione delle varie visite pastorali. Il nome di «Morti di Barbaine» risale con ogni probabilità a dopo il 1630. Si scavarono fosse comuni intorno al santuario che divenne poi meta di molteplici processioni per intercedere le più svariate grazie. Ne fanno fede i numerosi ex voto, fra i quali quello che ricorda che «perduta ogni speranza di raccogliere altri frutti della terra per una siccità sterminata di tutto luglio ed agosto 1774 le comuni circonvicine vennero unitamente e processionalmente all'antica chiesa di Barbaine. L'ultimo d'agosto e la notte seguente ottennero grazia. Così pure il tre maggio 1775 istesso ottennero la grazia». Semplici e austere le linee architettoniche, di impronta romanica anche se certo non armoniose dato che il campanile, ne rompe la simmetria sul lato di sinistra. Gli affreschi un tempo nel presbiterio sono stati staccati, ne restano invece sulle pareti delle navate. Su quella di sinistra rimangono una Madonna in ovale cui seguono S. Stefano, Cristo che emerge dal sepolcro, una SS. Trinità, con santi fra cui S. Giovanni, S. Andrea, S. Lucia ed altri. Sulla parete di destra, accanto alla porta laterale vi è una interessante raffigurazione dello pseudo S. Simonino di Trento, martirizzato con pinze e arnesi vari dai suoi carnefici, S. Apollonia, S. Andrea ed altri santi. Sull'altare maggiore esisteva una gran pala (m. 2,20x1,50) raffigurante la Madonna col Bambino con accanto S. Giuseppe e ai lati in basso i S.S. Andrea e Giovanni Battista, raccolta in una bella cornice dei Boscaì. Restaurata nel 1969 venne rubata nel 1971. L'edificio è rustico ma è notevole il campanile con le quattro aperture della cella a lieve arco acuto ed il coronamento in cotto che conclude il motivo romanico degli archetti a pieno centro e intrecciati. Nel 1966 la chiesa venne restaurata per intervento delle Fiamme Verdi bresciane. In particolare venne rifatto il pavimento e costruito l'altare liturgico rivolto verso il popolo. Ora la chiesa è stata sottoposta, grazie all'aiuto di un generoso mecenate, ad un radicale restauro che ha interessato le strutture murarie, la copertura, il pavimento e tutti gli affreschi. Si tratta di uno degli interventi più completi e più significativi fra quelli operati in Valle Sabbia. L'antico edificio è ritornato alle primitive forme e sono apparsi notevoli elementi decorativi. Le stesse Fiamme Verdi su progetto del 1967 dell'arch. Gigi Fasser, hanno costruito un cimiterino, i cui cippi portano i nomi dei partigiani delle brigate Perlasca e Matteotti caduti in Valsabbia. La lapide centrale porta le seguenti parole: NELL'AMORE CHE NON FINIRA' / NELLA SPERANZA DEL BENE / VIVIAMO ANCORA / SOPRA L'ODIO CHE CI UCCISE. Al passo della Santa, presso il crocicchio delle strade che congiungono le parrocchie di Avenone, Belprato e Livemmo, sorge una chiesetta dedicata a S. Rocco. C'è chi pensa che vi sia esistito il lazzaretto comune delle tre parrocchie, e quindi anche il cimitero. Ma è più probabile che esso sia da collocarsi a Barbaine. Altri sostengono che il santuario fosse dedicato dapprima a S. Apollonia e che solo più tardi sia stato dedicato a S. Rocco. In verità, fin dall'epoca della visita di S. Carlo (1580) vi si trovava una semplice cappella aperta sul davanti e chiusa da una grata di ferro. La cappella venne nel 1630 completata con la costruzione della navata e della facciata. Su di essa stava l'iscrizione: "IHS / S. Roche / pro populo isto / funde preces / ad Dominum / 1630 epidemie fatali tempore".


ECONOMIA. Il terreno è ricco di argille caoliniche molto plastiche, derivanti dalla decomposizione dei porfidi. Prati e boschi hanno costituito da sempre la ricchezza di Livemmo. Vi esistevano straordinari roccoli. Una grande uccellanda con "prese" copiose era al "Passo della santa" . Il forno fusorio durò fino al 1847. Nonostante le difficili comunicazioni sulla fine dell'800 e specialmente agli inizi del '900, Livemmo fu meta di un rilevante turismo che ebbe come il suo epicentro nell'albergo Prealpi, che nel 1907 ospitò l'on. Pompeo Molmenti e il musicista Chimeri. Allo sviluppo turistico diede impulso la Sezione bresciana del Club Alpino Italiano.


PARROCI: Benedetto Caggioli di Mura Savallo, (21 aprile 1774, 1786 promosso arciprete di Marmentino); Pietro Zambelli di Nuvolera, (n. 3 aprile 1787, nel 1804 passò parroco di Cazzago S. Martino); Luigi Rossini di Livemmo, (n. 24 maggio 1804 m. 16 giugno 1842); Maffeo Omodei da Piano di Bovegno, (1842-1843); Tommaso Simoni da Carvanno, (1844 - rin. 1848); Luigi Giuliani da Bagnolo Mella (8 novem. 1851 - rin. 1857); Giovanni Viotti da Pezzaze (n. 6 novem. 1857, nel 1860 fu promosso arciprete di Muscoline); Silvestro Regoli, (12 agosto 1860, rinuncia subito); Giuseppe Giacomini di Vestone (31 aprile 1861, m. 23 gennaio 1889); Massimino Contessa di Marcheno, (1889 appena sacerdote, nel 1897 fu traslato a Bovezzo); Giuseppe Maratti di Lumezzane S. Apollonio (1899-1904); Giuseppe Laffranchi di Avenone (23 dicem. 1904 - m. 26 maggio 1907); Francesco Maestrini di Dello, (10 maggio 1909, promosso nel 1916 a Flero); Giovanni Mimini di Calcinato, (economo spirituale nel biennio 1917-1918); Giovanni Freddi di Comero, (1919-1963), Giovanni Leonesio, (1963-1969), Paolo Mattini (1969-1976), Firmo Gandossi (1976-1980), Sergio Bulgari (1980-1982), Franco Bettinsoli (1982 ...).