AGRICOLTURA
AGRICOLTURA
Dai petroglifi camuni appare che a quel tempo la caccia era la principale attività di quelle popolazioni, seguita dall'artigianato e poi dall'agricoltura e dall'allevamento del bestiame. Attorno al 1500 a.C. si notano le prime bonifiche, manifeste nella coltura della Polada e che si intensificano con la civiltà etrusca (V. sec. a.C.), la quale vede anche l'introduzione della vite e forse di altre colture. Coi romani (all'inizio del II sec. a.C.), gran parte della pianura fu trasformata in superficie agraria, alternando colture cerealicole con vigneti e filari d'alberi. Molte ancora però le selve e gli acquitrini non ancora bonificati. Sempre più furono coltivati, fin dall'epoca romana, frumenti e viti; diffuso l'allevamento di ovini, equini e, forse, delle api. La terra è più frazionata in pianura, concentrata in collina e nelle valli. Si diffondono anche rape, lino, miglio, panico e fave e l'erba medica. L'aratro, già comparso con la coltura della Polada, è perfezionato. Si fanno formaggi, si allevano grandi mandrie di porci. Con il sec. II d.C. la piccola proprietà cede sempre più il posto alle grandi aziende, mentre la scarsità della popolazione porta ad una agricoltura quasi solo cerealicola di autoconsumo e pascoliva, che si impoverisce sempre più durante la crisi economica ai tempi di Diocleziano. Alla fine del sec. IV d.C. la grande proprietà in mano a "patroni", veri feudatari, andava assorbendo la piccola e media proprietà, con conseguente sfruttamento, denunciato anche da s.Gaudenzio. Le invasioni barbariche portarono ad una sempre più grave decadenza. La terra è sempre più incolta, la palude avanza. La rinascita partirà con il sec. VIII e IX dai monasteri fondati dai re longobardi, che diedero il via ad una vasta opera di bonifica, intensificatasi dopo il 1000 con la cessazione delle invasioni barbariche. L'azienda ha strutture sempre più feudali, specie dopo l'invasione dei franchi, con una curtis padronale al centro e i "mansi" o poderi dei coloni attorno. I grandi proprietari sono i monasteri o i conti rurali (come i Lomello, i Casaloldo, gli Oldofredi, i Martinengo). La tecnica agraria è ancora quella romana. Scompare quasi del tutto il frumento, soppiantato da miglio, orzo e segala, avvicendantisi col maggese. Vengono ridotti gli allevamenti, mentre l'olivo e la vite sono curati quasi solo sui laghi. Un risveglio si verifica nel sec. XI e XII con una vasta opera di bonifica e con il frazionamento delle grosse proprietà fra piccoli valvassori e milites che sfruttano intensivamente la terra. Accanto si formano considerevoli proprietà direttamente coltivate dai conti rurali e dagli eredi o usurpatori dei grossi monasteri. Dal 1250 al 1500 lo sviluppo agricolo è sistematicamente avvantaggiato dalla costruzione di una vasta rete di irrigazione e dal perfezionamento delle tecniche agrarie, dalla ridiffusione di cereali, di prati stabili e di vasti pascoli; e perfino degli agrumi (sui laghi). Compaiono nel '500 i grandi agronomi, come Agostino Gallo e Camillo Tarello, che perfezionano colture, tecniche e amministrazioni aziendali. Sempre nei Seicento vi è una nuova grave crisi agricola, conseguente ad una decadenza economica generale dovuta alla politica veneziana e alla rarefazione della mano d'opera cagionata dalle pestilenze. Rinascono forme feudali, si inaspriscono i rapporti sociali. La sola diffusione del granoturco frena, ma solo minimamente, il tracollo. La ripresa si verifica nel '700 con l'immissione di sempre più consistenti capitali nelle campagne da parte della borghesia mercantile cittadina. Si allargano le bonifiche e si migliorano tecniche e colture, ma allo stesso tempo avanza il capitalismo agricolo, con la trasformazione di coloni in salariati e conseguente sfruttamento. Accanto al granoturco si diffondono il pomodoro, il tabacco, la patata, il gelso e, sul Garda, gli agrumi. La Rivoluzione francese non lascia che segni di maggiore crisi e più grave miseria. La prima metà dell'Ottocento è dominata dalla diffusione della bachicoltura e dalla trasformazione capitalistica delle aziende, specie in pianura. Una grave crisi agricola, dovuta anche a situazioni di mercato internazionale, si presenta nei primi decenni dell'Unità d'Italia. La pellagra è lo spettro che corre per le campagne, assieme alla miseria. Contemporaneamente si va sviluppando sempre più il capitalismo agrario, con un sempre più attivo inserimento fra proprietà e mano d'opera di una nuova classe apportatrice di capitale, costituita da affittuali, o con il nascere di una nuova categoria di proprietari che più direttamente impegnano i loro capitali nelle aziende. Mentre la piccola proprietà va sfaldandosi, specie nella pianura, si allarga il numero dei braccianti agricoli. Grazie però alle organizzazioni di classe (con i primi scioperi ed agitazioni) la proprietà agricola e gli imprenditori agricoli vengono spinti ad un miglioramento che trova appoggi in nuove tecniche (rotazioni agrarie, macchine). Una spinta efficace viene anche dalla neo-fisiocrazia, impersonata da don Giovanni Bonsignori e dall'Istituto di Remedello, e dai cattolici in genere che spingono a forme cooperative ed alla salvaguardia della piccola proprietà ed al suo progresso. Dal 1880 in poi l'agricoltura bresciana subisce una profonda trasformazione con l'immissione di nuovi capitali e con il perfezionamento tecnico. Si allargano le opere di bonifica, si perfezionano nuove forme di coltura, si diffondono le forme cooperative (Casse rurali, Consorzi, ecc.) e la meccanizzazione. Un potenziamento viene dalla Cattedra ambulante, promossa da don Bonsignori e condotta poi da Antonio Bianchi e dalle Scuole di agricoltura (Remedello, Pastori, Bargnano, ecc.). Nuove difficoltà, subentrate nei due dopoguerra a causa della sovrabbondante mano d'opera e dalla scarsità di mezzi di produzione, vengono superate, mentre lo spopolamento delle campagne, accentuatosi dal 1955 in poi, pone nuovi problemi e nuove necessità, che però fanno dell' agricoltura bresciana una delle migliori d'Italia.