MARTINENGO CESARESCO Giorgio, "il superbo italiano"

MARTINENGO CESARESCO Giorgio, "il superbo italiano"

(Brescia, 6 marzo 1501 - 26 ottobre 1546). Di Cesare II "il Magnifico" e di Ippolita Gambara qd. Pietro. L'Odorici lo dice «uomo, per maestà della persona per grande animo e per alto sentire, veramente meraviglioso». Il Pasero lo indica come "splendido e spavaldo rappresentante" dei suoi tempi e della società in cui visse. Come primogenito fu dal padre stesso educato alle armi. "Spirito bizzarro e fiero , lo definisce Paolo Guerrini , milite coraggioso e intraprendente, ambizioso di gloria e vanitoso, si arruolò come capitano di fanteria e poi di cavalleria sotto Francesco I re di Francia e del suo successore Enrico III di Navarra; assai lodato come prode guerriero in molti combattimenti e principalmente alla battaglia di Stradella, ove si rese prigioniero al Principe di Salerno a patto di non essere consegnato al Marchese del Vasto con il quale aveva un vecchio e sordo rancore. Il Principe mantenne la parola data, e, ricevendo in compenso un generoso riscatto in danaro, lasciò libero il conte Giorgio, il quale ritornò a Brescia, dove il Governo Veneto gli aveva confiscati i beni perchè serviva nell'armata francese avversa a Venezia. I fratelli gli riscattarono i beni e visse nella città sua patria senza persecuzioni. I francesi lo chiamavano il superbo italiano per la sua spavalderia cavalleresca e per il fasto di cui amava circondarsi". Vinse giostre cavalleresche fra le quali quella tenutasi in piazza del Mercato Nuovo nel gennaio 1530 in seguito alla pace fra Carlo V, il Pontefice e Venezia.


Già violento e intollerante, colpevole di altri misfatti, nel 1532 venne bandito per l'assassinio compiuto in Orzivecchi del congiunto Battista Martinengo e della moglie, ma presto riammesso. Per un saluto non ricambiato nutrì un'irrefrenabile animosità contro Girolamo Martinengo di Padernello, superata solo per l'intervento del rettore veneto Ermolao Morosini. Nel 1539 era sorta questione nel Consiglio Generale della città per la scelta della famiglia patrizia che avrebbe dovuto ospitare la Duchessa di Mantova, la quale desiderava fare una visita a Brescia, un onore questo ambito da molti. Ma quando la Duchessa seppe del disaccordo fece sapere che sarebbe discesa alla locanda del Gambero. Saputo ciò il conte Giorgio costrinse a denari l'albergatore del Gambero a cedergli l'insegna, ch'egli nella notte precedente all'arrivo della Duchessa fece innalzare sulla porta del proprio palazzo; andato quindi il 14 aprile 1539 incontro alla viaggiatrice con grande seguito, la condusse a casa propria facendole osservare che discendeva alla locanda del Gambero. Un giorno del 1542 avendo saputo che un cavaliere padovano aveva parlato male di suo fratello mons. Girolamo, Abbate di Leno, andò a Padova, sfidò e uccise l'avversario, ritornando poi pacificamente a Brescia. Ma in quella circostanza il Governo Veneto scoprì che qualche anno prima, per alcuni contrasti ch'egli aveva avuto, aveva fatto ammazzare certi coniugi Martinengo, borghesi di Orzinuovi, onde fu bandito dalla Repubblica. Allora egli ritornò in Francia, ma non vi si fermò molto. Ritornato a Brescia, la sua alterigia e prepotenza gli accrebbero il numero dei nemici, specialmente nel patriziato. Con il re di Francia aveva tentato un accordo per avere il governatorato di una città della Lombardia che sapeva essere desiderata anche dal marchese di Vasto e per la quale aveva promesso al re tremila fanti e mille cavalieri. Scoperta la trama non si eclissò. Anzi, assoldò molti armati che tenne pronti ai suoi comandi. Il popolo sbigottito della sua spavalderia riteneva che possedesse un anello incantato e che avesse continui contatti col demonio dal quale era protetto. Liberato dal bando per i suoi omicidi dopo aver presentato la testa di un altro bandito, venne nuovamente condannato in contumacia per altri delitti e per le pendenze con la giustizia che aveva accumulato in precedenza e nelle più diverse circostanze. Assoldati bresciani di ventura, con essi partecipò alla battaglia di Stradella (1544), ove cadde prigioniero. Nell'anno seguente era ancora in Francia. Tornato a Brescia sempre spavaldo e sempre più odiato, si formò nel patriziato una specie di congiura per toglierlo di mezzo, capeggiata dal conte Avogadro. Il 26 ottobre 1546 mentre usciva con due amici e tre servi della bottega di un armaiolo dove aveva ordinato un'armatura per il re di Francia, all'altezza del Faro dei Mercanti (ora Piazza Tebaldo Brusato) venne assalito da una grossa schiera di armati comandati dall'Avogadro. Vistosi circondato non tentò nè la fuga né l'inutile difesa, ma si fece colpire da tredici pugnalate e da due colpi di pistola. Caduto a terra ebbe per l'Avogadro parole di disprezzo e prima di morire ripetè una sentenza greca. La sua morte venne vendicata dal figlio Sciarra, accorso dalla Francia, non su Luigi Avogadro che riuscì a fuggire, ma su un altro della sua famiglia. Il Rossi lo dice dottissimo nella lingua greca e latina, amante delle belle lettere, "che fiorivano in lui tanto nell'esercizio della prosa, quanto in quello del verso, sì che tenne grado eccellente tra i primi letterati de' suoi tempi". Il Da Ponte e Paolo Guerrini individuano in lui il pensoso gentiluomo raffigurato in una celebre tela del Moretto conservata alla Galleria Nazionale di Londra, nel quale altri avevano sempre individuato il figlio Sciarra. Del resto il ritratto del conte Giorgio, delineato dall'incisore milanese Paolo Maria de Abbiatis è evidentemente ispirato al famoso ritratto del Moretto. Di lui si conosce una "Lettera a Girolamo Soperchio" pubblicata a p. 128 della "Nuova scelta di lettere raccolte da Bernardino Pino" (In Venezia, s.i.e., 1582, torno IV).