MALEGNO (2)

MALEGNO (in dial. Malègn, in lat. Maligni)

Borgata a SO di Breno, sul versante destro della valle dell'Oglio e sulla destra allo sbocco del torrente Lanico, tributario di destra dell'Oglio. È a m. 320 s.l.m., a 67 km. da Brescia, Sup. Com. 7 kmq. Centri abitati: Malegno e Lanico (m. 285 s.l.m.). Lanico è attraversato dalla Strada Statale n. 42 e dalla ferrovia Brescia-Edolo; mentre Malegno è proprio allo sbocco della Valle di Lozio, posto stretto ai piedi del monte, in dosso solatio. Poco prima di Lanico inizia la strada provinciale n. 5 Malegno-Borno-Lozio, che attraversa tutto l'abitato. Lo sviluppo edilizio è orientato lungo questa provinciale e per Lanico lungo la Strada Statale n. 42. Abitanti (malegnesi): 650 nel 1819, 834 nel 1845, 911 nel 1851, 981 nel 1861, 1014 nel 1871, 1065 nel 1881, 1334 nel 1901, 1357 nel 1911, 1390 nel 1921, 1351 nel 1931, 1449 nel 1936, 1718 nel 1951, 1843 nel 1961, 1894 nel 1971, 2046 nel 1977, 2050 nel 1978. Qualcuno ha semplicisticamente fatto derivare il nome dal latino "malignus" = maligno, luogo affatto confortante. Altri dal reto-ligure latino maleg, malg = luogo ove si munge. Bonifacio Favallini, scartata l'etimologia da "Mallignus", è ricorso ad un "Mal-ennius" dal celtico "mal" = fiume, luogo "en" = cattivo, pericoloso; analogo a "L'enn-icus" ora Lanico, cioè vico dall'"Enno malo" perché sempre rovinoso per il precipitare di frane e di acque torrentizie. Altri ancora sono ricorsi a "mal" voce prelatina per monte, e a "mali" = sorbo, albero silvestre, o ancora da una qualità di vite.


Geologicamente è interessante il "marmo nero venato" detto anche di Lozio, scavato da strati calcarei raibliani. Stanziamenti preistorici sono documentati da due stele trovate in località Bagnolo-Ceresole Vecchia, nella Val d'Inferno, e classificate Bagnolo I (trovato nel luglio 1963) e Bagnolo II (agosto 1972). Ambedue i massi, dichiarati gemelli dagli studiosi, vengono fatti risalire al terzo millennio a.C. e ricordano massi già noti. Vi domina il disco solare, assieme a pugnali, asce, linee parallele, animali, aratri, elementi tutti che assegnano particolare importanza alle scoperte e le legano a stele antropomorfiche della Valtellina e dell'Alto Adige. La storia di Malegno fu legata spesso a quella di Cividate. Era infatti collegato con l'antica Vannia o Vania, poi Civitas Camunorum (ora Cividate Camuno) da un sentiero, e certo da un guado. Venne poi costruito un ponte, ricordato in documenti vescovili del 1234. Nel 1657 era in legno e coperto (imitando forse l'antico). Venne poi demolito nel 1883. Dell'antichissimo sentiero che congiungeva Malegno a Cividate vi sarebbe, secondo il Favallini, traccia nel nome Senden, da Senda = sentieri. Due le epigrafi ritrovate a Malegno. La prima: «V.F. / L. STATIVS / L. FIL. QVIR / VALENS / SIBI. (rosa) ET. L. / STATIO. CAPITONI / FILIO / CARISSIMO». Già nella chiesa di Sant'Andrea, poi sulla casa attigua alla chiesa, quindi in casa Simoni di Bienno, oggi conservata nell'Ateneo di Bergamo. La seconda: «SECUNDO / ET. FRONTASIAE / FRONTONIS. FIL / C. GAVIVS. QVIR / FRONTO / PARENTIB. PIISSIMIS». A epoca romana il G.A.M. camuno ha attribuito il ponte sulla strada antica di Malegno, manomesso in seguito e privato della porta di S. Marco che vi dava accesso. Il Rossi ricordava come avente residenza a Malegno la famiglia Elvia, che Livio (Deca 3) dice famosa in tutta Italia e di cui perirono Plutarco, Dione e Appiano. Malegno assieme a Ossimo avrebbe avuto inoltre rapporti con la famiglia Sasia, pure molto nota in Roma. Nel luglio 1968 nei lavori di costruzione di una casa venne ricuperata, mentre stava per essere gettata in una discarica, una statua dell'altezza di cm. 92. Ad un pilastrino che ha la base quadrata di cm. 30 è addossata una figura in altorilievo che rappresenta probabilmente Bacco. Le braccia sono aderenti al corpo (la destra è mutila) e le mani sostengono due gruppi d'uva, mentre nel basamento è un fregio floreale ed un cane che rincorre la lepre. Il viso della figura è in parte danneggiato forse per l'erosione dell'acqua. Verosimilmente la statua apparteneva ad un edificio romano. In luogo venne trovato il basamento di un'altra statua e parte di un boccale o di un'anfora. In territorio di Malegno in località Campedelli, sorse come trasformazione di una "statio romana" uno xenodochio o ospizio che, secondo una controversa lettura di un documento nell'841, il vescovo Ramperto assegnò al monastero di S. Faustino in Brescia. Dapprima alloggio di pellegrini, l'istituzione sarebbe stata secondo il Vielmi trasformata in Ospedale nel 1230, allargando poi la sua attività ai poveri della valle, grazie anche a donazioni continue di beni e di denari fra cui quelle di fondi da parte di Giovanni, detto Fugacio di Ossimo (10 maggio 1254) e di Goffredo da Ossimo (16 gennaio 1286). Nel 1268 l'ospizio sarebbe passato, secondo qualcuno, (ma attribuzione negata da Sina e Guerrini) dai Benedettini agli Umiliati. Il 17 dicembre 1302 il vescovo di Brescia lo investiva di nuovi beni. Abbandonato dagli Umiliati nel sec. XV, l'ospizio venne conteso tra il vescovo di Brescia e il Consiglio della Valle. Riservato più tardi al soccorso dei figli illegittimi o abbandonati, venne chiamato "Ospizio degli esposti di Valle Camonica" e fu con il fascismo incorporato dalla Provincia, che lo denominò "Pia Fondazione di Valle Camonica" (v.). Più recentemente divenne sede di Centro socio-sanitario. Come documenta Gaetano Panazza il nome del paese compare la prima volta nel 1156, in occasione di una rissa fra due schiere di Lozio e di Borno che, recandosi in processione a Cividate, si scontrarono nei pressi di Malegno. Nel secolo XIII le famiglie di Armenolfo e Oberto da Redona (o Regona), ricordati nell'accordo di Montecchio, abitavano a Malegno ed erano vassalli del vescovo per i beni che tenevano a Malegno ed a Erbanno. Le loro famiglie sono ricordate fino al secolo XV. Da un atto del 23 novembre 1234 risulta che Malegno, come feudo vescovile, in caso di cattura dell'orso, poteva tenere - come Prestine - una delle due zampe. Nello stesso documento è scritto che gli abitanti di Malegno, con quelli di Esine e di Cividate, si obbligavano a provvedere tre sublige (sottotravi) per la costruzione del ponte di Cividate. In seguito Malegno seguì da vicino le vicende di Cividate e quelle dei Federici. In ragione di ciò, con il bando contro di loro del Comune di Brescia, del 28 ottobre 1288, vengono esiliate le famiglie abitanti il castello ai Malegno e i loro discendenti. Tuttavia, nel 1299 Malegno continuava a corrispondere affitti e diritti al Vescovo di Brescia. Tra i corrispondenti decime al Vescovo vi è Obertus de Redona. Nel 1337 Malegno passò con la Valcamonica sotto il dominio Visconteo. Visconti e ghibellini erano i malegnesi nel 1363 e nel 1397. Nel 1407 Giovanni Maria Visconti, concede a Giacomo Macagno dei Federici di Angolo le terre confiscate in Malegno ad Antoniolo q. Marchesio di Grevo. Passato, nel 1427, sotto il dominio di Venezia il 7 novembre 1442 il comune di Malegno era sempre investito delle decime vescovili. In premio della fedeltà alla Serenissima contro i Visconti, nel 1448 il doge Francesco Foscari concedeva a Malegno particolari privilegi ed esenzioni da spese. Nel 1453 truppe guidate da Morello Scolari, al servizio di Francesco Sforza, giunte a Malegno trovarono per giorni una forte resistenza, facente capo a Bartolomeo Nobili di Lozio. Nel 1609 il Da Lezze segnalava fra le principali famiglie del paese i Casari, i Bonettini e i Vertua. Padre Gregorio nel 1688 definiva, per l'attività manifatturiera "competente" la popolazione malegnese e ne "rilevava le case considerevoli". Nel 1751 una immane alluvione precipitata dalla valletta Baldo, seminò distruzioni atterrando non poche case. Oltre alla durissima carestia, terribile fu la febbre petecchiale che scoppiò il 23 febbraio terminando il 5 settembre 1817. Per i colpiti dall'epidemia venne aperto un Ospedale nell'Ospizio degli esposti. Su una popolazione di 800 persone ne colpì 700, portandone 222 alla tomba. A loro ricordo venne eretto sotto il portico del cimitero un cippo a forma di antica ara romana con iscrizioni a ricordo della terribile epidemia. A metà dell'800 fra le famiglie più agiate erano segnalate quelle dei Bonettini, dei Pedercini, dei Vertua, dei Morgani, dei Rizzieri.


Nel 1848 il paese dava alla causa risorgimentale quattro volontari. Nel febbraio 1849 avendo il parroco don Giovanni Moraschini denunciato i soprusi di certo Vincenzo Rizzieri e fatto segno a veri attentati, dovette fuggire e rifugiarsi nel convento dell'Annunciata di Borno. Ne seguì una vera sollevazione popolare, che prese di mira il Rizzieri ed alcuni suoi sostenitori, fra i quali Antonio Morgani e Pietro Gaioni. La sollevazione si placò. Anche la casa della pia e benefica Marianna Vertua era stata fatta segno ad archibugiate. Il 24 febbraio 1872 un tentativo di distaccare la frazione "Ospitale" dal comune di Malegno e di annetterla a quello di Cividate, veniva respinto dal Consiglio Provinciale. Nel 1886 veniva fondata la Società Operaia Cattolica. Nel 1905 veniva affrontato il problema dell'acquedotto. Nel 1908 veniva riproposto con maggior vigore il problema della strada Malegno-Ossimo. I cattolici, guidati dall'avv. Livio Tovini, guidarono nel novembre 1908 le battaglie sindacali tra i lavoratori e la Metallurgica Rusconi. Il fascismo organizzò dapprima una sezione comprendente Cividate-Malegno. Turbolenze fra fascisti e socialisti si accentuarono dal novembre 1923 al febbraio 1924. Ciò portò allo scioglimento della sezione fascista Cividate-Malegno, che nel febbraio 1926 veniva ricostituita per la sola Malegno. Con decreto del 9 aprile 1928 (n. 884), il Comune di Malegno entrava a far parte del Comune di Cividate, che si chiamò Cividate-Malegno, dal quale divenne di nuovo autonomo con decreto del 2 ottobre 1947. Il 4 novembre 1934 veniva risistemato il Cimitero e inaugurato il Parco della Rimembranza. Nel 1957 veniva migliorata la strada Borno-Malegno. Nel 1964 venne per la prima volta disputata la cronoscalata, "corsa automobilistica" Malegno-Borno. Sospesa nel 1977, venne ripresa nel 1981, riservata ad automobili dalla classe 1150 a 2000. La corsa ebbe notevole successo. Nel 1970 veniva fondata la sezione AVIS, che nel 1975 aderiva al Gruppo Intercomunale Malegno Ossimo-Borno. Nell'anno 1967 veniva realizzato dalla ditta Clerici di Lovere il monumento ai caduti, costituito da due lastroni di granito, con i nomi dei cinquanta caduti e con una scultura di Ercoli di Bienno raffigurante una madre che cerca il figlio caduto sul campo di battaglia. Negli Anni Settanta venne eretto un nuovo Municipio. L' 11 dicembre 1979 nasceva la cooperativa "Rosa Camuna" per i ragazzi disabilitati o portatori di handicap medio-gravi.


ECCLESIASTICAMENTE Malegno appartiene alla Pieve di Cividate, dalla quale si staccò divenendo parrocchia autonoma nel sec. XV. Un documento del 19 gennaio 1400, ricorda la chiesa di S. Andrea fra quelle che devono tributi al vescovo di Brescia e come cappella dipendente dalla Pieve di Cividate. Il primo documento che la dice "parrocchialis" è del 1532. Intensa la vita parrocchiale, che ha visto l'attività di confraternita e più recentemente della Congregazione della Dottrina Cristiana, delle Madri Cristiane, delle Figlie di S. Angela, della Schola Cantorum, degli oratori maschile e femminile, dell'Azione Cattolica, in tutti i suoi rami, delle ACLI, del C.S.I. Un decreto vescovile del 2 aprile 1957 rettificava i confini della Parrocchia, facendoli combaciare con quelli del Comune. Chiese: S. Andrea - Antica chiesa parrocchiale. Edificio di stile romanico del sec. XIII rifatto nella navata nel sec. XV e ristrutturato nel sec. XVII. È molto dubbio che sia sorta su un antico castello. Fu chiesa parrocchiale, dal sec. XIV circa al 1760. La facciata è a capanna, semplicissima con portale del secolo XVI in arenaria grigia di Sarnico con due lesene decorate con incisioni a rombo, con capitelli adorni di ovuli e architrave con decorazione identica a quella delle lesene e l'incisione: "S. Andrea ora pro nobis". Sopra la porta è una finestra a lunetta. Nel lato nord è stato aperto, come ha scritto il Panazza, un interessante portale architravato molto ampio in pietra simona nel cui architrave, sorretto da mensole a gruccia, sono incisi tre dischi dei quali il centrale lievemente incavato si adorna di una croce greca in aggetto, mentre i due laterali sono incisi con rosette. Sulle spalle, all'altezza dei capitelli è la data 1420. A est del portale è una nicchia rettangolare. Secondo ancora il Panazza l'interesse maggiore, però, di questo fianco è dato dagli affreschi, purtroppo molto guasti e frammentari: dapprima è un grande san Cristoforo sotto cui si leggeva la data 1517; seguono due santi di scuola cemmesca e, in una lunetta, una Madonna col Bambino e Angeli, della seconda metà del secolo XV; seguono le scene della vita di san Simonino, in quattro riquadri, che possono dirsi prossimi alle storiette di san Lorenzo nella chiesa omonima di Berzo Inferiore. Sotto tali scene si intravvedono appena due riquadri forse di scuola cemmesca, uno con santa Lucia e un santo martire, l'altro con la Vergine in trono e Gesù Bambino. Gli affreschi sono stati restaurati nel 1987. Al termine della navata è un altro grande riquadro raffigurante una stanza in prospettiva con soffitto in legno entro la quale stanno una Madonna con Bambino e due Santi, sempre di scuola cemmesca, ma molto guasto. Così appena leggibile è un ultimo riquadro con sant'Andrea che reca incisa la data 1514. L'abside, un tempo coperta in parte dalla casa delle suore Canossiane, è sicuramente della prima metà del sec. XII e presenta, come ha scritto il Panazza, una bella muratura a conci di pietra grigia perfettamente squadrati e disposti a corsi orizzontali che si restringono man mano che salgono in altezza; è semicircolare e su una liscia zoccolatura si impostano le lesene che la dividono in tre scomparti, coronati da archetti pensili a pieno centro su larghi peducci lievemente concavi, al di sopra è la cornice con ampia gola. Nel lo scomparto centrale è ancora integra la monofora con il lato esterno della strombatura, liscio (l'interno è nascosto dagli affreschi) e con il concio terminale nel quale la ghiera è segnata da una incisione. Nello scomparto laterale verso nord, parzialmente ancora intonacato, è conservata parte della monofora, mentre al momento attuale non possiamo sapere se lo scomparto sud aveva pure una finestrella. Nel lato sud, di nessun particolare interesse, è inserito il campanile costruito in pietra a vista con cella sormontata sui lati da merli ghibellini, adorna di otto bifore con piccolo oculo, racchiuse in archi a pieno centro. Venne costruito negli anni 1576-1577 da mastro Giovanni Baziotto fu Daniele Zini di Ossimo e costò 390 scudi da L. 5 l'uno. All'interno, sotto circa due metri dal livello stradale, si accede per una rapida scala. L'unica navata divisa in quattro campate con volte a crociera, impastate su peducci modanati, risale ai primi decenni del Quattrocento e venne rimaneggiata nel Seicento. Il presbiterio è a forma pentagonale, coperto da volta, mentre in recenti restauri è stata rimessa in luce l'abside semicircolare del sec. XIII di cui rimane tutta la metà inferiore e tratto del presbiterio originale, mentre è stata totalmente distrutta la calotta. Partendo da sud, si trovano una grande statua in legno di S. Gaetano da Thiene, forse del Seicento, una tela (olio, cm. 160 x 130) raffigurante il Crocifisso con ai lati S. Carlo B. e S. Caterina di Alessandria firmata "Camillus Rama / F.", che il Panazza definisce discreta; una pala raffigurante la Madonna con Bambino e i SS. Rocco, Andrea e Caterina da Siena, raccolta in una soasa in legno con colonne adorne di tralci di vite. Fino al 1960 era la pala dell'altar maggiore. Sopra la porta che conduce al campanile adorna di qualche fregio, sta un affresco della fine cinquecento strappato nel 1960 nella parete sud del presbiterio raffigurante S. Giacomo. Segue la venerata immagine della "miracolosa Vergine Maria di Lama in Germania", copia di un'opera di Lucas Kranac, conservata a Maria Hilf. Seguono affreschi e frammenti di affreschi, fra cui una Natività della Vergine del sec. XIV, "non priva, scrive il Panazza, di influenze giottesche, una coeva figura di s. Giacomo. Nell'abside semicircolare, su uno zoccolo ricco di riquadrature adorne di finto marmo e di teste di animali, di anfore, di coppe di frutta, si snoda una suggestiva teoria di apostoli in grandezza naturale, purtroppo acefali, tre dei quali oggi distrutti, attribuibili secondo G. Panazza a un maestro del primo Quattrocento che ha subito l'influsso della cultura tardo gotica lombarda, in particolare di Giovannino De Grassi, di Michelino da Besozzo e di Andrea Bembo. Sul lato nord, interno all'arco trionfale vi è un frammento con le teste dei santi Pietro e Paolo, dell'inizio del secolo XIV (ma di gusto ancora romanico) a cui è stata sovrapposta una figura di Santo Pellegrino (San Giacomo) della stessa fattura e tipologia di quelli dell'abside. Segue tra l'abside e la porta laterale della vecchia chiesa un piccolo riquadro bordato di rosso con figura di Santo visto frontalmente che campisce su un fondo originariamente azzurro; indossa pelli sopra le quali è un mantello rosso soppannato di giallo; tiene nella destra un libro chiuso, ha barba e capelli neri e l'aureola leggermente rilevata. Il Panazza lo classifica come modesta opera della fine del sec. XIII o del principio del XIV. Al di sopra di questo riquadro è un altro, frammentario, con la Flagellazione, dell'inizio del secolo XV. Viene poi la piccola porta laterale della chiesa romanica con l'architrave internamente intonacato su cui è scritto a colore rosso Carolus Bo. Al di sopra dell'architrave sporge verso l'interno della chiesa (ma sempre sul verso della porta) una grossolana lastra in pietra con la faccia inferiore intonacata su cui è scritto con gli stessi colori e caratteri 1421. A questa prima apertura, nell'ingrossamento della parete, avvenuto nel secolo XV, si è addossata un'altra apertura con arco ribassato, assai rozzo e le cui spalle dimostrano i riquadri identici a quelli della zoccolatura dell'abside. L'altare maggiore è quello primitivo in muratura con blocco monolitico in arenaria verde rimesso in luce nel 1960 dopo la demolizione di quello barocco. Davanti all'altare è collocata una Pietà in legno del sec. XVII, di buona fattura. La volta del presbiterio è adorna di un riquadro di forma mistilinea con il Padre Eterno, e di un vecchio ovale con S. Andrea in Gloria, ambedue modesti affreschi del sec. XVII. Segue poi un grande riquadro con Madonna in trono e S. Giacomo (sec. XVI). Sulla parte nord, nel 1960, sono venuti alla luce alcuni affreschi raffiguranti l'Assunzione (fine Seicento), S. Francesco che riceve le stimmate (del sec. XVII), attribuibile secondo il Panazza ad A. Morone di Lovere e restaurati da B. Simoni. Verso ovest sono stati messi in luce ex voto datati 1487-1489 raffiguranti una Madonna, fra angeli, un Santo cavaliere, S. Antonio Abate, una Pietà, che Giuseppe Bonafini attribuì a Giovanni Pietro da Cemmo, mentre per alcuni di essi il Panazza pensa a Giovanni da Marone, rapportandoli a quelli di S. Maria in Silvis di Pisogne e di S. Giorgio di Zone. Seguono due tele: una raffigurante la Madonna del Rosario, fra i SS. Domenico e Caterina da S., attribuibile secondo il Panazza a Nicola Grisiani, l'altro la Pesca Miracolosa della fine del sec. XVI o degli inizi del sec. XVII.


Chiesa parrocchiale - Il 20 gennaio 1706 la Generale Vicinia (composta da 85 persone fra cui i Baffelli, Domeneghini, Scolari, Andreoli, Murachelli, Milani, Moretti, Casari, Delaidi, Donina, Bonettini, ecc.), decideva di erigere una "nuova chiesa più grande, più bella e più comoda". Scartata l'ipotesi di abbattere l'antica su suggerimento del parroco e di Antonio Spiazzi "pratico e perito di simil fabbriche fatto venire apposta" fu deciso di scegliere un posto più eminente "come nelle case Mariotti, sul dosso in mezzo alla terra". La Vicinia si rimise in tutto allo Spiazzi. La proposta venne approvata con 81 voti favorevoli e 2 contrari. Ottenuta in data 12 aprile la licenza di costruzione da parte della Curia vescovile si diede subito mano all'opera. La costruzione dovette essere terminata in una trentina d'anni, se già nel 1735 la famiglia Bonettini offriva l'altare di S. Carlo (completato della soasa nel 1780), e nel 1741 veniva posto l'altare maggiore. Nel 1755 don Pietro Francesco Ragazzi offriva l'altare dei defunti. L'onere finanziario sostenuto dovette essere particolarmente pesante se nel 1757, in occasione della ricordata alluvione, il Vescovo si sentì in dovere di scrivere a tutti i parroci della diocesi per invitarli ad aiutare il parroco di Malegno, che aveva visto distrutto tutto il beneficio e danneggiata la casa canonica. Nonostante ciò la chiesa era nel 1760 dichiarata come terminata anche se nuovi completamenti venivano compiuti in seguito. Infatti nel 1766, il parroco don Ragazzi donava l'altare della Madonna del Carmine; nel 1767 venivano eretti i tre portali in marmo (la data «D.O.M. et B. Andreae MDCCLXVII» si legge sulla cimasa del portale maggiore) nel 1768 i Fantoni scolpivano due statue (probabilmente dei SS. Gioacchino e Anna) ora nell'ancona dell'altare della Madonna del Rosario, nel 1803-1841 veniva costruita la scalinata di due rampe sovrapposte (la nicchia della Madonna di Lourdes nel secondo ripiano è del 1922). Nel 1817 veniva costruita la seconda sagrestia sul lato ovest. Negli anni seguenti venne costruito il campanile abbellito poi nel 1876, quando vi venne posto un nuovo concerto di campane fuse dalla ditta Pruneri. Gaetano Panazza la definisce come una delle chiese più interessanti del secolo XVIII nella Valle Camonica, per le forme architettoniche, per gli altari e per alcuni suoi dipinti. Lo stesso studioso definisce elegante la facciata, divisa verticalmente da due ordini di lesene (le inferiori di ordine tuscanico e le superiori di tipo composito, avendo il capitello adorno di bacellature e volute). Conclude la facciata un timpano ricurvo e affrescato la cui scena non è più leggibile. I fianchi sono estremamente semplici nella parte inferiore, adorni da riquadri del tutto lisci, arricchiti solamente da un portale per lato che riprende, in forme più semplici e misura più modesta, quello della. facciata. Tutti e tre i portali presentano gli originari battenti in legno settecenteschi riccamente adorni. La parte superiore si rastrema alla inferiore ed è spartita da contrafforti fra cui si aprono le finestre che danno luce all'interno. L'interno è ad una sola navata, divisa in due campate, con presbiterio rettangolare ma con coro pentagonale. La navata ha due volte a vela divise da due ampi archi traversi, mentre il presbiterio è coperto da una finta cupola circolare. Le quattro cappelle laterali, contenenti altrettanti altari, sono a forma di nicchia con volta a botte, divise dalle lesene corinzie, che corrono pure lungo il presbiterio e la controfacciata, lesene che sostengono un altro cornicione aggettato. L'arco trionfale divide la navata dal presbiterio, il quale è rialzato di cinque gradini rispetto alla navata stessa. Le pareti sono adorne in alto, fra un altare e l'altro, di nicchie, che contengono cinque grandi statue del Settecento in stucco bianco eseguite da Beniamino Simoni, mentre questi era a Cerveno. Le piccole aperture che si alternano alle cappelle (per il battistero, per i due ingressi laterali, per la cappelletti della Deposizione ecc.) hanno al posto dell'arco un motivo spezzato di mezzo poligono. Le statue della parete destra raffigurano santa Caterina della Ruota, l'Immacolata, san Giuseppe. A sinistra abbiamo invece i santi Anna e Giovanni Battista. Sono di qualità molto diversa: le tre figure femminili sono, a quanto scrive il Panazza, di gusto raffinato e influenzate dal Calegari; più statiche, ma con elementi più caratterizzanti nella fisionomia, le altre due. Una prima decorazione deve essere stata compiuta nel '700 e restaurata nel 1810 da Nicola Della Casa e dai Pellini, la successiva decorazione deve essere stata compiuta nella prima metà del sec. XIX, ad opera di Sante Pellini, che nel 1843 decorava sulla facciata. sotto il frontone S. Michele con cherubini e ai lati finte statue in chiaroscuro dei SS. Pietro e Paolo, ora cancellati dal tempo. Una nuova decorazione a fresco della volta venne compiuta nel 1939, in stile settecentesco, dai pittori Mario Pescatori e Battista Simoni, che ripresero le figure settecentesche e già rimaneggiate nell'800, raffiguranti S. Pietro e S. Andrea che ricevono il mandato apostolico, S. Andrea che contempla la croce del martirio e, nella cupola, S. Andrea in gloria. Nei medaglioni dei pennacchi sono dipinti i dodici Apostoli. Entrando dalla porta centrale, attraverso una bussola neoclassica si può vedere sulla controfacciata un dipinto ad olio su tela, raffigurante il martirio di S. Andrea e, sopra, la vetrata in legno eseguita nel 1939 dalla ditta Bontempi e Novaglia. Ai lati della bussola stanno due confessionali del sec. XVIII. Il primo altare, salendo lungo la navata da destra, è dedicato alla Madonna del Carmine (detto anche dei santi) donata alla parrocchia dal parroco don Ragazzi nel 1766. L'altare è in marmo rosa, mentre il paliotto ha una medaglia di marmo bianco con la Madonna e il Bambino. Nell' ancona a due colonne cilindriche e lesene con capitelli corinzi, culminante con una cimasa con due angeli, sta una tela di Domenico Carloni, raffigurante la Madonna col Bambino e i SS. Antonio da P. S. Siro (?), Antonio ab., Gregorio Magno, Lucia, Domenico e Giuseppe che il Panazza definisce "ottima" e data al 1766. Segue una porta laterale ed un piccolo pulpito in forme neoclassiche. Il secondo altare di destra, è dedicato alla Madonna del Rosario, forse costruito nel 1768 quando i Fantoni di Rovetta scolpiscono alcune statue (quelle di S. Gioacchino e di S. Anna) per questo altare. Di sapore fantoniano è del resto la medaglia raffigurante l'Annunciazione del paliotto, le statue dei SS. Domenico e Teresa. Una statua recente della Madonna, che ha certo sostituito una più antica, è racchiusa in una ancona a lesene corinzie e a cimasa spezzata e ricurva, sulla quale sono le statue citate, e con al centro del cimiero tre belle testine di cherubini. La nicchia è contornata di piccole tele ad olio, raffiguranti i misteri del Rosario, che il Panazza dice degne del Carloni. In una nicchia vi sono statue del Cristo, della Madonna e di due Angeli, secondo lo stesso Panazza, "imitazione di recente scuola fantoniana". L'altare maggiore eretto nel 1741, è ricco di marmi intarsiati con pietre di madreperla, adorni di festoni, uccelli e putti. Il medaglione centrale del paliotto porta la figura intarsiata di S. Andrea ap. La pala è costituita da un affresco raffigurante il martirio di S. Andrea, firmata nel 1889 da Antonio Guadagnini. É raccolta in una soasa marmorea settecentesca con lesene e capitelli corinzi e cimasa ed è sormontata da due statue di angeli ben modellate, eretta come dice il cartifoglio «Pie erogato aere MDCCLXXXIX». Due edicolette per le reliquie in marmi policromi, adornano il presbiterio. Più in alto, sulla parete sinistra, sta l'organo costruito dalla ditta Bossi e Grigolli e racchiuso in una cassa costruita nel 1949, che si conclude con due statue d'angeli che affiancano al centro il Re David. Ricca la cantoria settecentesca, con decorazione del sec. XIX. Sulla parete di destra sta una grande tela del 1961 di Giovanni Repossi di Chiari, raffigurante l'Ultima Cena. Il presbiterio è contornato da un coro realizzato nel 1896 da Luigi Pietroboni di Vione, che vi ha scolpito Cristo e i dodici apostoli e l'immagine del parroco del tempo e dello stesso scultore. La mensa nuova liturgica è dovuta alla ditta Poisa di Brescia ed è affiancata da due angeli che portano una cornucopia con lampada alti 68 cm. e di bottega fantoniana. Ricco di forme settecentesche il baldacchino che pende sull'altare. Scendendo per la navata di sinistra, si incontra l'altare dedicato a S. Carlo, donato dalla famiglia Bonettini, nel 1736, e perfezionato con la soasa in marmo bianco-rosato, donata dai fedeli nel 1780. Racchiude una pala raffigurante il Crocifisso con ai piedi SS. Camillo De Lellis, Carlo B., Francesco di Paola, Caterina d'Alessandria, che il Panazza attribuisce al salodiano Santo Cattaneo. Segue il pulpito di eleganti, anche se semplici, linee settecentesche e infine l'altare dedicato ai Morti, ricco di marmi di vario colore, con al centro del paliotto la Morte che regge la clessidra. La semplice ancona racchiude una tela ad olio, raffigurante l'Angelo custode che porta in cielo un'anima, opera del Carloni, databile al 1755, anno in cui l'altare fu donato dal sacerdote Pier Francesco Ragazzi. A destra dell'altare, in una nicchia, sta una statua di S. Rocco, del la fine del sec. XVII di discreta fattura. Segue infine il fonte battesimale in marmo di Vezza della fine del Cinquecento, racchiuso con un cancello in ferro battuto del sec. XVIII. Il quadro raffigurante il Battesimo di Gesù (olio su tela, cm. 101 x 85) presenta, secondo il Panazza, "elementi derivanti dal Fiamminghino". La sacrestia sul lato destro, costruita nel 1817, presenta nella volta il "Trionfo della Religione" dipinto da Santo Pellini nel 1843. Ha bei mobili del seicento e del settecento, ritratti di parroci. Vi sono conservati croci astili, un ostensorio, reliquiari, candelabri, ecc. del sec. XVIII, ed una pianeta in cordonetto verde con ornati a fioroni di velluto del sec. XVII. La statua di S. Giuseppe "lavorata in Tirolo" venne offerta dal Circolo Operaio Cattolico e inaugurata nel giugno 1905. Accanto alla nuova chiesa, il parroco don Ragazzi lasciava una propria casa, perchè divenisse la canonica. In seguito venne ampliata e nel 1926 risistemata dal parroco don Bentoglio. L' 11 febbraio 1879 entravano a Malegno le suore Canossiane, ospiti nell'ex casa canonica, che, sorgente accanto all'antica parrocchiale di S. Andrea, danneggiata nell'alluvione del 1857, abbandonata nel 1860, era stata acquistata da Marianna Vertua e da lei ricostruita e donata alle religiose, che ne fecero una scuola e l'oratorio femminile.


Scomparsa la cappella dedicata a S. ROCCO, citata negli Atti della visita del Vescovo Bollani in Valcamonica (1566) e di altri visitatori che la dicono poco distante dalla parrocchia, con un unico altare. Vi si celebrava solo il giorno di S. Rocco e vi aveva sede una Confraternita che recitava, nei giorni festivi, l'officio della Madonna. Segno di particolare devozione erano le segnalazioni di particolari indulgenze dipinte sul le pareti che il vescovo Morosini, in visita pastorale l'11 giugno 1652, ordinava venissero cancellate entro quindici giorni, pena l'interdizione, ipso facto, della chiesetta se non fossero state comprovate con il relativo breve pontificio. Dagli atti della visita pastorale del 1656 sappiamo che continuavano a convenirvi i Disciplini a recitarvi l'officio della Madonna e dei morti. Come "oratorium S. Rochi pro disciplini" la segnala il Faino nel 1658. Da quelli della visita del maggio 1667 sappiamo che i disciplini erano 32, con regole date da S. Carlo. La chiesa aveva pochissime entrate ed era "ben governata". Non aveva invece entrate secondo gli atti della visita del 2 settembre 1672 e non vi si celebrava "ex-consuetudine" se non la festa del santo titolare. Gli Atti della visita pastorale del 1683 registrano oltre la festa di S. Rocco, per voto della Comunità anche quella di S. Chiara. Vi era una cappellano. Il p. Gregorio, nel 1698, offre una curiosa notizia. Scrivendo di Malegno (a p. 273 dei suoi Curiosi trattenimenti) egli ci informa che "nell'oratorio di S. Rocco si fa pure menzione della famosa famiglia Frontone così detta dalla grandezza della fronte, la quale in Roma fiorì di nobilissimi personaggi, della Pretoria dignità", e riporta il testo della lapide. Nel 1703 si afferma l'obbligo di tre messe annue il 12, 13 e 16 agosto, nel 1715 si aggiunge che alla Confraternita sono iscritte anche donne. Nel 1777 non si accenna più a S. Rocco. Tuttavia il parroco nella sua relazione del 1807 annota che vi è una chiesa antica "ora sotto il titolo di S. Rocco che serve di cemeterio per li defonti". La chiesetta non è più nominata nel 1821 e in seguito. Numerose le santelle, specie lungo la mulattiera detta Aivulina verso Lozio, che la tradizione vuole edificate per allontanare spiriti che spesso vi comparivano. Particolarmente curato il "santello dell'ora" sulla strada Malegno-Lozio costituito da un'abside di forma pentagonale con relativa volta e con arco d'ingresso chiuso da cancellata edificato nel sec. XVII. Nell'interno vi sono affreschi molto rovinati di E. Peci, eseguiti nel 1919, quando la cappella fu restaurata per voto di guerra da offerenti privati, ma già nel 1652 il vescovo Morosini accenna alle sue pitture. Vi è un altare in muratura con paliotto dalle modeste forme seicentesche come del Seicento è tutto l'edificio. Il piccolo edificio è stato restaurato dagli alpini di Malegno nel 1977. Gli affreschi sono stati restaurati da Tino Belotti nel 1978. Più antica è la santella situata all'angolo di via Castello, sull'angolo con via Lauro, sulla casa n. 13. In una nicchia con volta a botte unghiata vi è un affresco datato 1470 raffigurante la Madonna con il Cristo morto sulle ginocchia e con ai lati due pontefici: S. Gregorio Magno e S. Pietro. Davanti alla nicchia nel sec. XVIII venne costruita una edicola chiusa da un cancelletto a tre archi, di cui il primo è abbassato rispetto agli altri, che poggiano su colonne tuscaniche. Sotto la nicchia sta un piccolo altarino. Particolare la devozione a S. Gaetano (7 agosto), la cui grande statua scolpita in tronco di fico veniva portata in processione, specialmente durante ostinate siccità. Altrettanto invocato S. Rocco, patrono del bestiame, nella cui festa si raccoglievano formaggio, latte e burro, consumati in simposi comuni fino a notte inoltrata fra scampanii e e canti d'osterie.


L 'OSPIZIO, come ha annotato G. Panazza, presentava due edifici di carattere monumentale divisi dalla vecchia strada che dal ponte di Cividate proseguiva verso Malegno.


A nord è la chiesa di S. Maria o dell'Epifania, a sud, con direzione nord-sud, era il lungo corpo della fabbrica dell'ospizio demolito nel gennaio 1970 per essere totalmente ricostruito. L'edificio, poi ricostruito, offriva parti molto antiche, fra cui un portico con affresco della fine del 300. Gran parte con arcate a pieno centro, loggiato, un muro con qualche apertura e sopra finestre rettangolari risaliva in complesso al principio del Seicento. Opere di restauro erano poi state eseguite nel 1874, su progetto dell'ing. Aureggi. Dall'edificio demolito nel 1970, sono stati recuperati un affresco della fine del '300 o inizi del 400, raffigurante il Matrimonio di S. Caterina con ai lati S. Maddalena e S. Antonio ab., un altro affresco strappato su tela, monocromo, a forma centinata raffigurante la Carità, opera di Antonio Guadagnini, una tela ad olio raffigurante Maria Cattanei in Moscardi del 1646. Quest'ultima, dal Panazza, è attribuita a Domenico Carpinoni, con influssi del Ceresa. V'è pure una tela ad olio, raffigurante Giov. Francesco Moscardi, firmata e datata: "Petro Mera / fiamengo fece / Venetia 1611". E, inoltre, fa mostra di sè un inginocchiatoio del Seicento, di forma manieristica. Dell'Ospizio precedente rimane la chiesa, dedicata ora a S. Maria e primitivamente all'Epifania o ai Re Magi venerati come patroni dei viandanti. La prima cappella sostituì forse un'edicola o un tempietto dedicato al dio Mercurio, anch'egli venerato da mercanti e viaggiatori. Della chiesa più antica rimane la parete orientale del presbiterio, con stretta monofora all'esterno, adorna di un arco segnalato da un'incisione e con infissa una piccola ara romana senza epigrafe. Inoltre è rimasto il campanile, di stile romanico, a conci squadrati. Nel lato sud c'è una porta con architrave rifatto, e con a fianco un concio, con resti di iscrizione in caratteri gotici. Al di sopra sta un'ampia monofora con arco a pieno centro e con interno a strombatura, oggi murata. Le bifore hanno solo una colonnina con capitellino e due archi a pieno centro. Il campanile si conclude con una cuspide a piramide. La campana è datata 1798. Il titolo dell'Epifania rimase fino al 1340 quando l'edificio venne ricostruito e, forse sotto l'influenza del vicino convento di S. Pietro, dedicato genericamente alla Madonna. Il vicario del vescovo di Brescia, nella sua visita alla pieve di Cividate nel 1490 registra infatti: «Est quoddam Hospitale in dicta terra de Cividate, habens Eclesiam iuxta pontem Olei sub vocabulo Sanctae Mariae». La chiesa venne ampliata e trasformata nel 1428 e poi agli inizi del '600 con forme barocche. Nella facciata è degno di rilievo il portale in pietra, che ha come architrave un'ampia lastra rettangolare in pietra simona, con bordo modanato diviso in quattro riquadri minori accostati uno all'altro. In quelli di destra si legge un'iscrizione in caratteri gotici. Eccone il testo: « A.D.M.CCC.XL. HOC / OPVS FACTVM FVIT / Q FECIT FIERI FRATER FRACISC' DVEZIA TVNC / MINIST' NVP HOSPITA L / EOTPR SOMA FRVMENTI / VALEBAT LIB' VI IPRL». A fianco, in un riquadro più piccolo, è incisa una croce decussata con le braccia adorne di motivi decorativi a cordoncino; croce affiancata nei quattro angoli da disco adorno di stella, mentre in basso ai lati dell'asta della croce sono altri due dischi più grandi pure con stella. Il tutto con un gusto ancora altomedievale. Il terzo quadro procedendo verso sinistra, di forma quasi quadrata, reca una corona ad alto rilievo con decorazioni a mani, contenente una mano benedicente scolpita in modo piuttosto grossolano. L'ultimo riquadro non è incavato come gli altri ma presenta la superficie allo stesso livello dei contorni degli altri riquadri e reca la seguente iscrizione: «A.D.MDCXXIX i IACOBO ALBTONO / IACOBO CATANE B / REINIGENA PRAE / SIDE PAVLO SALADA / PVEN CAMVNIESI / XENODOCHY MINI / STRO SOMA FR / VMETI VALEBAT / LIB VENET CLXXX SEG / CXXII MILY CXV». Il listello inferiore dell'architrave reca poi quest'altra iscrizione: «MDCXXIX VALEBAT VINI LIB. XXXXXX MDCXXX ET MDCXXXI ERAT PESTIS». L'interno è ad aula unica con volta a botte a sesto leggermente rialzato e piccolo presbiterio con abside rettangolare pure con volta a botte. L'altare maggiore in marmo nero e con intarsi colorati, è di notevole interesse. La pala è racchiusa entro una cornice in legno intagliata e dorata del Settecento. La tela ad olio raffigurante la Adorazione dei Magi con san Siro e santo Stefano (altezza m. 1,80 x 1,60), reca la seguente iscrizione: «EXPENSIS / PIOR VIROR D.D. / AVGVST. MALAGVDI / CIVITAT. ET / MICHAELIS BONARIVA / MALIGNIENS. 1609», che ci indica come il dipinto fu donato da Augusto Malaguzzi di Cividate e da Michele Bonariva di Malegno nel 1609: l'attribuzione a D. Carpinoni può essere accolta. Sulla parete destra della navata è la tela con Cristo in croce circondato dai santi Giovanni Evangelista, Andrea, Domenico, Francesco, Luca ev., Giovanni Battista e dalla Madonna; modesta opera (altezza m. 1,75 x 1,14) del sec. XVII di gusto ancora manieristico, forse derivata dal Carpinoni. A sinistra è un piccolo altare del sec. XVII in marmo grigio e rosa entro una nicchia ricavata dalla parete, con ancona marmorea dalle lesene corinzie architravate di colore grigio mentre l'architrave è in muratura. Si tratta di lavoro neoclassico. Contiene il quadro, con bella cornice del secolo XVII, raffigurante la Madonna col Bambino esso pure del secolo XVII forse assegnabile al Grisiani. Pendono nella navata tre eleganti lampade a cipollone, una più grande delle altre, con tre volute da cui partono le tre catene di sostegno, in lamina argentata del sec. XVIII. Nell'architettura civile è da ricordare la Casa Bonettini con il portale datato 1491, in arenaria rossa.


ECONOMIA. Malegno visse di agricoltura e presto anche di attività manifatturiere. Grazie al terreno ritenuto da sempre buonissimo, nel 1610 oltre che "biade" produceva vini "buoni ma fumosi fuor di modo". Nel 1819 produceva secondo il Marinoni Da Ponte "granaglia, fieno, foglia di gelso, ma segnatamente vino, il quale vi riesce di buona qualità, ed ha pascoli e boschi fra cui particolarmente ricco di legne cedue quello di Guna. Nel secolo XIX e ancora nel 1870 i bachi producevano anche 3 mila kg. di bozzoli l'anno. Agli inizi del sec. XX erano apprezzati i carciofi piccoli ma saporosi prodotti in luogo. Ancora nel 1906 vi veniva promossa la viticoltura. L'occupazione agricola è dedita in particolare alla produzione di uva e foraggi, produzione quest'ultima che permette però soltanto un limitato allevamento zootecnico. Malegno è favorito dall'acqua del torrente Lanico che, incassato in una stretta valle, si è prestato facilmente allo sfruttamento idraulico, circondato dai boschi e dalle pinete di Lozio e Ossimo atti a fornire legna per opere di carpenteria e per la produzione di "carbonella" per le fucine. Il paese, a metà strada fra due importanti centri come Breno e Cividate, e in collegamento con Borno, Lozio e la Valle di Scalve, ha sempre offerto ottime condizioni per lo sviluppo della lavorazione del ferro. Grazie a queste premesse si sviluppò probabilmente fin dal sec. XIV a Malegno la lavorazione del ferro, specie attraverso piccole officine a conduzione familiare, con quattro o cinque occupanti. Nel 1573 le fucine in attività erano cinque (tre ad un fuoco, una a due fuochi, una a tre fuochi) con sei magli, di proprietà di Giacomo Vertua, di Michele Pedercino, di Andrea Maifredi Casari, degli eredi di Bernardino Bilini e del notaio Giovanni Luca Vertua. Come ha scritto Oliviero Franzoni, già da allora Malegno si collocava al sesto posto tra i paesi valligiani per numero di opifici, ma già era ben delineata la strategia operativa perseguita dai ferrai locali: più che badare alla quantità dei manufatti essi puntano ad un elevato contenuto di specializzazione e ad una maggior cura del prodotto finito. I fucinieri malegnesi, costretti ad acquistare la materia prima, per l'inesistenza in loco di miniere, presso i forni fusori dislocati lungo la Valle, orientarono il loro lavoro soprattutto alla preparazione di mestoli, grattugie e palette del fuoco (così come Bienno tendeva al monopolio di lamiera, canali da gronda, padelle, secchi e fondi di bilancia), prediligendo questo più costoso e redditizio tipo di utensili, per i quali erano riusciti a conquistarsi l'esclusiva, all'acciaio, ai vomeri, al tondino ed ai cerchi da carro che altrove invece si producevano su vasta scala. Nel 1610 vi esistevano due mulini, una "razzica" e quattro fucine, dove si fabbricavano "manestradori, padelle ecc. L'attività manifatturiera di Malegno continuò nel sec. XVII, basandosi sempre su una produzione di ferro "quantitativamente limitata, ma eccellente e tecnologicamente accurata" che permise di assicurare al paese un benessere certo non comune ad altri centri camuni. Non mancarono di ripercuotersi anche su Malegno le susseguenti e gravi crisi che accompagnarono la decadenza della Repubblica veneta. Nel 1709 i fucinieri di Malegno lamentavano l'esaurirsi delle miniere locali, il disboscamento e altre gravi minacce. Nel 1739 gli stessi facevano presente come fosse ridotta "quasi a nulla" rispetto al secolo precedente, la "negoziatura de mescoli di ferro". Ma l'attività manifatturiera locale a differenza di altri centri trovò in sè la forza di ripresa e le fucine salirono da 6, quali erano nel 1652, a 8 nel 1770, e ad una decina nel 1784. Nel 1753 la lavorazione del ferro allineava una decina di artigiani, fra cui quattro o cinque Scolari, un Caj, un Gaioni, un Lavarino ecc. Nonostante la gravissima inondazione del 1757, il numero degli artigiani del ferro è nel 1770 invariato: Michele Scolari e fratelli fu Antonio, Stefano Barcellandi con due figli, Giambattista Canossi, Caterina vedova del fu Matteo Gaioni con lavoranti, Francesco Caj con lavoranti, Giambattista Scolari pure con lavoranti, Antonio Cesani con due figli, Antonio Scolari con un figlio e lavoranti, Michele Delaide ed il dr. Giovanni Antonio Pisani. Come risulta dal «Piedelista delle ferrareccie, che vengono fabbricate annualmente in Valle Camonica formato colle note accurate de fabricatori» nel 1783 la Valle produceva in grande quantità ferro lungo, poi, in ordine decrescente, vomeri, cerchioni da carro e da carrozza, acciaio, canali, mescoli, lamiera, chiodi, padelle, grattugie e palette del fuoco, per un totale complessivo di 84.090 pesi, pari a circa 670 tonnellate di ferro lavorato all'anno, destinato per metà ai consumi interni della Serenissima e per l'altra metà all'esportazione nella Lombardia teresiana. Malegno, con 2 fucine grosse ed 8 «sitiladore», vi contribuiva con 4.390 pesi come si può rilevare dal citato "Piedelista" delle ferrarezze, di "ferri longo", di mescoli, e di "gratarole e palette de fogo". Nonostante le crisi che si susseguirono nei tempi napoleonici la produzione malegnese continuò ad aggirarsi sui 4000 pesi. Nel 1819 vi erano, a quanto ha registrato Maironi Da Ponte, ancora sette fucine da piccolo maglio e tre del grosso, alcuni edifici per la segatura dei legnami, altri per la tintura di drapperie ed una fornace di calcina con altre, per la cottura della terraglia. Vi erano 283 possidenti estimati. Bortolo Rizzi nel 1870 registrava: «Uno dei mezzi principali di sussistenza pei braccianti ed operai di Malegno sono le fucine; tre delle quali a fuoco di fusione ed a grosso maglio, altrettante a piccolo fuoco: in complesso danno 2200 quintali di ferro in verghe annualmente. In altre fucine, che ascendono quasi ad una dozzina, si lavorano ramajoli e le mestole forate: manifattura assai pregiata per l'eccellenza del lavoro, e si spediscono per tutta l'Italia nella quantità d'un 60 quintali ogni anno. Sei molini esistono ivi, a congegno ordinario di mole granitiche, per la macina dei cereali; ai quali devesi aggiungerne un settimo, a cilindro, di recente costruzione, che ha annesso un eccellente brillatojo per il grano". Nel 1890 Battista Vielmi produceva lavori in ferrostagnato. Nel 1904 si segnalava un fabbricante di mestoli. Nel 1908 veniva operato un raggruppamento delle officine locali e nacque, per iniziativa di Antonio Rusconi, una nuova azienda che si chiamò Metallurgia Antonio Rusconi e che sorse tra la ferrovia e il vecchio stabilimento utilizzando le acque del torrente Lanico. Restarono autonome le fucine della famiglia Nobili, che cesseranno la loro attività solo negli Anni Sessanta. Si dovette a questa azienda la costruzione nel 1918, della centrale elettrica di Malegno, assorbita nel 1925 dalla ELVA (Elettrica di Valcamonica), che nel 1929 conglobò anche la Metallurgica Rusconi, grazie pure all'impianto idroelettrico che, ancora nel II dopoguerra, produceva 20 milioni di kwh annui. Nel 1937 si trasferisce a Malegno da Sellero la Società Elettrosiderurgica di Vallecamonica (SELVA) potenziata da Giovanni Murachelli e dall'avv. Maffeo Gheza, che costruì un nuovo stabilimento per la produzione di acciai speciali inossidabili con caratteristiche apprezzate sui mercati europei. Grazie a questo grosso complesso, che nel 1957 arriverà ad occupare 249 dipendenti, Malegno occupava nel 1951 il 2° posto nella graduatoria dei comuni industriali della Vallecamonica (dopo Breno) e il 13° posto in provincia salendo al 9° posto (II° in Vallecamonica dopo Piancogno) nel 1961. La saturazione urbanistica territoriale farà sì che nel 1971 e ancora nel 1981 finirà con occupare il 65° posto nella graduatoria provinciale e rispettivamente l'11° e il 12° in Valcamonica. Nel 1979 funzionava ancora un mulino. Nel 1979 assieme a altre aziende era frattanto sorto a Malegno, su un'area di centomila metri quadrati, un nuovo stabilimento della SEII per la produzione di acciai speciali, tondi, esagoni, piatti, rettificati e trafilati. Lo stabilimento nel 1979 dava lavoro a 245 dipendenti. Attiva anche l'ENEL che assorbe un buon numero di unità lavorative. A Lanico esiste anche una tipografia. Malegno è pure sede di una agenzia della Banca della Valle Camonica. L'emigrazione, un tempo notevole, si è andata ultimamente limitando, dirigendosi particolarmente verso la vicina Svizzera, oltre che verso la Francia.


Fra i personaggi che illustrarono Malegno sono da ricordare: P. Zaccaria da Malegno, zelante missionario cappuccino ucciso in Brasile il 13 marzo 1901 (v.), Marianna Vertua (v.), benefattrice, Giacomo Lorenzi (v.), letterato e pioniere del Movimento cattolico.


PARROCI: G.B. Romelli di Cividate (dal 1603 al 1666); Stefano Romelli (30 luglio 1660 - m. agosto 1702); Marino Martinelli (dicembre 1702 - giugno 1737); Pietro Antonio Ragazzi di Ossimo Inf. (17 dic. 1737 - m. 11 febbr. 1766); Bartolomeo Rizzoni di Santicolo (settembre 1766 - m. l'8 maggio 1776 a 56 anni); Giacomo Rizzoni di Santicolo (gennaio 1777 - 3 marzo 1790); Antonio Mal (1 sett. 1790 - maggio 1795); Valentino Camosci (agosto 1795 - m. il 9 aprile 1824); Giovanni Moreschini di Paisco (2 agosto 1824 - 1855); Giovanni Castagna di Cividate (nov. 1855 - 7 febbr. 1881); Clemente Clementi di Cortenedolo (2 ott. 1888 - 22 marzo 1903); Stefano Regazzoli di Berzo Demo (3 sett. 1903 - 8 apr. 1924); Giovanni Bentoglio di Pompiano (26 ottobre 1924 - m. il 22 maggio 1951); Giacomo Giovanelli di Iseo (25 nov. 1951 31 agosto 1956); Antonio Medici di Lovere (28 ott. 1956 - 1975); Enrico Melotti (1975...).