FILANDE e Filatoi

FILANDE e Filatoi

Si diffusero nel Bresciano per influenza francese (in Francia erano fiorentissimi a Montpellier, Arras, Lione) e, di riflesso, in regioni italiane come quella di Milano, Bologna, Vicenza ed altri luoghi che assorbirono la massima parte della pur copiosa produzione della gelsicoltura e della bachicoltura bresciana. Filatoi per lo più artigianali si diffusero fino dal sec. XVI ma di essi non vi sono notizie sufficienti. Sembra che nel 1522 Brescia avesse chiesto a Venezia il privilegio di fabbricare velluti allora concesso ai Veronesi. Il primo serio tentativo di iniziare anche nel Bresciano l'industria del setificio, dopo la resistenza dei setaioli milanesi all'epoca del dominio francese, si verificò solamente nel 1527 ad opera di un Lorenzo Macerdotti o Masserdotti e di un suo socio, i quali ottennero il privilegio di piantare due filatoi "da torzer la seda e stammo de far sarze et revo de fusi n. 96", con operai forestieri che "sapiano ben incarnare et dopiare la seda, quali habiano ad insegnare a quelli de questa citade che voranno imparare, perché qua non gli é chi sappia ben tal arte et exercitio", con grande utile "a cittadini zentilhomini artesani et merchadanti" e senza alcun nocumento per gli altri filatoi già esistenti in città. Il privilegio del Macerdotti, con i relativi capitoli, emanati con la Provvisioni, 27 giugno 1527, gl'imponevano fra l'altro, che le "maestre" avessero l'obbligo di insegnare l'arte nelle case private. I manufatti dovevan esser ceduti ai mercanti locali, assicurando loro un determinato margine di guadagno e tutti ne avrebbero tratto beneficio, i produttori di "galette", i commercianti non più costretti a rifornirsi a Milano, Bologna, Verona ed altrove, i sarti ed infine il pubblico. Ostacoli gravi si frapposero alla diffusione degli opifici, specie da parte di Venezia. Nel 1542, infatti, l'Arte della seta di Venezia, produttori e negozianti, senza grande difficoltà, fece produrre un decreto di chiusura di tutti i filatoi della seta esistente nelle provincie di Terraferma, suscitando infinite proteste, non tanto dai bresciani che aveva pochi filatoi quanto dai vicentini. A seguito di un tentativo espletato nel 1552 attraverso l'invio di un gruppo di oratori, fra i quali spiccava Giacomo Chizzola, che della gelsicoltura era stato un pioniere, e di un' altra perorazione del 1554-1555, solo il 13 marzo 1562 Venezia rilasciò il privilegio già rilasciato ai veronesi, non solo per i velluti ma anche di ogni genere di panni serici, senza che per questo venissero tuttavia aumentati i già gravosi dazi sulle "gallette" e sulla uscita delle sete, sì che i devotissimi bresciani avessero modo "di spender il tempo suo con frutto, et di abbandonar li mali costumi che dall'otio provengono per ritrovarsi hora questa Città populosa et priva di tale et altre arti et commertii". A Brescia fu costituita una magistratura comunale di tre deputati ad sericum per la regolamentazione e l'incremento di ogni attività connessa colla nuova industria e col commercio dei manufatti; ma le maggiori difficoltà, soprattutto nei primi tempi, si incontrarono nella ricerca di operai specializzati forestieri che si trasferissero in città, vi piantassero telai, assumessero la direzione tecnica del lavoro, istruissero le maestranze locali, ai quali vennero proposti numerosi contratti di ingaggio a patti estremamente favorevoli, alloggio gratuito, sovvenzioni in denaro, esonero da ogni incarico tributario, regalie di produzione. Il primo maestro invitato a Brescia fu un Gerolamo Rocchi milanese, ma sembra che, stretti i patti per l'impianto di sei telai "ad laborandum veluta nigra more ianuensi", costui non si sia più fatto vedere. Seguirono Paolo Zambelli e poi il piacentino Gerolamo Malnepoti ed altri ancora negli anni successivi, particolarmente dal Milanese, sia a stipendio pubblico, sia per conto di privati che ottenevano grossi mutui dalle casse municipali coll'impegno di allestire e di far funzionare nuove tessiture, garanti amici e parenti bresciani, fra i quali si ricordano: Giovan Pietro Inverardi, Giulio Amigoni, Giovan Battista e Paolo Buccelleni, Giovan Battista Rodengo, Pietro Cirimbelli ed altri nei decenni seguenti. Qualche telaio cominciò pure a produrre in alcuni centri della provincia, ad Asola, a Chiari, a Salò, a Rezzato; ma più che altro vi lavoravano filatoi. Benchè la licenza governativa fosse soltanto triennale, i bresciani pensarono di non poterne affatto tener conto ed allargarono la produzione dai velluti ad altri generi di tessuti serici "altre cose di seta eccetto damaschi et rasi", offrendo in tal modo giusto motivo a proteste ed a ricorsi da parte di quanti se ne ritenevano danneggiati, primi fra tutti i setaioli veneziani. Intervennero alla fine i Provveditori alle sete della capitale che nel 1570 a Brescia, come negli altri luoghi della Terraferma, fecero sigillare tutti i telai in opera e ne sequestrarono la produzione, nonostante le resistenze degli ancor pochi "velludari" bresciani e soprattutto dei "maestri" assunti in città con un lungo contratto di lavoro. Ma più tardi subentrò una maggiore tolleranza e pur lentamente l'industria tessile bresciana della seta riprese il suo cammino; ancora una volta lo interruppe la terribile pestilenza del 1575-77; i maestri di bottega ed i mercanti si riunirono con i merciaioli ed i sarti, entrando essi pure a far parte della Università della Mercanzia, il maggiore organismo regolatore della vita economica locale. Avvalendosi di manodopera specializzata milanese i filatoi bresciani si moltiplicarono, per cui nella seconda metà del sec. XVI dalla città la lavorazione serica si diffuse in provincia anche se la filatura della seta rimase largamente inferiore a quella di altre città lombarde. Agli inzizi del sec. XVII non pochi filatoi bresciani contemporaneamente trattavano il lino e la seta; anche il Catastico ricorda le azze di filo di seta tratto dalle "galette" (bozzoli) prodotte dalla diffusa gelsicoltura e bachicoltura bresciane. Al particolar lavoro di "incarnar la seta et indopiare le azze", oltre che in Riviera (a Salò se ne faceva grande traffico), anche in città attendevano uomini, donne e fanciulli per più mesi all'anno e tutti eran tenuti alla consegna giurata dei prodotti che dovevansi essi pure obbligatoriamente inviare a Venezia. In Brescia una decine di filatoi specializzati trattavano esclusivamente la seta; altri lavoravano nel territorio e non pochi telai avevano pure incominciato a tessere per conto di terzi oppure su basi organizzate. Il Comune, finalmente ottenuta la licenza governativa nel 1562, sovvenzionò le manifatture per la produzione dei velluti e dei fustagni, favorendo la chiamata in città di operai, specie milanesi, ad insegnare l'arte ed a costituirvi maestranze capaci di utilizzare il filato serico di produzione locale. La tessitura dei velluti bresciani, e dei "rasi vel ormesini velutati" rimase largamente inferiore per volume e per regolarità di produzione alla richiesta del mercato cittadino, nonostante le generose sovvenzioni ed i premi in denaro disposti dal Comune allo scopo di sollecitare l'arrivo di più numerosi imprenditori (36); nè di molto aumentò nel corso del secolo seguente (37). Intense e di notevole valore economico si conservarono invece la coltivazione dei gelsi, l'allevamento dei bachi e la filatura della seta, attività che nel Bresciano tanta ricchezza dovevano poi apportare durante i secoli XVIII e XIX. Agli inizi del sec. XVIII anche Brescia andò affinando le tecniche delle sue filande per cui, già fin dal 1714, il "Paratico della seta" assorbiva l'Università della lana. Nel 1765 le filande in provincia di Brescia risultavano come segue: 1 a Rezzato, 5 a Calcinato, 5 a Lonato, 2 a Gavardo, 2 a Carpenedolo, 1 a Montichiari, 1 a Verola Alghise, 1 a Rovato, 13 a Chiari, 10 a Palazzolo, 1 a Iseo e 1 a Darfo. In Brescia i filatoi era 12, uno dei quali, di proprietà di Faustino Luchi, era stato distrutto in seguito allo scoppio delle polveri nella torre di S. Nazzaro, ma il Luchi lo aveva ricostruito, aggiungendo ad esso un altro edificio per la lavorazione del refe; il governo premiava il 2 giugno 1770 la sua tenacia concedendogli che le sue sete fossero esenti da ogni dazio. Nel 1783 i fornelli di seta, che nei primi anni della lavorazione di questo prodotto erano 1576, erano saliti al numero di 1983 e del pari erano andati aumentando i filatoi sino al numero di 73 in tutto il territorio. Si progettava d'introdurre la lavorazione anche nelle valli Trompia e Sabbia, favorendo anche la piantagione di gelsi in quelle terre, che erano allora "abbandonate". Nel 1788 si registravano 2 filande a S. Eufemia, 7 a Lonato, 5 a Calcinato, 2 a Gavardo. Una grossa filanda esisteva nella seconda metà del sec. XIX a Pisogne, che filava kg. 70.000 di bozzoli. Decaduta nella prima metà del sec. XIX, la filatura della seta, rimase stazionaria anche per le disavventure che incontrò la bachicoltura. Per la trattura della seta nel 1854 esistevano in provincia di Brescia (esclusa la Valcamonica) 852 filande con 6849 fornelli. Nel 1855 le filande erano 774 con 6034 fornelli, nel 1856, 687 filande con 5754 fornelli. Nel 1857 le filande erano 1011 in massima parte dei distretti di Brescia, Chiari, Montichiari, Lonato, Iseo, Salò e solo in 9 delle quali era in uso il vapore. Il numero delle aspe e quello delle bacinelle, saliva a 6820; ossia, in media, meno di 7 aspe per ogni stabilimento. Filande nel 1870 esistevano perfino a Malegno e a Losine. Durante il corso della seconda metà del sec. XIX, gli opifici tradizionali erano andati diminuendo, mentre prendevano piede quelli di tipo industriale riducendosi a 68 con 2625 bacinelle, di cui 591 ancora a fuoco diretto. Dieci anni più tardi, ossia nel 1900, troviamo il numero delle filande ridotto a 50, con una somma di 2674 bacinelle, di cui sole 358 ancora a fuoco diretto. Proseguì adunque la eliminazione delle piccole filande, cosicché nel 900 si può dire che quelle a vapore erano le uniche dominanti. Si distinguevano nel 1904 le filande Marzoli di Palazzolo (700 bacinelle) Fratelli Serlini di Ospitaletto (3136), Anelli-Bianchi di Calcinato (288), A. Semenza di Verolanuova e Botticino Sera (274), Enrico Kramer e C. di Palazzolo e S. Eufemia (129), Vincenzo Serlini di Brescia S. Vigilio (172), Gadda e C. di Chiari (132), A. Mambroni e C. di Bagnolo e Quinzano d'Oglio (128), Fortunato Consono Acquafredda (126), Veuve Guerin e Fils di Lonato (100), Giacomo Baebler di Brescia, (96), Carlo Soperti di Brescia (96), Andrea Formenti di Iseo (92), Luigi Ghislandi di Breno (88), Dall'Oro di Carpenedolo (80), Cesare Guzzi di Coccaglio (80), Giuseppe Pirola (72), Corna Pellegrino di Pisogne (72), G.M. Trebeschi di Cellatica (68), Nappelli e Ghitti di Marone (60), Filippo Nava di Virle Treponti (60), G. Castellani Negrinelli di Iseo (56), Pietro Guerini di Iseo (52), Giuseppe Erba di Montichiari (50), Giugni di Sale M. (48), fratelli Zenti di Vello (48), Bortolo Maffeis di Orzinuovi (40). Altre ditte minori esercitavano 460 bacinelle. Fra gli imprenditori più coraggiosi si segnalavano Cesare Guizzi che nel 1900 aveva assunto in affitto la filanda Almici di Coccaglio e in seguito, succedendo nel 1911 alla ditta Kramer le filande e il filatoio di Palazzolo e Federico Serlini che riuscì a potenziare al massimo gli opifici di Ospitaletto. Nel 1857 la provincia di Brescia veniva terza in Lombardia dopo Como e Bergamo. Pur assottigliandosi il numero delle filande da 1011 nel 1857 divennero 400 nel 1876, 68 nel 1890, 50 nel 1900, 56 nel 1906, 51 nel 1922, 53 nel 1926 andò potenziandosi la media di produzione che da 6,7 q. nel 1857 saliva a 8 q. nel 1876, a 38,6 q. nel 1890 a 53,5 q. nel 1900, a 60 q. nel 1904, a 56,6 q. nel 1922, a 74,7 q. nel 1926. Nel 1927 la distribuzione topografica delle 43 filande più importanti, di cui la minore aveva 17 operaie era più o meno la medesima del 1904. Più precisamente 10 stabilimenti di trattura erano sulla riviera del lago di Iseo, 14 nella regione collinare e i restanti 19 nella pianura, distribuiti questi con una certa uniformità da Palazzolo a Carpenedolo e da Brescia a Gambara. La prima grave crisi si verificò nel 1929-1933. Punte di intensa occupazione si ebbero dal 1946 al 1948. In questo anno le manifatture di seta bresciana occupavano ancor 3.500 operaie. L'anno appresso però il declino era già avviato. Nel 1949 infatti venivano chiuse le filande di Carpenedolo, di Calcinato (Papa), di Verolanuova e di Gambara con 850 dipendenti. Poi via via ne vennero chiuse una dozzina. Nel 1956 ne rimanevano aperte ancora una decina con poco più di mille dipendenti. Le più attive erano quelle di Iseo, Ospitaletto e Lonato che con altre si erano dedicate a lavorazioni speciali e dei doppi. Le più prestigiose agli inizi del secolo erano quelle aperte nel 1900 da Cesare Guzzi (v.) di Coccaglio e quella di Federico Serlini (v.) di Ospitaletto. Gli ultimi appelli a sostenere e a riaprire le filande vennero lanciati nel 1948 dalla F.I.P.T., ma ormai stavano scomparendo del tutto. Nemmeno i tentativi di salvaguardare gli ultimi edifici ha avuto esito positivo. Uno delle ultime filande chiuse fu la Nembrini di Iseo che nel febbraio 1973 poneva in cassa integrazione 50 operai.