DIECI Giornate di Brescia
DIECI Giornate di Brescia
Vennero cosi chiamate, forse per la prima volta da Cesare Correnti, le giornate dal 23 marzo al 1 aprile 1849, durante le quali il popolo bresciano resistette agli attacchi degli austriaci, lasciando sulle barricate, nelle vie e nelle case circa mille morti. Dopo aver vissuto mesi di libertà dal 23 marzo al 15 agosto 1848, i patrioti bresciani non tralasciarono di sperare di liberarsi dal dominio austriaco, creando un Comitato d'insurrezione bresciana, presieduto dal dott. Bortolo Gualla, che mantenne continui contatti con il nob. Luigi Cazzago, emigrato in Piemonte. Di esso fecero parte l'ing. Felice Laffranchi, il canonico Pietro Emilio Tiboni, don Francesco Beretta, Giacinto Passerini, ecc. Agivano, in contatto con il Comitato, Tito Speri, Lucio Fiorentini, Cattaneo, Giustacchini, Anelli, ecc. Accanto ad esso sorse un altro Comitato d'ispirazione repubblicana che faceva capo al dott. Carlo Cassola e al prof. Luigi Contratti. Con continua propaganda e importando armi, specie dalla Svizzera, i due comitati prepararono la riscossa antiaustriaca, che andò maturando rapidamente, specie con la denuncia dell'armistizio dell'anno prima, avvenuta il 12 marzo.
Le notizie sempre più falsificate, attraverso proclami artefatti, di vittorie dell'esercito piemontese, spinsero i bresciani a chiedere dapprima, il 20 marzo, le dimissioni di Giovanni Zambelli capo del Municipio, ritenuto "l'uomo ligio all'Austria" e la sostituzione sua con l'avv. Giuseppe Saleri. Questi chiese di essere aiutato da Gerolamo Sangervasio, Ludovico Borghetti e Piero Pallavicino e ottenne dal comandante del Presidio del Castello, a presidio dell'ordine, una Guardia Civica, che però doveva essere armata di sole 200 sciabole. La cosa irritò i bresciani e diede la spinta all'insurrezione che avvenne il 23 marzo.
1^ giornata, 23 marzo. Cartelli affissi da ignoti convocano il popolo per le ore 11 dinnanzi alla Loggia. Si deve impedire che la Municipalità ceda all'imposizione del comandante di piazza, cap. Poma, di consegnare le residue 130.000 lire della multa imposta da Haynau. Mentre nel palazzo la Municipalità rifiuta il pagamento e il popolo sulla piazza apre la sassaiola contro gli austriaci e assale un carro che portava viveri e legna alle truppe, arrivano in carrozza i conti Cigola e Martinengo, assieme a Chizzola e Borghetti, già esuli in Piemonte, che, riconfermando l'ordine dell'insurrezione, recano armi e la falsa notizia di vittorie piemontesi. I gendarmi, scesi da S. Urbano sparando, sono fatti fuggire in Castello e il cap. Poma sottoscrive la consegna alla Guardia nazionale dei fucili depositati negli ospedali militari.
All'ospedale di S. Eufemia 400 militari austriaci si aprono a fucilate la strada verso il Castello. L'insurrezione è in atto: il cap. Poma e altri ufficiali prigionieri sono strappati alla folla tumultuante dall'intervento del macellaio Acerboni detto Maraffio, che li porta prigionieri alle squadre del Boifava accampate sui Ronchi. Il comandante del Castello Leshke invano richiede i prigionieri e lancia le prime bombe. La città è insorta, ognuno porta la coccarda tricolore e disotterra le armi nascoste, le campane suonano a stormo e già si rizzano le barricate.
2^ giornata, 24 marzo. Dal Castello il Leshke inizia a mezzanotte il bombardamento della città: il popolo risponde suonando ininterrottamente le campane e illuminando le case per facilitare l'opera dei cittadini che rafforzano le barricate. Giuseppe Saleri, che si è lussato una gamba, cede al Sangervasio la direzione della Municipalità. Di quattro staffette, inviate segretamente dal Leshke a Mantova a chiedere rinforzi, due sono fatte prigioniere e due riescono a sfuggire. Il Sangervasio parla al popolo dalla Loggia e comunica le proposte del Leshke che vengono respinte dalla voce unanime del popolo. "Quand'è così, soggiunge il Sangervasio, mostratevi forti e risoluti: moderazione o cittadini!"; per rendere sacro il giuramento dei popolo addita l'immagine della Madonna della Loggia. Gli fanno eco con infiammate parole l'abate Carboni e il sacerdote Badinelli. Un avviso della Municipalità a firma Sangervasio invita i bresciani a secondare l'opera del Comitato di pubblica difesa a capo del quale sono il dott. Carlo Cassola e il prof. Luigi Contratti.
3^ giornata, 25 marzo. Tace il cannone dal Castello ma fervono le opere di difesa nella città. Dal Comitato di pubblica difesa, che ha sede nel Teatro Grande, Cassola e Contratti intensificano i preparativi e in un manifesto invitano chiunque abbia armi ad impugnarle. Un altro avviso lancia la Commissione della Guardia Nazionale composta dall'ing. Domenico Buizza, dott. Pietro Buffali, dott. Carlo Tibaldi, e ing. Camillo De Dominici. Si mandano a raccogliere armi a Gardone e a Palazzolo. Viene fermato il corriere austriaco che reca a Verona le notizie del campo e ne sono pubblicati i dispacci, mentre circolano le più contraddittorie notizie dei primi insuccessi piemontesi. Entrano in città, accolte con delirante entusiasmo, le squadre dei Valtrumplini, dei Valsabbini e dei Pedemontani raccolte dal nob. Violini e dall'avv. Costante Maselli. Una circolare del Comitato invita i parroci a proclamare dal pulpito la necessità della difesa. Giunge a notte la notizia che duemila austriaci marciano da Mantova contro Brescia.
4^ giornata, 26 marzo. Mentre il dirigente della Municipalità Sangervasio invita i maggiorenti ad una riunione alla Loggia per confermare il potere al Comitato di pubblica difesa, questo dà notizie di vittorie piemontesi e annuncia che Gabriele Camozzi vince a Bergamo. La colonna nemica del gen. Nugent, da Castenedolo e Rezzato, punta su Brescia ma è affrontata a S. Eufemia da un centinaio di persone guidate da Tito Speri: un migliaio di croati bene armati retrocede davanti all'impeto dei bresciani che rifiutano il consiglio di sparare protetti dalle barricate, ma vogliono combattere all'aperto "alla bresciana". Giunge, con bandiera bianca, una commissione mandata dal Comitato a parlamentare. La guida Gerolamo Rossa. Gli austriaci approfittano della tregua per occupare il paese e Tito Speri assalito, tradito e derubato dai croati, si salva a stento. Il Nugent offre quattro ore di tempo per togliere le barricate e deporre le armi: il popolo respinge la proposta e acclama la guerra. Un manifesto del Comitato proclama "La patria è in pericolo" e riprendono le ostilità a S. Francesco di Paola e al Rebuffone. Nuove gesta della squadra di Tito Speri, mentre le bande armate del Boifava attaccano gli austriaci sul fianco. Suonano a stormo le campane, piovono le bombe dal Castello e molti cadono.
5^ giornata, 27 marzo. Dopo la relativa calma della notte e del mattino, alle 14 pomeridiane il Nugent, che ha ricevuto rinforzi, rinnova l'attacco contro le barricate di Porta Torrelunga, colpita di fianco dalle artiglierie del Castello e di fronte da quelle di villa Maffei. La resistenza continua. Franchi tiratori bresciani dalla Torre del Popolo bersagliano gli artiglieri austriaci, che dal Castello fanno piovere sulla città bombe e rocchette incendiarie senza posa. Una bomba colpisce la cattedrale, varie altre le case del corso del Teatro (largo Zanardelli), già sede del Comitato di difesa che dal teatro si è trasferito nel più ampio palazzo Bargnani. Arditi tiratori osano inoltrarsi sulla cinta del Castello e sparare sulle sentinelle che vegliano sulla Pusterla. Ciò non basta ai difensori di Brescia e Tito Speri, la sera, apre la barricata di Porta Torrelunga e un manipolo di coraggiosi irrompe di corsa e travolge gli austriaci che retrocedono oltre Rebuffone, oltre S. Francesco di Paola. Le schiere del Boifava coprono il fianco verso i Ronchi, ma i cannoni del Castello tirano alle spalle degli animosi. Eppure il nemico dieci volte più numeroso è vinto e gli animosi ritornano in città con un discreto bottino di fucili e munizioni gettate dal nemico che fugge.
6^ giornata, 28 marzo. Dalla Torre del popolo franchi tiratori continuano a bersagliare gli artiglieri del Castello. Pattuglie austriache attaccano a Porta Torrelunga. I bresciani vogliono ripetere le sortite dei giorni precedenti e Tito Speri, dopo aver tentato di dissuaderli, si pone alla loro testa. Tre colonne di bresciani puntano su S. Eufemia da tre direzioni diverse, ma li attende l'agguato: invano parte delle squadre Boifava tenta di portare aiuto. Circondati d'ogni parte si difendono con coraggio, ma pochi riescono ad aprirsi il passo tra le file nemiche. Lo Speri, circondato, si salva gettando manciate di denaro che i croati si fermano a raccogliere. I più muoiono sul campo e i pochi fatti prigionieri perché rimasti privi di cartucce vengono fucilati: tra questi vi sono il giovinetto Temistocle Lovatini e Giuseppe Nullo. Tra quelli che si salvano, oltre allo Speri sono Pietro Biseo, Davide Belati, Maraffio e i fratelli Schreiber. Il Comitato, a sera, vieta le sortite non autorizzate e ordina di rafforzare le barricate. Il negoziante francese Peuch e Matteo Siena, diretti a Milano per assumere informazioni, apprendono a Gorgonzola la rotta di Novara. Ritornano a Brescia, riferiscono ma si presta fede solo ai falsi messaggi di presunte vittorie di Chrzanowsky, che, nominato dittatore dopo l'abolizione della monarchia, avrebbe addirittura costretto Radetzky a sgombrare la Lombardia.
7^ giornata, 29 marzo. Desiderosa di più sicure notizie la Municipalità invia a Bergamo Giuseppe Borghetti. Continua con rinnovata intensità il bombardamento della città dal Castello, implacabile, specie contro porta Torrelunga baluardo della resistenza. Dinnanzi alla Loggia il popolo raccoglie le schegge delle bombe cadute e giura di resistere fino alla morte. Bombe colpiscono anche l'Ospedale militare. Sale al Castello a protestare una Commissione cui il popolo, che crede si trami la resa, strappa la bandiera bianca. Le squadre del Boifava, ad evitare l'accerchiamento, lasciano S. Gottardo e il Goletto e si ritirano. Giungono nuove conferme delle sconfitte piemontesi, ma il Comitato continua a prestar fede solo ai falsi messaggi di presunte nuove miracolose vittorie. Uno, col falso nome di Camozzi, viene recato da un ardente rivoluzionario, il frate Massimino dell'ordine francescano e, a sera, il Comitato pubblica un manifesto che, dichiarando traditore Carlo Alberto, inneggia a Chrzanowsky che, sbaragliato Radetzky, ha salvato l'Italia. A sera un'altra fortunata sortita dei bresciani ricaccia gli austriaci fino a S. Francesco di Paola.
8^giornata, 30 marzo. Dopo intenso bombardamento durato quasi tutta la notte, si comincia a combattere anche verso Porta Sant'Alessandro contro gli austriaci che hanno posto il quartiere generale alla "Forca di Cane". Il centro della lotta è però sempre fuori Porta Torrelunga, ove le truppe di Nugent, bersagliate dalla Pusterla e, fino a una certa ora dai Ronchi, vogliono assolutamente aprirsi il passo e ricongiungersi con le truppe del Leshke chiuse in Castello. Le schiere di Boifava, assottigliate di numero, ridiscendono dalle cime, rioccupano il Goletto e scacciano i tirolesi da S. Gottardo. Da S. Eufemia, da S. Francesco di Paola, dalla Margherita e dalla Maddalena le assalgono centinaia di austriaci. Sopraffatte dal numero, a corto di munizioni e demoralizzate, le squadre si ritirano a Costalunga e di qui a Collebeato, di dove il giorno dopo passeranno alla Stella di Gussago ove il Boifava scioglierà la colonna. Sui Ronchi gli austriaci vincitori incendiano case, ammazzano innocenti e stabiliscono una nuova linea di attacco da S. Francesco di Paola a S.Gaetanino. A notte, inaspettato, giunge al campo di Nugent il maresciallo Haynau che ha lasciato l'assedio di Venezia per ridurre Brescia alla resa. Verso mezzanotte, per la via di soccorso, il generale entra in Castello con un battaglione del reggimento Baden.
9^ giornata, 31 marzo. Dall'alba gli austriaci riprendono l'assalto contro Porta Torrelunga difesa da Tito Speri. Dal Castello alle 9 del mattino scendono i gendarmi preceduti da una bandiera bianca: Haynau, che non vuole attendere l'arrivo delle truppe di Appel, intima la resa pena la distruzione, il saccheggio, il massacro e aggiunge parole di scherno. "Bresciani! Voi mi conoscete, io mantengo la mia parola". Sangervasio convoca la Municipalità e manda in Castello a parlamentare l'ing. Borghetti e l'avv. Pallavicini cui si uniscono, il nob. Rossa, l'avv. Barnibelli e, vessillifero, il Novello. Ma Haynau non intende ragioni e a chi in buona fede gli parla di vittorie piemontesi non contraddice, risponde che sa tutto e che solo pretende la resa senza condizioni. Al Sangervasio, che comunica le inique condizioni, il popolo risponde acclamando ancora una volta alla guerra. Vinto dall'impeto popolare anche il Sangervasio accetta la guerra. Scade la tregua alle 14, ma già prima tutte le campane ripetono la volontà di guerra. Riprende la battaglia: a ondate i battaglioni attaccano dal Castello e si risponde all'arma bianca e il nemico ripiega. Con potenti artiglierie altri battaglioni austriaci sfondano le barricate di Porta Torrelunga, aggirata anche alle spalle, ma le barricate di contrada Cantarane (via Trieste) e di contrada Pregnacca (via Tosio) resistono, mentre i croati incendiamo ogni vicolo, ogni casa, scannano inermi, donne e fanciulli. Esasperata, la folla urla vendetta sui 400 feriti austriaci dell'ospedale militare, ma Lucio Fiorentini e don Filippini intervengono e placano la folla ammonendo che i bresciani non uccidono gli inermi. Dalle barricate di via Bruttanome (corso Magenta) si resiste; un tiratore infallibile, Zaccaria Premoli, ferisce il gen. Nugent, altri uccidono il colonnello Favancourt e tra i massacri dei croati e gli incendi i bresciani balzano ancora all'assalto e respingono il nemico fino al "Mercato dei grani" (piazza Arnaldo). Dopo i combattimenti di piazza dell'Albera si dice che Haynau abbia esclamato: "S'io avessi trentamila di questi indemoniati bresciani, vorrei ben io tra un mese veder Parigi! ". A sera il generale ritira le truppe quasi sulle linee di partenza, perché i bresciani fanno ancora paura.
10^ giornata, 1 aprile, Domenica delle Palme. Alle prime luci dell'alba tuona forte il cannone e più forte risponde lo scampanio delle campane a stormo che chiamai bresciani all'ultima resistenza. Attaccano i nemici dalle cinque porte; si resiste a Porta Pile e a Porta San Giovanni. Dal Mercato Grani i croati giungono al Bruttanome e di qui son fatti una volta ancora retrocedere. Si resiste a piazza dell'Albera, ma le posizioni sono aggirate e nuove barricate sorgono a Porta Bruciata per sbarrar la via della Loggia. Da S. Agostino dilagano gli austriaci in piazza del Duomo ed occupano il Broletto. Alle ore 7 sono già sulla Torre del Pegol ma il popolo ancora resiste, anche se dalle barricate sfondate di Porta S. Alessandro i croati dilagano nei quartieri meridionali armati di scuri, di fiaccole e di pece per distruggere e uccidere. Inermi sono scannati sotto gli occhi delle mogli, fanciulli hanno il cranio spaccato, sono martoriare e seviziate le donne e i combattenti sono legati, cosparsi di pece e dati alle fiamme. Carlo Zima afferra il croato che lo ha cosparso di pece e lo unisce a sé nella morte. Non ci sono più che 4 mila cartucce, la maggioranza accetta la resa e il Comitato di pubblica difesa si scioglie. Il Municipio (ore 10) riassume i poteri e alza la bianca bandiera della resa, ma per cinque volte la folla la abbatte. Il Sangervasio incarica padre Maurizio Malvestiti di salire al Castello per trattare la resa. Il generale gli addita con gioia, lontano, verso occidente il luccichio delle quindicimila baionette del terzo Corpo d'armata di Appel che torna reduce dal Piemonte. Liberati i prigionieri austriaci Haynau promette "salve le vite e le sostanze ai pacifici cittadini". Durante la tregua delle trattative gli austriaci si sono, a tradimento, avanzati più di quanto non avessero potuto in dieci giorni di lotte e continuano sistematicamente i massacri e gli incendi. Resi folli dal dolore e dall'ira, alcuni popolani invadono le carceri e vi uccidono le spie senza che ai prigionieri austriaci sia torto un capello. Da Porta San Giovanni alle 5 pomeridiane entra anche il terzo corpo d'armata di Appel, Brescia è caduta, ma salvo è l'onore: chi può si trae in salvo e, a notte, i popolani calano dalle mura i più compromessi, mentre dovunque, sotto lo sguardo ora complice ora impotente degli ufficiali, i croati, carichi di oro e di masserizie rubate, sgozzano i "briganti italiani'. Al Municipio vengono imposte quindicimila razioni di pane, di vino e salumi per i nuovi venuti. Tra le grida, le imprecazioni, le stragi, i saccheggi, cala la sera sulla infelice città illuminata dagli incendi. A notte un crepitar di fucilate annuncia che a Ospedaletto Mella, nella fattoria Caldera, è caduta in un'imboscata l'avanguardia della colonna Camozzi, che, in ritardo, portava generoso aiuto all'infelice città. Le Dieci giornate si chiudono nel sangue.
Primo a predisporre un ricordo delle vittime delle Dieci Giornate fu il re Vittorio Emanuele II che nel giugno 1859 alla vigilia della battaglia di Solferino e S. Martino, salito a visitare il Castello ordinò che sugli spalti dove erano avvenute numerose fucilazioni sorgesse, in onore dei caduti, un monumento; che poi trovò luogo in piazza della Loggia. La prima commemorazione ebbe luogo invece nel 1860. Il Circolo Politico e subito dopo la Giunta Municipale indissero un corteo che partito da piazza Loggia si diresse al Cimitero dove, nella cappella, pronunciò un discorso don Antonio Bazzoni. Solenne fu la celebrazione del 1861. Il 1 aprile avvenne la traslazione dagli spalti e dalle pendici del Castello di 44 salme del 1849 al Cimitero, sulla porta d'accesso del quale venne posta una epigrafe dettata dal conte Luigi Lechi. Commemorazioni continuarono a susseguirsi degli anni seguenti. In particolare il 21 agosto 1864 venne inaugurato, in piazza Loggia, il monumento (detto dal popolino della "Bella Italia") voluto da Vittorio Emanuele II, opera dello scultore Lombardi di Rezzato, con iscrizioni del prof. G.A. Folcieri, il 2 aprile 1868 vennero inaugurate le lapidi poste sotto la Loggia, con iscrizioni del prof. Gallia.
Dal 1868 si andò accentuando il carattere laico e politico della commemorazione. Accanto alla celebrazione predisposta dalla Giunta, si tenne quella del Circolo Popolare che assunse sempre più accenti anticlericali, con diversi oratori. Nel 1878 vennero poste a ricordo della Decade tre lapidi una in piazza dell'Albera (oggi Tito Speri), una all'angolo est dei portici del Mercato dei grani a Torrelunga (porta Venezia) ed una terza sulla casa di Tito Speri. Una nuova lapide a ricordo della missione pacificatrice di P. Maurizio Malvestiti alla salita al Castello venne posta per decisione del Consiglio Comunale nel 1879. Il 31 agosto dello stesso anno veniva inaugurato al Cimitero un monumento marmoreo (in sostituzione di altro di gesso) alle vittime delle Dieci Giornate eretto ad iniziativa dell'Ateneo, con capitale predisposto dal pittore G.B. Cigola, opera dello scultore Pagani. Il 1880 vide il trasporto solenne di altri resti umani trovati al Roverotto. Al contempo si andava accentuando il carattere polemicamente anticlericale delle manifestazioni specie in discorsi e in manifestazioni ispirate dai partiti estremisti che preferivano distinguersi decisamente dalla linea tenuta dalla stessa Giunta comunale. Il 21 agosto 1882, per l'inaugurazione del monumento ad Arnaldo, vennero poste sotto la Loggia quattro grandi lapidi, di cui una dedicata ai caduti del 1848-1849. L'8 ottobre a Serle venivano dedicate due lapidi a don Pietro Boifava, una sotto il loggiato della casa comunale ed una sulla casa del sacerdote. Nel 1885 veniva inaugurata una lapide a Carlo Zima, con iscrizione del prof. Teodoro Pertusati. Il 19 settembre 1887 venivano consegnate medaglie commemorative ai superstiti fra cui una d'oro a Carlo Cassola. L'anno seguente, il 2 settembre 1888, veniva inaugurato in piazza dell'Albera il monumento a Tito Speri, opera dello scultore Ghidoni, con epigrafi di Teodoro Pertusati. Dal 1886 intanto il Circolo della Gioventù Cattolica e lo stesso movimento cattolico di anno in anno cercò di contendere alle forze laiche ed anticlericali il monopolio delle manifestazioni con celebrazioni religiose, che ebbero un primo momento saliente nella celebrazione in cattedrale dove, presente il Vescovo, le bandiere tricolori dominarono l'ambiente. Sulla stessa linea, tesa a rendere più genuinamente popolari le commemorazioni, si poneva un umile popolano Zosimo Colosio che ogni anno si preoccupò di ricordare gli avvenimenti ricordando tutti i protagonisti da Speri a Zima, da Marchesini a p. Malvestiti. Il 30 settembre 1894 veniva inaugurata al Rebuffone sulla facciata delle scuole una nuova lapide a don Boifava.
Le polemiche si fecero ancor più vive a partire dal 1896, dopo la vittoria nel 1895 da parte dei cattolico-moderati. In polemica con la nuova maggioranza riprese la doppia commemorazione: l'una da parte della Giunta comunale religiosa-civile, l'altra da parte delle organizzazioni dell'opposizione solamente laica. Nel 1897 la Società dei Veterani promuoveva, in collaborazione con il Circolo Mameli, l'erezione del monumento obelisco del Castello opera dell'ing. Giovanni Carminati, con epigrafi del prof. Folcieri. Solenni anche se contrastate furono le celebrazioni del cinquantesimo. Il 16 febbraio 1899 la Colonia argentina inviava a Brescia una targa opera dello scultore Pecchi. Il 3 aprile veniva inaugurata una lapide a S. Eufemia della Fonte. Tre lapidi venivano scoperte sotto la Loggia il 9 aprile. Lo stesso giorno la città veniva decorata della medaglia d'oro. Da parte sua la Società della Gioventù Cattolica inaugurava sulla salita del Castello il monumento a p. Maurizio Malvestiti, opera dello scultore Pezzoli. Il giorno appresso, presenti tutte le autorità, in Duomo il Vescovo celebrava un solenne ufficio funebre. Una lapide venne posta il 20 settembre del 1906 su palazzo Bargnani. Gradatamente le polemiche si andarono smorzando per una più unitaria partecipazione che culminò nel centenario del 1849 che vide manifestazioni intensamente unitarie, contrassegnate anche da significative pubblicazioni sia popolari (attraverso numeri unici) sia scientifiche che servirono a ristabilire molte verità. Non mancarono code polemiche come il processo intentato a mons. Paolo Guerrini per alcune sue affermazioni sul comportamento di alcuni protagonisti. Ma furono gli ultimi strascichi di un avvenimento che certo rimarrà incancellabile nella storia bresciana.