D'ANNUNZIO Gabriele
D'ANNUNZIO Gabriele
(Pescara, 1863 - Gardone Riviera, 1938). Bresciano per cittadinanza onoraria conferitagli nel 1923 e nello stesso anno cittadino onorario di Salò. Fu personalità eclettica: poeta, giornalista, prosatore, oratore, combattente della prima guerra mondiale. Scrisse romanzi, novelle, drammi, poemi, liriche, acquistandosi larghissima fama così da essere collocato fra i grandi della decadenza italiana. Fu deputato al Parlamento, schierato alla sinistra, senza essere marxista; fervente interventista, pronunciò il famoso discorso di Quarto dei Mille, decisivo per lo schieramento dell'Italia a fianco dell'Intesa. Compì le più varie e stravaganti imprese di guerra alla ricerca, invano, della "bella morte". Battezzò con la sigla MAS (Memento Audere Semper) gli agili mezzi italiani marini d'assalto, con i quali vennero forzati gli sbarramenti portuali austriaci. Con uno di essi partecipò, con Costanzo Ciano, alla Beffa di Buccari. Compì su aerei incursioni su Pola, Cattaro, ma soprattutto si rese famoso per il volo su Vienna, nelle ultime fasi della guerra, con una squadriglia di monoposto SVA. Poiché egli non pilotava, su quell'aereo pilotato dal tenente Palli, fu ricavato il posto per ospitare il poeta-soldato. Sulla capitale austriaca, anziché gettare bombe, furono sparsi migliaia di volantini tricolori invitanti alla resa. Fu decorato di medaglia d'oro al valor militare.
L'opera letteraria di D'Annunzio è inutile sottolineare che ha suscitato le più contrastanti reazioni, con periodi di esaltazione susseguiti da altri di aspra critica. Fra le reazioni negative nell'ambiente bresciano è da notare quella del 12 febbraio 1898 di Marietta Bianchini che denunciò lo scrittore alle madri cristiane con uno scritto apparso sul "Cittadino di Brescia". Padre Semeria, il battagliero cappellano barnabita del Comando supremo di Cadorna, se diede il consenso al D'Annunzio, vate delle imprese guerriere, lo condannò senza appello per tutto il rimanente della sua produzione letteraria, ritenuta una nuova forma di paganesimo.
Difficile sapere quando D'Annunzio fu la prima volta a Brescia. Probabilmente non prima del 1902, in quanto il 21 febbraio di quell'anno, rispondendo ad un invito dell'on. Massimo Bonardi, presidente della locale sezione della "Dante Alighieri", di tenere una lettura scriveva: "Da gran tempo io desidero venire ad adorare (sic) la Vittoria alla quale il mio grande maestro (Carducci) dedicò un'ode sublime" e prometteva una visita per i primi di marzo, dichiarando "compenso larghissimo, la gioia di vivere qualche ora nello spirito della città eroica". Nel 1903 ricordava Brescia e il Garda e la terra bresciana nella poesia "Per i marinai d'Italia morti in Cina" ("E un'altra madre vien sulla soglia"). A Brescia dedicò, nel 1904, un sonetto nel secondo libro delle "Laudi", l'"Elettra", con quattordici versi in cui si accomuna la città alla statua della Vittoria ("Brescia, ti corsi quasi fuggitivo"). Parecchie furono le comparse del poeta nella nostra città negli anni seguenti. Nel 1906, dietro le insistenze dei giovani Guido Zadei e Domenico Bulferetti, visitò, oltre al Museo romano, anche quello cristiano, dove si soffermò per quattro ore, ammirando specialmente le medaglie del Pisani e dello Sperandio e i corali di S. Francesco. La visita a Brescia in quell'anno la fece con Giuseppina Mancini oggetto del romanzo "Solus ad solam", che contiene la corrispondenza segreta con la donna: una tarda rievocazione delle giornate aviatorie di Montichiari del 1909, un ritorno alle ore di tensione di Buccari, venti giorni prima di morire, l'11 febbraio 1938.
Devono essere state giornate indimenticabili quelle del settembre 1909 per le manifestazioni aviatorie di Montichiari. Il volo compiuto con Mario Calderara - tre giri di circa 30 chilometri definiti "un volo periglioso", dopo aver rinunciato a quello con l'americano Glenn Curtiss, che non si sollevò, e le altre prove non riuscite ad alcuni concorrenti, gli ispirarono l'opera "Forse che sì, forse che no". Qui assieme all'esaltazione dell'impresa aerea di Montichiari vi sono lodi alla città con la sua torre della Pallata, la Loggia, il Broletto, la Mirabella, i baluardi del castello Visconteo, le vecchie pietre del Comune e della Signoria; "lei, che in quella notte elettrica, notte in cui l'Ardea aveva volato, sembrava davvero la città prode dei Consoli e dei Tiranni", ed era "piena di fragore, di ardore, di morte e di vittoria". Ma chi perpetua il prestigio di "Brescia la prode" è il suo popolo, afferma il poeta; il suo popolo che per primo decretò di innalzare una colonna e in cima ad essa un vittorioso segno di gloria a commemorazione del primo pilota "caduto sulla piana sottoposta al suo immenso stadio azzurro". Brescia fondeva la nuova statua bronzea a Giulio Cambiaso, ma insieme alla colata della docile materia, immaginata dal D'Annunzio, essa foggiava a se stessa un monumento imperituro: quello dello spirito.
Ma l'identificazione di Brescia fu per D'Annunzio sempre la statua della Vittoria: la Nike "dall'ala di metallo vivo" di cui, nella visita del 1906 nel tempio di Vespasiano, gli parve di sentire il respiro di lei come creatura vivente fino a fargli scrivere: "Vergine te sola amo; te sola!"
Il 30 ottobre 1923 un corrispondente di Brescia della "Gazzetta di Venezia" testimoniava: "Gabriele D'Annunzio sta studiando la Vittoria. Venuto or non è molto in un pomeriggio a Brescia, volle recarsi al Museo Romano a rivedere la mirabile statua. Lo accompagnavano nella visita il dott. Giorgio Nicodemi, il poeta Angelo Canossi ed altri. Gabriele D'Annunzio fu così colpito dalla bellezza superba dell'opera d'arte che promise di ritornare a rivederla, ad ammirarla, a studiarla. Ed altra volta infatti venne incognito a Brescia, fermandosi a lungo a guardare; a studiare la Vittoria ed a trarne ispirazione". Ancora il cronista scrive che D'Annunzio disse: "... e fu là (al Museo Romano di Brescia) dove io vidi una raganella che suonava un piccolo flauto come quello che io suonavo nella mia prima infanzia, modulando la mia malinconia...". Poi si mise a narrare la storia della statua nei suoi particolari più minuti e quando ebbe finito la lezione, rivolto ai presenti che lo avevano seguito disse: "Io sono molto dotto, io so tutto". E poi sorridendo soggiunse: "E specialmente so di non saper niente".
La "Vittoria" rimase un punto fisso del suo rapporto con Brescia. Quando nel 1934, gli venne regalata una copia della statua, forse con l'intento di fargli cessare le frequenti fughe dal Vittoriale, confessò appunto di aver fatto di notte frequenti escursioni al Museo Romano di Brescia per vederla, dopo aver corrotto il custode, ed entrava guidandosi col chiarore di una lanterna per poter ammirare tutto solo le meraviglie della statua. Nel 1936, scrivendo al conte Fausto Lechi sottolineava: "... Brixia praeclaris inclyta bellis. Oggi la nostra città sembra effigiata in una sola effige spirante. Esprime in anima quella che il bronzo finge; e, togliendole alfine le ali non sue, le ridona le sue vere di origine divina e maschia. Il nome di 'mascula' oggi le si addice come non mai. Non è oggi tutta ali sopra i suoi vivi che tornano e sopra i suoi morti presenti come i vivi ma in eterno?" In verità, l'aver definito Brescia città del silenzio e l'averla identificata con quella pur sublime ma muta statua non piacque a tutti i bresciani del tempo fra cui Demetrio Ondei e Emilio Barbieri, che se ne dolsero in alcuni loro scritti. E non piacquero ai bresciani neppure tutti i suoi drammi che pur vennero con una certa frequenza rappresentati ai teatri Sociale e Grande. Il 3 gennaio 1909, infatti, la "Fedra", al Sociale, venne prima fischiata e poi interrotta. La serata finì in una furibonda mischia fra studenti. In contrapposto ebbe, oltre che dei collaboratori, anche dei lanci letterari come quello di Pietro Zaglio con "Stelio Efrena, Incoraggiamento ad amare Gabriele d'Annunzio" (Brescia, La Poligrafica, 1927).
Oltre alle imprese marinare e aviatorie il poeta-soldato partecipò ad azioni di terra con i "Lupi di Toscana", composti per la gran parte da bresciani e bergamaschi, alle battaglie sul Carso del 10-12 ottobre 1916, e 23-27 maggio 1917. Molti bresciani lo seguirono nell'impresa di Fiume. La particolare predilezione andò all'avvocato Antonio Masperi, che volle al suo fianco sulla vettura con la quale iniziò la marcia da Ronchi. Altri bresciani, al suo seguito, furono Riccardo Frassetto, Adolfo Fiume, Arturo Marpicati, Angelo Poisa, Asvero Gravelli, Giuseppe Paccani, Alessandro Melchiori, Fulvio Balisti, il tenente Bella, i sedicenni Clemente Dugnani e Giovanni Valzelli; infine il console Giovesi, al quale mandò gli allori del Vittoriale quando nel 1935 partì comandante di reparto della Milizia per la campagna d'Etiopia. Il 4 novembre 1919 le "donne bresciane" telegrafarono a D'Annunzio per assicurarlo che sentivano "la fiamma di italianità che arde a Fiume", ma subito si trovarono in contrasto con la rappresentanza bresciana in quella città per la devoluzione della raccolta a favore dei bambini fiumani da un comitato "pro Fiume" di cui era presidente la signorina Ragnoli. Nel febbraio del 1921 dava il suo incoraggiamento alla costituzione, a Brescia, della sezione dei Legionari fiumani, presieduta dal tenente Bella.
I rapporti con la terra bresciana divennero definitivi, quando D'Annunzio si stabilì a Cargnacco in una villa acquistata dal governo italiano, che l'aveva sequestrata, a causa della guerra, il 12 luglio 1918 alla vedova del professore di storia dell'arte tedesco Henry Thode, che vi abitava dal 1910. D'Annunzio prese possesso della villa di Cargnacco il 5 febbraio 1921 e vi entrò il 14 successivo. Ma i primi mesi di permanenza non furono tranquilli per ragioni di varia natura. Innanzitutto per alcune difficoltà frapposte dall'ex proprietario tedesco, tanto che provvisoriamente d'Annunzio accettò il dono, da parte dell'industriale Giovan Battista Bianchi di Maderno, dell'ex villa gonzaghesca "Serraglio", alla sola condizione che avrebbe finito per trasformarla in museo di memorie fiumane. Il poeta vi andò quasi ogni giorno, architettando trasformazioni e migliorie. Ma poi abbandonò ogni progetto e si ritirò definitivamente a Cargnacco, quando vennero composti tutti i contrasti. Ma non andò tutto liscio nemmeno con i rapporti di vicinato. Lo disturbava infatti la vicinanza di un'osteria con i suoi clamori e l'animosità di alcune popolane verso le signore che entravano nella sua dimora. Per la chiusura dell'osteria si appellò addirittura al Procuratore generale. Vivissimi contrasti ebbe anche con l'ex sindaco di Gardone Riviera, Alessandro Bazzani, che gli aveva imposto "un ingiusto prezzo per un frantoio", che gli appestava la casa, e che tentava di vendere agli "Inglesi" una lista di terra contigua alla sua strada, chiedendogli una grossa cifra per un metro quadrato. Per sventare i "ricatti e le frodi" con le quali si tentava di "accerchiare la terra del Vittoriale" il 28 novembre 1928 chiedeva l'intervento personale di Mussolini sul prefetto di Brescia. Avvertì anche il fastidio troppo frequente delle campane della vicina chiesa, suonate, anche, pare per dispetto, da un gruppo di operai da lui licenziati. Per farle tacere ricorse a forti offerte per la chiesa ed anche a scherzose minacce al parroco don Bellicini come quella del: "Carissimo fratello... farò tagliare quelle mani sacrileghe che ardiscono profanare i sacri bronzi...".
Ad un dato momento corse voce che D'Annunzio volesse lasciare Gardone. Si parlò dell'acquisto di una villa a Roma; a Brescia entrò in possesso del palazzo Zoppola di via Fratelli Bandiera, già sede della Casa del popolo. Nonostante il costante controllo sotto il quale era tenuto dal questore, distaccato permanentemente al Grand Hotel, D'Annunzio ebbe frequenti contatti con la popolazione di Gardone e di Salò. Arrivò, con l'aiuto di Arturo Mercanti, a concepire un piccolo campo d'aviazione a Barbarano.
Costante fu il suo interessamento per lo sviluppo turistico del Garda e di Gardone, ancor prima ai abitarvi definitivamente. Del resto già dal giugno del 1909 aveva concesso un'intervista per difendere l'italianità del Garda. Nel maggio del 1925, durante lo storico incontro al Vittoriale con Mussolini caldeggiò vivamente il progetto della Gardesana Occidentale elaborato dai fratelli Riccardo e Italo Cozzaglio, opera da lui definita "compiutamente lodevole". Il 2 febbraio 1926 intervenne presso Mussolini per sventare "l'agonia" di quella che egli chiamava la "deliziosa Gardone" in seguito al fallimento di "ottimi italiani" quali il cavalier Ferrario del Grand Hotel e del cav. Soave Besana del Savoy Hotel e di tanti altri che "per l'incremento della "Città di Benàco" rischiavano ogni loro bene. Nel contempo denunciava "l'ignobile tentativo dei Todeschi contro l'Italia", "orditori di frodi lente e sapienti" e "i loro divieti contro il Garda luogo di diletto" contro "il Gardasee" e che "celavano l'intenzione di affamare gli albergatori e di impadronirsi degli alberghi...". Per sventare tali trame bisognava, secondo lui, riaprire il Casinò. E a rinforzare il proprio appello insisteva con Mussolini: "Pensa che il Vittoriale non può diventare una cittadella in un pantano di todescheria lurca", minacciando, se necessario, di adoperare, per convincere i contrari, "i cannoni della Puglia".
Tra il 1934 e il 1935 D'Annunzio sostenne presso il governo la causa di quanti auspicavano la riunione dei comuni di Salò e di Gardone Riviera in un capoluogo unico che egli battezzò subito la "Città di Benàco". D'Annunzio ne parlò a Mussolini nell'incontro del 7 ottobre 1934. Una specie di manifesto di tale unione venne considerato il messaggio che D'Annunzio inviò il 20 ottobre 1934 a Paolo Nichelatti in occasione della sua nomina a presidente della Società Canottieri del Garda, di Salò: "... Rinnovelliamo, o Benacensi, - scriveva in quella occasione - fra tante novità vitali, la parola virgiliana e dantesca: Benàco: di contro alla parola straniera che comincia ad apparire nel dodicesimo secolo e per alcun tempo nelle cariche pubbliche si alterna con quella gloriosamente latina... E per dare il buon esempio - come ho sempre fatto devotamente in guerra e in pace - ricordo ai convitati che io sono cittadino di Salò e che nel Vittoriale degli Italiani l'aula della Musica si chiama La Camerata di Gàsparo...". L'11 dicembre 1934 D'Annunzio telegrafando di nuovo a Mussolini sembrava sicuro di tale fusione. L'iter burocratico del provvedimento di tale fusione era già in atto e si muovevano in proposito forti interessi economici. Improvvisamente, benché tutte le voci sembrassero favorevoli, l'operazione fallì, si disse, per ostilità locali rimaste misteriose, o quantomeno frutto di anacronistico campanilismo.
Fu certo un pur limitato contributo di rilancio del turismo gardesano la rappresentazione della "Figlia di Jorio" allestita al Vittoriale l'11 settembre 1927 con la regia di Gioacchino Forzano, sceneggiature dell'architetto del Vittoriale Giancarlo Maroni, interpretata da Maria Melato, Annibale Ninchi, Giulietta De Riso, Camillo Pilotto, la Varini. Fu un eccezionale avvenimento ad invito (il biglietto costava mille lire); vi parteciparono critici e personalità di ogni campo. Per poter assistere, molti componenti della nobiltà bresciana fecero parte delle comparse. Naturalmente servirono a propagandare la fama del Garda le visite al Vittoriale, oltre a quelle di Mussolini, quelle di altri illustri personaggi, come il ministro russo Cicerin, artisti, letterati, ecc. Un atto di pretto stile dannunziano fu la donazione del Vittoriale all'Italia i cui atti hanno avuto la seguente procedura: il 22 settembre 1923 D'Annunzio, con atto registrato il 3 gennaio 1924 col n. 2345 del notaio Arminio Belpietro di Rezzato, già interpellato il 31 ottobre 1921, per l'acquisto della villa di Cargnacco, decise la donazione del Vittoriale avente come testimoni Costanzo Ciano di Cortellazzo e l'on. Giovanni Giuriati; il 4 ottobre 1930, anniversario della presa di Cattaro, al Vittoriale, per gli atti del notaio Francesco Zane di Salò, fu stipulata fra lo Stato italiano e Gabriele d'Annunzio di Montenevoso una convenzione per "la inviolabile integrità del Vittoriale interamente donato". Firmarono l'atto: S.E. l'on. Balbino Giuliano, ministro dell'educazione nazionale, per lo Stato, Gabriele D'Annunzio e, quali testimoni, gli onorevoli Giovanni Giuriati e Augusto Turati. La convenzione si compone di undici articoli. La Gazzetta ufficiale il 17 luglio 1937 pubblica il Regio decreto legge - convertito in legge il 27 dicembre seguente - che dispone il conferimento della personalità giuridica alla Fondazione del "Vittoriale degli italiani".
Salò fra i centri gardesani, fu il prediletto. D'Annunzio si presentò alla popolazione salodiana la prima volta l'8 ottobre 1922, in occasione delle regate nazionali, ancora convalescente per la caduta del 13 agosto precedente. Per più di tre ore fu in mezzo ai canottieri e al popolo, prima in tribuna e poi nelle sale del palazzo municipale, dove parlò a lungo invitando tutti ad intervenire alle regate dell'anno successivo per le quali promise un'artistica coppa. "Ai canottieri d'Italia" indirizzò poi una sua lettera. L'anno appresso fece apprestare dallo scultore Renato Brozzi un'artistico trofeo in argento, ravvivato con incastonamenti d'oro, che D'Annunzio accompagnò con una lettera indirizzata alla Compagnia del remo "Nino Bixio" di Pavia, esprimendo la volontà che le gare fossero poste "sotto l'auspicio dell'insigne liutaio (Gasparo da Salò) che, per diritto di gloria dà suo nome a Salò". Grazie a D'Annunzio venne così istituita la coppa per canottaggio riservata all'otto di punta e il complesso delle gare di contorno che venne definito dallo stesso poeta "gli Agonali del remo", per i quali in seguito rivolse ai "canottieri d'Italia", come nel 1925, altisonanti appelli. Quasi ogni anno partecipò come spettatore agli agonali o dalla tribuna o dal MAS di Buccari e anche alla premiazione nella sede municipale di Salò. Nel 1927, sempre per sua iniziativa, venne istituita la "Coppa dell'oltranza" per una gara di motonautica di pura velocità che richiamò i più celebrati campioni specialisti del mondo, tanto da acquisire nel campo specifico fama pari a quella della Mille Miglia nell'automobilismo. Tanto gli "Agonali del remo" quanto la "Coppa dell'oltranza" vennero, nel dopoguerra, lasciati decadere.
Vera propaganda D'Annunzio fece alla discutibile gloria di Gasparo da Salò come inventore del violino, al quale non solo volle fossero intestate le gare del remo, ma dedicò, nel Vittoriale, la sala più bella, quella della musica, chiamata "Camerata di Gasparo. Vi suonarono in prevalenza il "Quartetto del Vittoriale" formato da tre bresciani Ferruccio (viola), Gino Francesconi (violoncello), la moglie di questi Maria Trentini (violino) e Ambrogio Rossi, milanese (violino), sostituito dal 1926 da Giuseppe Alessandrini di Parma. Formarono il "trio eccellente" femminile, con la pianista Luisa Baccara, fedelissima, ancora Maria Trentini Francesconi e un'altra bresciana, Ferdinanda Buranello, violoncellista. D'Annunzio scrisse anche che "per diritto di gloria Salò è di Gasparo" e definì "Salò di Gasparo" la cittadina. Parole di grande lode ebbe per il monumento al liutaio eretto nel maggio 1923 nel Municipio di Salò, opera dello scultore bresciano Angelo Zanelli. Altri ricordi dannunziani sono legati al duomo della cittadina gardesana che fu, con S. Zeno di Verona e il Museo romano di Brescia, uno dei suoi "securi porti dell'arte". Dal 27 gennaio 1926 volle che ogni anno la Messa di suffragio alla madre si tenesse nel Duomo, "considerando", scrisse al suo medico di fiducia dottor Duse, "che nel capitello dì una delle colonne laterali della parte è l'Arcangelo Gabriele" e ritenendolo "degno di ogni più alta cerimonia". Il 27 dicembre 1926 volle che nello stesso Duomo si celebrasse il Natale di sangue fiumano, alla quale intervenne il vescovo di Fiume. Del resto fin dal 26 febbraio 1923, offrendo al Comune di Salò la prima copia di una sua opera si firmava "Gabriele D'Annunzio salodiano", e su una fotografia scrisse: "Al Comune di Salò, glorioso nei fasti dell'eroismo e dell'arte, il cittadino salodiano devotissimo Gabriele D'Annunzio della Camerata di Gasparo".
Fra le altre località che ricorrono negli scritti e negli epistolari dannunziani, fu soprattutto il Garda che chiamò "divino" e di cui scrisse specie nel "Libro ascetico della giovane Italia". Il Garda e il "Sasso di Manerba" vennero esaltati il 17 marzo 1923 nel messaggio all'ammiraglio Paolo Thaon di Revel. In "Per l'Italia degli italiani" guardando dalle pendici sopra Salò, scoprì nel profilo del "Sasso di Manerba" "la minaccia grifagna di Dante". Fede scalpore la sua visita al convento di Maguzzano nel settembre del 1922, tanto che si parlò perfino di una sua conversione. Nel 1926 donò al convento dei Cappuccini di Barbarano un quadro raffigurante S. Francesco, di Cadoria. Il 3 agosto 1937 accompagnò allo stesso convento il domenicano padre Riboli e si fermò a conversare con i religiosi discettando, anche a proposito, su questioni francescane, vantando la sua fedeltà al Poverello. Visitò il convento, bevve una tazza d'acqua del pozzo e se ne andò abbracciando e baciando tutti i frati. Poche ore dopo la visita mandò un quadro di S. Francesco, del Sibellato.
Una località che conobbe, in un momento particolarmente tragico, fu la media Vallecamonica, specialmente Darfo, nei giorni che seguirono, nel dicembre 1923, al disastro del Gleno. Alloggiò all'antico Albergo della Posta e riportò un'impressione vivissima tanto "da non poter più mangiare" dopo aver bevuto l'acqua del luogo e definì, molto impropriamente, il disastro "la grande rapina dell'Oglio". Tra le altre località ricordate nel suo sterminato epistolario sono Gavardo, Tremosine, Bagolino, messo questo in relazione con un grottesco 'San Bagolone". Visitò anche il campo d'aviazione di Ghedi. Meno rilevanti dalle sue opere e dal suo epistolario i rapporti generici con le popolazioni bresciane, schivo com'era delle apparizione pubbliche. Difatti, venuto a Brescia nel 1936, per l'unica volta nella sua vita ad assistere al film "Eskimo" al cinema Palazzo di piazza della Vittoria (poi distrutto dai bombardamenti), quando all'uscita dal cinema trovò attorno alla sua inconfondibile Isotta Fraschini una piccola folla plaudente, si soffermò sulla soglia ed esclamò: "Non sono io, no!". Poi montò in vettura e partì velocemente. Fu dopo aver assistito a tale proiezione che decise di non ridurre cinematograficamente "La figlia di Jorio", per il frastuono del parlato. Poche, ad ogni modo, furono le comparse fra la gente, più frequenti agli inizi del suo soggiorno bresciano. Difatti il 9 aprile 1921, partecipava alla festa dei fascisti a Brescia; l'11 giugno 1921 era presente al concerto di Toscanini al Grande; il 20 luglio 1921 volle ospiti i bambini di Gardone per premiarli di aver preparata una quasi improvvisata luminaria. Nello stesso anno promise di commemorare Dante a Brescia, ma poi disdisse l'impegno.
Nel 1923 lo stesso poeta offrì "ai figli degli operai bresciani travolti nella triste vicenda dell'Officina Metallurgica Tempini", una rappresentazione della "Nave"; nel luglio dello stesso anno veniva rappresentato al Teatro Grande l'"Orfeo" presente lo stesso D'Annunzio.
Ai bresciani, attraverso Tomaso Monicelli, indirizzò quella che voleva essere una risposta all'allocuzione di Pio XI ai quaresimalisti di Roma e all'ammonizione del Vescovo di Brescia ai quaresimalisti della diocesi, circa la condanna delle opere dannunziane all'Indice, terminando la lettera con una frase che ebbe grande eco "Ne laedat cantus". La lettera venne pubblicata sul "Popolo di Brescia" il 7 marzo 1928, ma il giornale venne sequestrato nella edizione di città. Passò poi alla prima edizione di provincia del giorno dopo. Per le altre manifestazioni pubbliche, come l'esposizione canina di Gardone Riviera, mandava messaggi. Anche con le associazioni combattentistiche bresciane ebbe rapporti, con messaggi. Così con la sezione provinciale Mutilati e invalidi di guerra, i Volontari di guerra, i Lupi di Toscana, la sezione della Lega Navale. Solo i combattenti bresciani vennero da lui ricevuti nel dicembre 1934. Più intensi invece furono i rapporti con singole persone. Fedelissimo tra i bresciani fu l'avv. Antonio Masperi, legionario fiumano, feritó durante l'impresa, così da avere la gamba destra anchilosata. Dal poeta fu definito "bresciano puro, figlio legittimo della Leonessa", "uomo d'onore e soldato di valore" e venne da lui ritenuto suo fiduciario anche per la conclusione nel novembre 1923 del "patto marinaro". Gli fu vicino anche in seguito e specialmente dopo il trasferimento sul Garda. Nel 1923 fu più volte suo messaggero presso Mussolini, guardato con sospetto, anzi addirittura come antifascista o dissidente fascista dal Governo, tanto da temere che, a nome di D'Annunzio, già nel 1924, "tentasse di penetrare nella massa operaia bresciana". Tale atteggiamento nei suoi riguardi continuò poi per anni. Gli fu vicino anche Arturo Marpicati, da lui chiamato "Artù", legionario fiumano, che fece da tramite tra lui e Mussolini fin dal 1920 e che, come segretario dell'Accademia d'Italia, fu più volte messaggero perché accettasse la nomina a presidente dell'Accademia stessa, sempre rifiutata. Con Fulvio Balisti, che nel dicembre del 1919 durante la crisi di Fiume, aveva mantenuto i rapporti fra il poeta e Mussolini. Vivo apprezzamento D'Annunzio ebbe per Augusto Turati "energia schietta in mezzo a tante formule, schemi e temi e disegni, a tante dottrine e tante figure che passano" anche se poi lamenterà che, da segretario del PNF, non si facesse "mai vedere al Vittoriale". Ma in sostanza fino al definitivo defenestramento e all'esilio gli fu vicino e lo assecondò. Tra gli uomini politici bresciani vi fu il sen. Carlo Bonardi da lui chiamato "il patrocinatore". Fin dai primi giorni di soggiorno a Gardone conobbe il commediografo Giuseppe Bonaspetti che gli fece per qualche tempo da segretario e il maestro Nando Benvenuti. Contatti vivi ebbe con Angelo Canossi. In giovinezza l'aveva incontrato fugacemente a Firenze. Lo ritenne sempre "uomo inconfrontabile" e lo seguì "col pensiero e col cuore" in tutta la straordinaria carriera fino "alle più ardue vette". Un incontro inaspettato il poeta bresciano ebbe con D'Annunzio il 24 marzo 1923 quando andato con un giovane mutilato bresciano a ritirare gli ulivi per la domenica delle Palme al Vittoriale, promessi per l'Istituzione della Memoria, Canossi incontrò il D'Annunzio, accompagnato da Antonio Masperi, nell'oratorio del Vittoriale. Il poeta si affrettò "a dichiarare il suo zelo per lo studio del dialetto bresciano..." sul volume "La Me-lo-dia" dei cui versi si faceva fare "frequente lettura da una fanciulla del paese per la pratica della pronuncia" dichiarandosi a tal "buon punto" di poter scrivere un sonetto dialettale bresciano da dedicare al Canossi. Dichiarò poi: "Io sono oramai cittadino bresciano e ci tengo e credo di averci diritto!" Diede poi il permesso di presentargli la Schola Cantorum della Memoria, al che il Canossi non poté fare a meno di esclamare: "Bravo! L'è propre 'l nòst söcher sura le maöle!" D'Annunzio consegnò gli ulivi che accompagnò poi con un biglietto sul quale scrisse: "A Brescia gli ulivi del Vittoriale! Nella Domenica Santa "Mutuo amore crescent". Gabriele D'Annunzio. La vigilia delle Palme, 1923". Alcuni giorni dopo, il 29 marzo, lo stesso d'Annunzio telegrafava al direttore della "Provincia di Brescia" richiamandosi "all`affettuoso ricordo del buon poeta bresciano". "Sono ormai vostro concittadino per decreto di sovrana gentilezza". Il poeta bresciano gli scriveva 1'1 aprile 1923 in occasione del conferimento della cittadinanza di Brescia, firmò il "Campanaro della Memoria". A D'Annunzio dedicò anche un componimento dialettale in cui lo definì "il nost söcher sura le maöle". Scriveva più tardi a D'Annunzio di essere tornato "tante volte a far la ronda al Vittoriale ma senza chiedere di visitarlo".
Rapporti cordiali ebbe con i parroci che si susseguirono a Gardone, don Bortolo Bellicini, "suo fratello, canonico e cavaliere" al quale cominciò a fare offerte dal Natale 1921 e col quale ebbe contrasti poi per il troppo prolungato e frequente suono delle campane. Per lui ottenne la nomina a cavaliere, ma poi ruppe ogni rapporto perché oltre al suono delle campane, durante la messa di suffragio della Madre, osò leggere le pubblicazioni matrimoniali. Rapporti quasi calorosi ebbe con il successore di don Bellicini, don Giovanni Fava. Antifascista, animatore della locale Lega bianca, da curato a Toscolano aveva dovuto accettare la parrocchia di Gardone. D'Annunzio lo salutò con calore, gli fece doni, gli mandò offerte. Gli segnalò anche bei esametri latini di Celso, lo salutò come "Johannes, dulcis anima" e lo trovò degno di ospitare di nuovo nella chiesa di Gardone la celebrazione annuale dell'ufficio funebre per i caduti del Natale di sangue di Fiume. Gli dimostrò gratitudine per la candela della Festa della Purificazione, gli chiese la benedizione per lo Schifamondo, e gli mandò un saluto caloroso, con dolci per mons. Tredici, capitato a Gardone per la visita pastorale. Predilezione ebbe per l'atleta olimpionico prof. Giorgio Zampori che ospitò nel marzo 1928 con la squadra degli atleti italiani che si allenavano per le gare di Amsterdam. A lui inviò lettere di alta ammirazione scrivendogli la sua "tanta gioia" per l'arte "vostra potente come la mia" inviandogli il "parrozzo" della sua terra d'Abruzzi, il "vino generoso" e il suo "vivo cuore" e augurando a lui e agli atleti "ut validius, ut velocius".
Fra i medici gli furono particolarmente vicini, oltre che come sanitari anche come amici, il dott. Antonio Duse, che lo curò dopo la caduta dell'agosto 1922 e dovette constatarne la morte il 1 marzo 1938; il dott. Pier Luigi Valdini "dottore di Luce" "radiante collega", "fratello nella Luce, nel Calore, nella Misericordia", il dott. Paolo Nichelatti, che fu il suo oculista di fiducia, il dott. Silvano. Non si deve dimenticare che al Vittoriale D'Annunzio rimase tra la vita e la morte dopo la caduta dell'agosto 1922, subì un'operazione di appendicite nel giugno 1929 e registrò il declino progressivo e a volte drammatico delle sue forze fisiche, di cui i medici bresciani furono testimoni diretti. Ebbe rapporti anche con Aldo Cavalazzi di Brescia, Carlo Cavalli di Gardone Riviera, Alessandro Ercoliani, il dott. Luigi Pirlo, il sen. Giovanni Treccani degli Alfieri, il dott. Gino Radice, il conte Fausto Lechi, Ettore Stefanini di Gambara, ecc. Rapporti calorosi ebbe con il gen. Martinengo-Villagana, e il gen. Togni, durante il loro servizio a Brescia.
Conoscenza più o meno profonda e corrispondenza più o meno nutrita ebbe dal 1925 con Lucia Cozzaglio ("Suor Nerissa"), Anna Maria Bregoli di Gavardo, Maria Lombardi di Brescia, ecc. Frequentate particolarmente le botteghe d'arte Dante Bravo, di arredamento Zuccoli-Minelli, sul Corso e quella dì moda Edvige Bastianini Bellman. Fra le donne di servizio ebbe le bresciane Rita Castellini, Maria Zeni (alla quale dedicò una fotografia con la dedica "a Suor Maria dell'Alare il servo dei servi di Dio") e certa Emilia, che fu particolarmente gelosa del suo padrone. Tra le "amicizie" del Vittoriale vi fu anche una ragazza del Garda che chiamò "l'Hirondelle du Garda". Di Gargnano sembra sia l'ultima donna del poeta, che egli chiamò appunto "Giulia di Gargnano" che gli fu vicino fino all'ultimo giorno. Suo fedele servitore fu il tappezziere Luigi Mometti detto Gigi che definì "artiere esemplare", "il più ingegnoso" dei suoi "discepoli" o "Gigi fa tutto" e che in effetti fu il factotum e il suo uomo di fiducia. Altri fedeli furono il fratello di Gigi, Ultimo Mometti e il tappezziere Personi, l'autista Guglielmo Marinoni, il giardiniere Vigilio Andreoli. Furono questi che forse più lo capirono e gli vollero bene. È probabile che l'ultima apparizione in pubblico di D'Annunzio sia stata in occasione d'una rappresentazione di "Turandot" all'Arena di Verona nell'agosto 1937. Per portarsi dalla vettura al palco d'onore l'autista Marinoni e l'architetto Maroni dovettero reggerlo per le ascelle. Acclamato dal pubblico, si levò i guanti bianchi e li gettò in platea.