ZECCA e moneta nel Bresciano

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ZECCA e moneta nel Bresciano

Le prime monete conosciute e diffuse nel Bresciano furono, con tutta probabilità, le galliche-cenomane che Gian Paolo Bognetti ("Storia di Brescia", I, p. 118) ritiene introdotte intorno ad una data che va non più in là degli ultimi anni del sec. III a.C. quando cominciano a circolare tra la popolazione padana «monete d'argento (e in piccola misura di bronzo) che, in numero infinito di conii, ripetono grosso modo tutte lo stesso tipo: una testa femminile al diritto e un leone passante al verso, chiara imitazione cioè della dracma di Marsiglia». Si tratta di monete «coniate autonomamente, con ogni probabilità dalle singole tribù galliche, mantenendo pur sempre però validità di circolazione in tutta l'area padana, ed anche più lontano». Di tali monete nella zona cenomane vennero effettuati numerosi ritrovamenti: uno, in particolare, di grande importanza, a Manerbio in località Gravine Nuove, dove nel 1955 venne alla luce, in un unico vaso, un tesoro di 20 chili di quattromila dracme celtiche, appartenenti ai tipi dei Leponzi, degli Insubri e dei Cenomani. Di queste dracme circa 1400 erano del tipo attribuibile ai Cenomani, tribù celtica che aveva Brescia come capitale. Il fatto che i Cenomani fossero stanziati nel territorio bresciano non venne ritenuto essere un elemento sufficiente per poter affermare che le suddette dracme fossero state coniate a Brescia od entro il territorio bresciano, mentre ha fatto pensare che il tesoro potesse costituire una cassa comune di tribù confederate. Tra gli altri ritrovamenti venne considerato di rilievo quello venuto alla luce nel 1888 a Porta Venezia.


Controversa è l'esistenza di una moneta bresciana in epoca longobarda. Dell'esistenza di una Zecca hanno scritto un classico della materia, il Carli e alcuni altri. L'affermazione è sembrata avvalorata dalla scoperta nel 1990, negli scavi di S. Giulia in Brescia, di un tremisse longobardo, e dalla comparsa sul mercato di Lugano nel 1999 di un tremisse stellato a nome di Desiderio acquistato dalla Fondazione CAB e donato ai Civici Musei di Brescia. Esiste anche un diploma del 945, attribuito all'imperatore Lotario, nel quale si parla di Zecche nella città di Mantova, Brescia e Verona, ma il documento «è assai sospetto, e merita poca fede» (F. Odorici); d'altronde finora non è stata rinvenuta alcuna moneta di questo periodo, come neppure di altri precedenti, che possa essere attribuita ad una Zecca bresciana. Di contro, a parte possibili falsificazioni, vi è chi ritiene valida l'affermazione di Gian Paolo Bognetti ("Storia di Brescia", I, p. 423) per il quale il mercato di Brescia si riservava di rifiutare una moneta non regolare stringendo all'uopo accordi con la Zecca di Mantova senza battere moneta propria. Per i secoli seguenti, fino al XII secolo, si registra soltanto l'affermazione, in una lettera di Paolo Gagliardi al Mercatore, dell'esistenza di una Zecca in Brescia fin dal 1042 che avrebbe sfornato monete in omaggio alla visita di Papa Innocenzo I alla città, mentre è registrata la presenza prevalente sul mercato della moneta milanese di «denari boni mediolanenses» (o più semplicemente «denari boni» o «denari») della moneta imperiale e solo più tardi dal 1154 di quella cremonese.


L'esistenza di una zecca bresciana risale invece, con sicurezza, al 1183 ed ha origine dagli accordi stipulati in Germania, a Costanza (25 giugno 1183), fra l'imperatore Federico I di Svevia detto il Barbarossa (115290) e numerosi comuni dell'Italia settentrionale, fra cui Brescia, attraverso il "Privilegium Pacis Constantiae", che costituì la carta fondamentale delle libertà comunali definendo la posizione giuridica delle città firmatarie. L'esistenza della moneta bresciana, anche in mancanza dei documenti diretti, è attestata da due cronache di S. Pietro in Oliveto conservate l'una nella libreria dei padri della Pace che dice «MCLXXXIV. Moneta Brixiensi facta est et Brixia ab Occidente exarsit»; l'altra, conservata nella Biblioteca dei R. Canonici di S. Salvatore in Bologna, che diceva «Mill. cen. LXXXIV. die Mercurii intrante Madio incepta est moneta Brixie», oltre un atto di investitura del vescovo di Brescia, Giovanni Griffi da Fiumicello a tre religiosi.


Nello stesso 1183 Brescia e Cremona stesero un patto con cui decisero di battere nelle due città moneta uniforme, di permetterne la libera circolazione nei rispettivi territori e di mandare da Cremona a Brescia un maestro di zecca affinché le monete fossero battute al modo cremonese. Attraverso una convenzione vennero inviati a Cremona, che aveva già una Zecca fin dal 1154, «mastri di zecca e intagliatori di coni» per imparare il mestiere.


Come annota Aldo A. Settia ("Le Carte de monastero di S. Pietro in Monte di Serle", p. XCVI) già «dal 1185 si menzionano, in alternanza con la moneta imperiale, «boni mezaroli» o «mezani». Ma già nel 1187 il "Liber potheris" sottolinea come i Canonici della Cattedrale acquistassero del terreno per costruire il palazzo pubblico e pagandolo in moneta bresciana come risulta dal documento in parola: «... consulibus comunis Brixia vice et nomine ipsius communis ducentum et x libras imperiales Brixiensis moneta». Il Settia sottolinea poi come negli anni seguenti si parlerà sempre più esplicitamente di «moneta Brixie» e come dal 1198 i «denarii boni Brixiensis» sembrano eclissare la presenza delle monete milanesi.


Come riferisce Vincenzo Pialorsi, «le prime monete che uscirono dalla zecca di Brescia furono il denaro scodellato e l'obolo, pure scodellato. Il denaro scodellato è una moneta d'argento che si presenta a forma di scodellina, ma a fondo piatto, così come già si faceva a Cremona, zecca attiva da diversi anni e che aveva curato l'apprendistato dei lavoranti della zecca di Brescia. Nel giro del diritto del denaro si legge il nome dell'imperatore Federico Barbarossa: FREDERICVS, mentre nel centro è posta l'abbreviazione IPR per IMPERATOR; al rovescio, nel giro vi è BRISIA, per Brescia, e nel centro una piccola croce a bracci uguali».


Questo stato di cose durò fino al 1249, anno in cui, per il deprezzamento avvenuto in questa moneta, fu istituito un consiglio di cittadini che esaminasse conio e valore delle monete, e ne togliesse quelle non regolari, bucandole in modo da non potersi più spendere. Per il controllo delle monete vennero pubblicati particolari statuti e tariffe, riveduti poi e accresciuti nel 1257 con l'ordine che nei contrasti e nei pagamenti si citasse solamente la moneta bresciana, e tutte le altre monete dovevano essere messe al bando. Nel 1254, in vista della ineguaglianza del numerano (cioè del rapporto peso-valore) che correva nelle città della lega, venne conclusa una convenzione, promossa da Oberto Palavicino, fra Cremona, Parma, Brescia, Piacenza, Pavia, Bergamo e Tortona per coniare moneta uniforme. Il trattato doveva aver la durata di due anni, ma per il disordine monetario che regnava in quegli anni il concordato non fu messo in pratica e a Brescia si batterono nuove monete per ottenere un valore comune.


Probabilmente è in base a ciò che il "Chronicon Parmense" registra nel 1259 una moneta bresciana "rinnovata". In effetti, affrancatosi sempre più dall'influenza imperiale e sempre più consapevole della propria autonomia, dal 1230 circa fino al 1337 il Comune di Brescia sforna alcuni tipi di "grossi d'argento", fra cui un "grosso" di grammi 1,80 con al diritto una croce accantonata da 4 trifogli con intorno la legenda «Brisia», e al rovescio i SS. Faustino e Giovita. In questo periodo vengono coniati anche il grosso in argento del peso di circa gr. 2, chiamato il "Grosso dei tre Santi" perché al diritto porta l'effige di S. Apollonio, al rovescio ha i SS. Faustino e Giovita; una piccola moneta detta "mezzano" in mistura di circa gr. 0,65 portante nel diritto il nome di «Brisia» attorno a una croce accantonata da quattro trifogli e al rovescio il solo busto di S. Apollonio con mitra e aureola; infine, una piccolissima moneta detta "obolo" di circa gr. 0,30 in mistura portante al diritto il nome della città intorno a una piccolissima croce e al rovescio il busto mitrato di S. Apollonio.


Tra tutte le monete, particolarmente pregiati risultarono i "grossi" d'argento bresciani. L'apprezzamento dell'artigianato bresciano trova riscontro nella figura di mastro Adamo che Dante pone all'Inferno come falsario. Accolto come incisore nella zecca pontificia dal 1277 al 1279 andò poi nel Casentino presso il conte di Romano a falsificare il fiorino toscano. Scoperto, subì il patibolo. La permanenza a Brescia dell'inglese è accertata da un documento bolognese in cui è indicato: «qui fuit de Brixia», mentre in altri è detto «de Anglia». Il «qui fuit de...» indica provenienza per avervi abitato, mentre l'altra forma sta a significare l'origine per nascita, per cui si può ritenere che a Brescia abbia imparato l'arte del conio.


Nella storia della moneta a Brescia compaiono, oltre a mastro Adamo, altri falsari. Fra i casi più clamorosi si ricordano quello degli artigiani bresciani rimasti ignoti i quali, nella seconda metà del sec. XIV, contrabbandarono come d'oro zecchino monete di rame dorato con nomi storpiati dei dogi Marco Corner, Andrea Contarini e Antonio Venier (in carica tra il 1365 e il 1400), monete che rimasero sequestrate per secoli a Monza dove erano state inviate per la doratura e riscoperte solo un centinaio di anni fa. Presto scoperti invece per falsificazioni, nel 1514, furono numerosi bresciani, tre dei quali, fra cui l'orefice Giuseppe Gavardino, salirono il patibolo, mentre una quarantina di altri complici furono esiliati o imprigionati e multati.


Quanto alla sede della Zecca l'Astezati segnalava nel novembre 1724 al Muratori l'esistenza di due piccoli marmi con l'impronta di una moneta: uno sopra un arco «sopra l'ingresso (di uno stabile) all'ingresso della piazzetta avanti la ... chiesa di S. Faustino, l'altro sopra una porta molto tempo otturata incorporata nella casa del canonico Ugoni corrispondente a palazzo Ducos ex Ugoni in via Tre Spade (attuale via Cattaneo)». Sia Francesco Fè d'Ostiani che Paolo Guerrini, essendo tale via più anticamente chiamata via del Medallo, hanno ritenuto che in tale via si trovasse la Zecca di Brescia, dato che la moneta coniata veniva chiamata genericamente "metallo" o "medalia" (medaglia). Del resto lo stesso Astezati in uno scritto al Muratori scriveva che «il volgo» credeva che in tale casa «in altri tempi » vi fosse la Zecca di questa città.


Con lo sviluppo dei commerci e l'allargarsi dei mercati la moneta bresciana ebbe poi a confrontarsi con altre monete e altre Zecche sorte anche in località vicine. Nella sola Lombardia il "Corpus Nummorum italicorum", iniziato nel 1910 dal re Vittorio Emanuele III, ne elencava 33 tra le quali più vicine a Brescia si possono ricordare quelle di Bergamo, Cremona, Gazzoldo, Mantova, Medole, S. Martino dell'Argine (Mantova) e Verona.


Dopo lunghi anni di sosta la Zecca bresciana venne riaperta, sembrerebbe in Broletto o nella Cittadella vecchia, da Pandolfo Malatesta, signore di Brescia dal 1404 al 1421. Da essa uscirono diversi tipi di moneta, e cioè: grosso in argento del peso di circa gr. 2,30 portante nel diritto lo scudo elmato con cimiero, corona e svolazzi. Nella legenda del diritto leggesi il nome di Pandolfo e il rovescio riproduce i due santi Faustino e Giovita come nei grossi del precedente periodo; mezzo grosso in argento detto anche "Soldino" di circa gr. 1,20 portante al diritto una testa barbuta con corona a foglie e grappoli con intorno la leggenda «PANDULFUS DOMINUS BRIXIE» e al rovescio S. Apollonio seduto benedicente, come nel tipo dei grossi milanesi. Questa moneta è molto rara, poiché se ne conoscono pochi esemplari dei quali uno si trova nel Museo di Brescia; una moneta che il Corpus classifica come Sestino (o Sesino) in argento del peso di circa gr. 1 portante al diritto lo scudo dei Malatesta con la legenda «PANDULFUS D. MALATESTIS» e al rovescio un leone rampante rivolto a sinistra con la legenda «DOMINUS BRIXIE & C.»; un quattrino in mistura del peso di circa gr. 0,80 portante nel campo al diritto le lettere D-P (Dominus Pandulfus) in cartella di due archi e due angoli con la leggenda «DE MALATESTIS» e al rovescio lo scudo malatestiano con la leggenda «DOMINUS BRIXIE & C.»; un denaro in mistura del peso di circa gr. 0,50 portante al diritto nel campo una croce forata e al rovescio una testa ricciuta di moretto; infine, un denaro eguale al precedente nel rovescio mentre al diritto porta la legenda «PANDULFU» completata dalla S finale posta nel campo della moneta in luogo della croce.


Riguardo la zecca bresciana di Pandolfo, essa non fu da lui gestita direttamente, ma venne appaltata ad Antonius de Porzelagis, o Porcellaga; il mastro di zecca fu Bonaventura de Bobus (Bovi) e la contabilità, minuziosamente registrata nel "Libri delle partite", fu tenuta da Antonio da S. Miniato, toscano; dalla Toscana proveniva anche l'argento necessario alla composizione della lega delle monete.


Con l'avvento definitivo della Repubblica di S. Marco (1427) su quella bresciana si impose la valuta veneta sia pure in concorrenza con quella forestiera recata dai commercianti in una crescente quantità di monete tutte accettate e spese senza distinzione, purché fossero di giusto conio e peso. Diversi tipi di monete si mescolarono, in tal modo, con quelle ufficiali particolarmente nei tre valori fondamentali della moneta di conto, detta anche "planet o dei planetti", di 24 soldi ridotti poi a 20 e di 12 denari per soldo.


Dal 1486 fino al 1573 vennero coniate per Brescia come per Bergamo, Vicenza, Padova, Treviso ecc. monete spicciole in rame dette "bagattini". I nomi delle monete correnti sono, tra i molti, il "grosso" vecchio e nuovo, il "bolognino", il "sestino", il "quartino", tutte d'argento, il "mezzano" (equivalente a mezza lira imperiale) ecc. Fra le più diffuse dalla fine del '400 fu la lira che aveva corso in tutta Europa divisa in venti soldi e questi, a loro volta, in dodici denari che finirono per essere chiamati "bes" (dalla voce germanica "bez") e che passò al nome dato al centesimo della lira italiana, corrente in Italia fino ai primi decenni del sec. XX.


Mentre Venezia procedeva alla riorganizzazione del sistema monetario, nel 1458 dichiarava decaduti i "planet" di rame e nel 1459 abbatteva altre monete quali le "duine", ridotte a un solo denaro. Nel 1464 il governo centrale decise di immettere in circolazione un certo quantitativo di altre sue monete di rame, in ragione di 12 "piccoli" per ogni "marchetto", il che non garbò affatto al Consiglio di Brescia che avanzò delle controproposte per le quali se ne doveva limitare il quantitativo a non più di mille ducati. Ma Venezia respinse la richiesta ed i rettori chiarirono con molta rudezza che si trattava di un ordine non discutibile, benché il Consiglio esprimesse la sua rinnovata opposizione con 99 voti contrari ed 11 soltanto favorevoli (ducale 4 aprile 1464; Provvisioni, 19 e 23 aprile 1464). Nel 1471 vennero banditi i "grossoni" d'argento; nel 1474 per decreto governativo venne diminuito il valore delle monete forestiere con grave danno per l'economia bresciana, i cui mercati erano affollati di continuo da mercanti stranieri d'oltralpe e le cui esportazioni facevano di necessità affluire per lo più un valsente di svariatissimi coni e zecche (Caprioli, pp. 231, 234). Per le monete bresciane, il loro valore e le successive trasformazioni sono ancora validi.


L'assestamento della monetazione sotto la Repubblica veneta richiese ripetuti provvedimenti delle autorità bresciane. Tra il 1472 ed il 1479 venne "abbattuto" il valore di tutte le monete d'argento locali e forestiere con evidente danno di chi le aveva ricevute e computate all'originario loro valore ("diario Corradino Palazzo", pp. 241, 243, 252; "Provvisioni", 23 luglio 1472 ed altrove). Con provvedimenti del 21 giugno e 21 ottobre 1490, stante la necessità di moneta minuta, si diede licenza di cambiare monete d'argento in quelle di rame, malgrado in passato, e precisamente nel 1464, fosse stata respinta a grande maggioranza una ducale veneta che proponeva l'immissione sul mercato bresciano di monete di rame sino a 1000 ducati. Altri provvedimenti seguirono il 6 novembre 1491, l'8 gennaio 1793, il 27 ottobre 1797 ecc.


Una seria crisi monetaria sopravvenne con l'occupazione francese del 1509 e poi di quella spagnola e tedesca sia per la penuria di denaro circolante, sia per la sostituzione imposta della moneta veneta con quella prodotta dalle Zecche di Parigi, Milano, Genova e anche Bellinzona, che sfociò nella proibizione assoluta di esportare ogni e qualsiasi moneta d'oro e d'argento. L'assedio poi in castello del contingente spagnolo da parte dell'esercito francese e veneto portò a Brescia una momentanea zecca che sfornò monete, o gettoni, dette appunto dalla contingenza bellica "ossidionali".


Districandosi tra le polemiche di studiosi, Gerolamo Bettoni ha creduto di elencare come prodotte durante l'assedio le seguenti monete: una di forma ottagonale, larga mm 24 e alta mm 25, del peso di gr. 6,50 circa, porta da un lato l'aquila bicipite spiegata e coronata senza alcuna legenda, mentre al rovescio porta nel campo una crocetta, il millesimo 1515 e al di sotto una grande Y di forma spagnola fra le due lettere M e A più piccole; una seconda moneta uguale alla precedente, ma battuta su lamina d'argento più sottile, del peso di circa metà della precedente. Di due esemplari uno è nei Musei di Brescia, l'altro nel Medagliere milanese; della terza moneta più piccola esiste un esemplare, anch'esso esistente nella collezione milanese, che porta al diritto l'aquila bicipite coronata, simile a quella delle due monete sopra descritte ma più piccola e semplificata, mentre al rovescio porta solamente la Y spagnola fra due piccolissimi cuori senza millesimo e senza alcuna altra lettera. Dopo il 1515 in Brescia non vennero più battute monete, salvo un quattrino che Pasquale Cicogna, doge di Venezia dal 1585 al 1595, fece battere per il minuto commercio bresciano e che è conosciuto in un unico esemplare esistente nella collezione dei conti Zoppola.


Vincenzo Pialorsi, dopo attenta analisi, ha potuto registrare nel volume "Monete della Zecca di Brescia nella collezione dei Civici Musei" 114 esemplari di monete coniate a Brescia, alcuni dei quali, come i cinque soldi del 1515, di particolare rarità. A parte l'esistenza di una Zecca propria, Brescia dovette sempre più affidarsi alla moneta veneta dominante e a quella straniera, sempre più presente per il continuo allargarsi dei mercati, subendo poi la politica monetaria napoleonica, austriaca e collegandosi a quella dello stato unitario.


Di notevole interesse anche la presenza bresciana in monete uscite da Zecche forestiere. L'aquila dei Martinengo è impressa in una moneta coniata a Solferino, piccolo feudo dei Gonzaga, verso il 1678; lo stemma Averoldi compare in monete coniate a Bologna per onorare il vescovo Altobello Averoldi, nel 1513 delegato pontificio della Romagna e governatore di Bologna; lo stemma del cardinale Giovanni Andrea Archetti, legato pontificio a Bologna, compare in monete ivi coniate nel 1785-1787; la figura e lo stemma di Paolo VI (Giovanni Battista Montini) compaiono nelle serie dedicate dal Vaticano a sommi pontefici.


Di Zecca intesa come lo stabilimento nel quale si fabbricano le monete si torna a parlare nel primo dopoguerra quando Brescia diventa una specie di succursale della Regia Zecca di Roma. Dal 1923 negli stabilimenti della Società Metallurgica Bresciana (ex Tempini), in programma di riconversione della produzione di guerra in quella di pace, vengono prodotti fino ad un milione di pezzi al giorno di tondelli per monete da 5, 10, 20 e 50 centesimi e da una e due lire in nichel e bronzo. Nel 1927 trasformò 660 tonnellate di antiche monete divisionali d'argento in tondelli per le nuove monete da 5 e da 10 lire. Per distinguere i tondelli da quelli allestiti dalle officine della Zecca di Stato venne modificata la legenda FERT ("Fortitudo Eius Rhodum Tenuit" e cioè: il suo coraggio difese Rodi. È il motto di casa Savoia). Vennero piazzate 105 macchine per cui, nel luglio dello stesso anno, vengono prodotti, in media, cinque tonnellate di tondelli al giorno inviati alla Regia Zecca che vi imprime il conio per passarli al Tesoro, che li immette in circolazione.


Fra le ultime notizie riguardanti la monetazione nel Bresciano ha spicco quella di due sprovveduti artigiani falsari di Lumezzane, soprannominati Moreto e Bigiutì. In difficoltà economiche, venne loro per il capo di coniare negli anni '30 del sec. XX monete d'argento di cinque lire chiamate dal popolino aquilini perché riproducenti un'aquila. Subito scoperti e processati, al giudice che faceva loro rilevare la gravità dell'azione compiuta, uno dei due candidamente disse: «Guardi signor giudice: prima di coniare monete producevo pomoli per tiretti, ma facevo la fame, poi ho coltivato patate, e poi ancora ho prodotto patate, ma senza cambiare in meglio la mia situazione economica; alla fine ho incominciato a coniare aquilini, e quelli sì che mi rendevano!».