PESTE

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PESTE

Malattia contagiosa dovuta ad un bacillo (Pasteurella pestis, scoperto da Yersin e dal Kitasat nel 1894) corto, ovoidale, grammnegativo trasmesso di solito dalle pulci parassite del ratto nero delle navi. Dopo un'incubazione di 6 giorni si presenta sotto due forme: bubbonica, più frequente (infiammazione e tumefazione delle linfoghiandole ascellari e inguinali), e polmonare (polmonite pestosa), entrambe con grave sintomatologia generale acuta: febbre elevata, intenso mal di capo, vomito, diarrea, delirio. Nell'ulteriore decorso le due forme possono dare origine alla setticemia pestosa con sintomi di grave sepsi, emorragie cutanee e delle mucose. Nella peste bubbonica la mortalità è del 40-50 %; quasi sempre letali sono le altre forme.


Nessun riferimento locale si può avere dell'epidemia detta peste antica (da quella detta di Atene o Attica del 430-435 a quella del 250 d.C. che colpì prima l'Egitto e poi l'Europa intera) che gli studiosi di solito non qualificano come vera peste. Nessun riscontro bresciano anche circa l'epidemia più sicuramente pestifera verificatasi nel VI sec. d.C. detta di Giustiniano anche se verosimilmente colpì con l'Italia anche il Bresciano. Si accenna a pestilenze nel 1242, 1243, nel 1285. Viene assegnato dalla tradizione o leggenda al 1301 il peregrinare in Italia di S. Rocco che, pur se venuto dalla Francia, diventerà uno dei più invocati patroni contro la peste. Fonti non sicure ma più verosimili assegnarono 7 mila vittime nella città di Brescia, alla peste scoppiata nel 1312. Una peste "horribile" colpì, secondo p. Gregorio di Valcamonica (nei suoi "Curiosi trattenimenti") la sua Valle due anni dopo il 1314 . Curiosamente p. Gregorio scrive che in essa "perì più della metà delle persone... morsero più gioveni che vecchi, più donne che homeni, e tra le donne, più le belle che le brutte...". Probabilmente si tratta del morbo che il Cavriolo assegna agli anni 1316-1317 e che imperversò in Lombardia e specialmente a Brescia con circa 7 mila vittime. Vera peste, come dimostrarono due studiosi, Hecker e Heser, fu la cosiddetta peste nera nel 1347-1350 resa celebre dal Boccaccio e che, proveniente dall'Oriente, devastò tutta l'Europa. Dopo tale epidemia, la peste specie bubbonica divenne endemica in Europa per alcuni secoli. Si manifestò qua e là nel 1361, nel 1365. Episodi di peste, ma altri pensano ad una sconfitta, avrebbero costretto nel 1391 o 1399, secondo altri, a quanto scrive Elia Capriolo, l'imperatore Venceslao, sceso in Italia per vendicare l'uccisione del conte Giacomo Arnaia, attraverso la Valsabbia e la valle del Garza, a ritornare sui suoi passi. Un'epidemia diffusasi nel 1412 era ancora ricordata a cento anni di distanza. Un'altra epidemia si sparse nel 1427 dal territorio di Salò verso Brescia ed in forma così grave da spingere il Provveditore veneto in Brescia, Faustino Dandolo, il 5 settembre 1427, a ordinare di trovare, nei dintorni della città, un luogo adatto, oppure una casa con tutto quanto si ritiene necessario per accogliere e curare degli infermi: «e che si provveda a letti, arredi, inservienti, medici, un sacerdote e a tutte le cose necessarie anche ai malati» dove portare qualsiasi persona che venisse colpita dal morbo. Il 4 novembre venne destinato a tale scopo il monastero suburbano di S. Bartolomeo che divenne il più importante Lazzaretto della città (v. Lazzaretto di Brescia). Le Provvisioni cittadine segnalano focolai di peste in città e a Ome nel 1429 ed episodi del male a Brescia nel 1432. Cristoforo Soldo invece descrive con efficacia l'epidemia scoppiata nell'agosto 1438 con pochi episodi. Tale epidemia nel settembre-ottobre mieteva già, «giornalmente, quattro, cinque, sei, otto, dieci, duodeci, calando a uno, due, tre persone in novembre» e questo, scrive il Soldo, "tanto stremicio era nella gente, che ogni homo cercava de uscir fuora et ogni homo cercava salvi condutti". Nel marzo dell'anno successivo «lo morbo era grandissimo in Bressa» accompagnato da grandissima carestia. E quando nel giugno 1439 la città venne liberata dall'assedio del Piccinino, pur avendo consentito a molti cittadini di raggiungere la vicina Valle Trompia, il fatto non coincise con un miglioramento delle condizioni sanitarie, perché, in agosto (1439) «al fatto di Bressa staseveno molto male; la pestilentia grandissima; la carestia grande e più che non scrivo. Ogni giorno ne moreva 45 et 50». Il massimo infierire dell'epidemia si è verificato, da quanto scrive il cronachista, nella stagione calda del 1439, superando, di gran lunga, il numero delle vittime giornaliere dell'estate precedente, pur con un notevole esodo di cittadini. Nella valle del Chiese, passaggio obbligato per le truppe che venivano dalla riviera del Garda, la malattia era segnalata nella stessa estate 1439, rivelandosi pesante a Gavardo e dintorni. Come risultò dai ruoli raccolti l'8 marzo 1440 gli abitanti della città da 30 mila si erano ridotti, per la peste, l'assedio ecc. a 15 mila. La presenza della peste a Bedizzole - Padenghe nel 1445 è testimoniata da una lapide conservata nel Museo Cittadino di Brescia, che documenta l'esistenza di un lazzaretto nella frazione di Drugolo, nel luogo sul quale sorse poi la chiesa dei morti della Selva, Lazzaretto che funzionerà fino al 1630.


Il moltiplicarsi dei casi di peste spingeva, il 13 novembre 1446 le autorità di Brescia a creare una «commissione di cinque confratelli» alla quale fu data piena ed assoluta autorità di deliberare... «onde provvedere ai bisogni ospitalieri della cittadinanza che si facevano sempre più urgenti e gravi per il continuo serpeggiare di febbri maligne e di malattie a forma epidemica». La morte di un mercante forestiero di passaggio a Brescia nell'ottobre 1447 riattizzava il contagio che si sparse poi a Rovato e Travagliato ricomparendo nei dintorni e dentro la città, a Rebuffone e alla Pietra del Gallo e al Mercato Nuovo, mentre veniva riaperto il Lazzaretto di S. Bartolomeo.


Dopo una pausa di alcuni mesi l'epidemia ricompariva nel settembre 1449 a Lonato, scoppiando violentissima nell'estate del 1450, proprio mentre grandi feste pubbliche venivano celebrate in occasione della canonizzazione di Bernardino da Siena così che i provvedimenti di tutta fretta approntati dalle autorità cittadine contro il pauroso flagello si intrecciarono con le iniziative comunali che si prefiggevano di rendere ancor più solenne e lieto quell'avvenimento. Furono prese severe misure, e indette devozioni speciali con il concentramento dei malati nel convento di S. Salvatore. Vennero emanati dai "deputati ad pestem" ordini severissimi di quarantene, si raccolsero denari, vennero proibite manifestazioni, anche religiose, salvo una grande processione che favorì la diffusione dell'epidemia. Come ha documentato Leonardo Mazzoldi "Gli ammalati per fortuna loro scampati alla morte furono raccolti nel convento di S. Salvatore e là racchiusi per lungo tempo; vennero espulsi dalla città quanti caddero in sospetto di infezione e molti cittadini cercarono riparo fuori dall'abitato, in luoghi ancora preservati dal male, tutti a loro volta ferocemente respinti e ricacciati entro le mura urbane dalla cieca resistenza dei territoriali che non li volevano assolutamente accogliere, sempre per timore di esserne contagiati". Non mancarono polemiche tra le autorità religiose e civili, mentre le vittime salivano a decine ogni giorno come riconoscevano le delibere comunali del luglio, agosto, novembre 1450 e ancora nel febbraio e marzo 1451. Il morbo, come si legge nella Provvisione, "pullulabat" in tal modo da convincere le autorità ad aprire, a porta Torlonga, un lazzaretto dedicato a S. Matteo, unito nel 1451 al Consorzio dello Spirito Santo. Nonostante tutte le precauzioni, alcuni mesi dopo, episodi di peste si verificarono a Nave e nelle vicinanze di Brescia, senza tuttavia toccare la città. Questa venne colpita invece, di nuovo, nel 1457. Scoppiata nell'aprile, nell'ottobre infieriva di giorno in giorno sempre più. Il ripetersi dell'epidemia nel settembre 1466 convinceva le autorità a dare consistenza e strutture sempre più ampie al Lazzaretto di S. Bartolomeo che specie fra il 1468 e il 1469 ospitò i colpiti da un nuovo ritorno del male chiamato nelle Provvisioni come contagioso, per cui vennero mobilitati chirurghi e medici. Addirittura il Consiglio Generale di Brescia decideva di erigere, a S. Rocco, una chiesa o cappella votiva. Misure severe prese anche il governo veneto; esse vennero ripetute nel 1472 e 1474. Fatale oltre ogni paura fu l'epidemia del 1478 detta del Mazucco che mieteva trentamila vittime nella sola città in circa undici mesi (v. Mal del zuchèt o mazùch) sulla quale tuttavia esistono forti dubbi tra gli studiosi che si tratti di una vera peste. Casi di epidemie si ripresentarono nel 1481 e nel 1483. In quest'ultimo anno in città vennero chiuse le scuole, ed isolati i paesi di Castenedolo, Nuvolera, Nuvolento, Serle ecc. Strascichi venivano ancora avvertiti nel 1484, tanto da convincere le autorità ad obbligare le prostitute "casalinghe" ad esercitare la "professione" nel "luogo pubblico" che si trovava a S. Giorgio. L'epidemia venne chiamata "mal di perusia" o di Perugia. Essa mieteva vittime nel giro di 3, 4 e al più 5 giorni, tanto da far ritenere agli studiosi che non si trattasse della peste tradizionale, ma di una epidemia di diverso segno o forse, come insinua Marco Marzollo, di una forma difterica, anche se non esistono prove in proposito. Le cronache del tempo, specie dei Palazzi, accennano a casi per lo più isolati di peste dal 1502 al 1506 e dal 1509 al 1513. L'epidemia si manifestò nel marzo del 1509 a Pontoglio diffondendosi in Valcamonica e colpendo poi la città. Dopo una sia pur relativa ripresa, nel dicembre 1510 l'epidemia assunse dimensioni allarmanti verso la fine d'autunno del 1511 con conseguente "isolamento degli ammalati e dei sospetti nel Lazzaretto di S. Bartolomeo, spietati roghi di tutte le cose, cordoni sanitari ecc".


La peste si ripresentò nel febbraio 1512, in concomitanza con il terribile "sacco" di Brescia da parte delle truppe di Gastone di Foix che colpirono gli stessi Lazzaretti di S. Bartolomeo e di S. Matteo, dai quali vennero scacciati gli ammalati, e "rapite e disperse le loro cose". La situazione sanitaria, diventata gravissima, richiese dei provvedimenti straordinari. Non appena l'esercito francese lasciò la città, il primo giorno di quaresima (25 febbraio) le autorità municipali nominarono quattro ufficiali sanitari con, al loro servizio, numerosi becchini per portare fuori dalla città i morti insepolti. Il giorno 8 luglio 1512 vennero nominati altri deputati all'igiene per cercar di combattere la peste che aveva ormai superate le mura della città e mieteva vittime su vittime nei territori circostanti. Sembra che solo nella valletta di Nave si contassero oltre 800 infetti. Aggiuntasi, per la scarsità d'acqua e l'inquinamento da peste, una gravissima epidemia di dissenteria, si registrarono nell'estate 1512 dalle 30 alle 40 vittime "sia col bubbone della peste, sia in preda alle crisi dolorose e alle scariche emorragiche della malattia intestinale". Morivano, scrive Marin Sanudo, sia bresciani che soldati francesi, i rimedi erano pressoché palliativi, scarsi, e mal diretti, perché «non si trova medici per el sospeto del morbo; né barbieri che voglia salassar non si trova zucharo né medexine». Scrive il Pasero: «e nelle case giacevano gli infermi, ove i guasconi entravano senza riguardo, asportando roba e sempre più diffondendo l'infezione anche tra di loro». In quel terribile agosto morirono, ha registrato il Doneda, nel solo monastero di Santa Croce, ben 14 monache per la peste. Nonostante le misure prese, e la stagione invernale nemica del morbo, nel febbraio 1513 le vittime erano ogni giorno decine. Il Lazzaretto di S. Bartolomeo si dimostrava insufficiente, e la città veniva abbandonata da quanti potevano, mentre, veniva proibito qualsiasi assembramento fino al 30 luglio. Poi ci fu la consueta remissione invernale. Nella primavera successiva, vi fu un'altra ripresa in tutto il territorio bresciano e in alcune zone del bergamasco e, finalmente, grazie a Dio e a San Rocco, il male andò diminuendo, salvo una recrudescenza localizzata al solo paese di Ghedi in cui, si disse (ma non si hanno dati sicuri per confermarlo) morissero quasi tremila persone. L'epidemia portò invece ad un miglioramento dell'assistenza medica e farmaceutica. Come ha rilevato Armando Pavesio «Per quanto riguarda la preparazione dei medicamenti, nel 1514, dopo gli anni disastrosi nei quali l'organizzazione assistenziale fu quanto mai fortunosa, l'Università degli Speziali Bresciani ripristinò l'abitudine delle ispezioni dei suoi Sindaci, allo scopo di eliminare gli abusi, le contraffazione e le sofisticazioni dei medicinali, disponendo, inoltre, una maggiore disciplina per quanto riguardava i giorni di apertura delle farmacie. Il morbo si diffuse di nuovo nel 1521 durando fino al 1526. Pur serpeggiando in Italia sembra che l'epidemia, sempre confusa con il tifo petecchiale o altre infezioni abbia risparmiato Brescia fino al 1527 quando, in coincidenza con il passaggio dei lanzichenecchi di Frunsberg (1527) e di Brunswich (1528), si verificarono numerosi casi in città e con una notevole mortalità nell'estate 1528: in città, a Torbole, a Casaglia, e nel febbraio 1529 a Manerbio e poi a S. Eufemia, Chiari, ecc. Dopo il consueto calo invernale, l'epidemia riprese ad infuriare nella primavera successiva e, più ancora, nei mesi estivi con ritmo di 2-6 morti al giorno, nettamente inferiore alla moria delle epidemie precedenti, e finalmente scomparve nell'autunno. Salvo casi isolati come quelli denunciati nel 1549 il morbo sembrava quasi del tutto scomparso salvo riapparire nel 1569. Passarono solo pochi anni quando, dopo un anno di "sanità universale" quale fu definito il 1575, la peste, già presente in tale anno a Trento, scoppiò agli inizi del 1576 anche nel Bresciano dapprima a Iseo e poi a Passirano, portatavi da Trento da un mercante cremonese e secondo altri da una bella ragazza camuna. Essa raggiunse nell'agosto Brescia, portatavi, come s'è detto, da una donna della Valcamonica che, sfuggita al blocco alloggiò presso la sua famiglia al Cantone dei Bombasari. Attaccata dal morbo, in due giorni morì, seguita da tutti i membri della famiglia che venne subito trasportata al Lazzaretto e da una famiglia di armaioli vicina di casa. Al 21 settembre risultavano colpiti Ome, Folzano, Marmentino. Lo stesso vescovo mons. Bollani che aveva ordinato sacerdote un chierico di Iseo, subito colpito da peste, venne isolato in episcopio. Tuttavia, dopo aver toccato Paderno, sembrò che il focolaio si fosse almeno in città spento. Ma si era trattato di un'illusione che diede luogo a bagordi. Il contagio riesplose nel marzo 1577 in forme sempre più tragiche e sebbene la città fosse subito isolata con truppe e guardie alle porte, il morbo si diffuse in provincia. Il medico Robacciolo ha affermato che maggiormente colpiti furono i bambini e le donne gravide; sembra che lo fossero meno «le meretrici, i gobbi, i storpi, i gosi et i soliti ad andare a mendicare: questi, se contagiati, guarivano più facilmente». Sempre il Robacciolo, che era chirurgo, ha scritto di febbri iniziali, di «mal di testa grande» con manifestazioni cutanee (petecchie), vomito, «vermi di sopra e di sotto, giandusse carbonchiose», astenia profonda e rapida fine. Quanto al decorso, la morte coglieva dopo 3 o 4 giorni, di rado dopo 5, «et se alcuno passava li 7, molti di loro si prevalevano. «Parevano - scriverà il Robacciolo - veramente tutti li rimedi scarsi et che ogni cosa havesse perduta la sua virtù ancor che ne fussero mandati molti de diversi Eccellentissimi Medici dal Sommo Pontefice et da diverse cittadi et luoghi. In tanto il numero de corpi morti che non bastò il luoco del Lazaretto a sepelirli, ma fu necessario sepelirne sul terraglio di sotto il Castello verso la Pusterla, et ultimamente per tener più longi il fettor di essi, che si portasse verso la Mella». Per seppellire i circa ventimila cadaveri, fu improvvisato il grande cimitero di Ponte Grotte: «uno spettacolo vi è molto horrendo, ed è questo che li cadaveri che furono portati alla Mella, molti di loro furono lasciati senza coprirli come sono al presente». Morirono in città nel giugno fino a 200 persone che salirono addirittura a 500 al giorno. A settembre erano morte 16 mila persone che all'inizio dell'inverno salirono a circa 20 mila. Morirono anche 20 medici e 7 chirurghi. Per mesi la città e i paesi offrirono spettacoli di terribile desolazione. Come ha documentato Leonardo Mazzoldi, i cadaveri venivano ammucchiati nelle strade (perché «li netezzini et i pigicamorti», pur numerosi, non bastavano) ed erano sgombrati, con le note carrette, fuori porta S. Giovanni «fin sopra Porta Pile, dietro al Castello e poco lontano da essi». Il Robacciolo registra che «era tanto il fetore cadaverico che ammorbava la zona che si spandeva in alto fino al castello causando la morte degli uccelli». Tutte le porte della città erano chiuse ad eccezione di quella di «S. Giovanni» per l'uscita dei morti e di quella di «Torrelunga» per ricevere i rifornimenti. Del presidio del Castello tutti morirono, morirono anche tutti i fornai, tanto che il pane veniva importato in città da Castenedolo, da S. Eufemia e dalle terre vicine. Sovraccarico fu il Lazzaretto di S. Bartolomeo che ospitò fino a 2 mila persone e per mesi quasi abbandonato a se stesso per la continua morìa e per disordini gravi, tanto che il vescovo mons. Bollani, che pure venne coinvolto in sospetti e denunce di aver abbandonato la città e di essersi ritirato a Collebeato, si sentì in dovere di chiedere aiuto all'arcivescovo di Milano Carlo Borromeo che mandò nell'ottobre 1577 a Brescia, il Cappuccino p. Paolo Bellintani che seppe totalmente imporsi, nonostante le riserve e anche l'opposizione delle autorità cittadine, rimettendo ordine e collaborando attivamente per vincere l'epidemia (v. Paolo (Bellintani) da Salò). Mentre l'epidemia veniva domata in città, continuava a devastare la Riviera del Garda, colpendo, inoltre Orzinuovi e l'Asolano. Fin dal giugno aveva raggiunto, seminando la morte, Bagolino, dove era stata aperta una "grandissima fossa" nella quale venivano gettate le vittime. A Botticino l'epidemia durò dal luglio 1577 al maggio 1578 e mieté 140 uomini di Botticino Sera e 200 circa a Botticino Mattina. Eloquente l'iscrizione che si leggeva nella Cappella del Lazzaretto di Bagolino: «Bagolino / nell'anno MCCCCCLXXVII lasciò qui / metà circa della sua popolazione / rimasta vittima / della carestia e peste». L'epidemia continuò nel 1578 e anche, con focolai sempre meno vivi, fino al 1580. Spentasi definitivamente, l'epidemia fece talmente paura che nel 1598 a Lonato duravano ancora misure severissime riguardo al passaggio di pellegrini e di viandanti.


Ma la peste ancora indimenticata sul territorio bresciano, per diversi segni è la peste del 1630 detta "manzoniana", per la mirabile descrizione che ne fece il grande scrittore nei "Promessi Sposi" e, per risvolti più tristi, nella "Storia della Colonna Infame" . Già aveva infuriato nel 1628 in Germania e in Svizzera e, data la crescente presenza di svizzeri in cerca di arruolamento, anche nel Bresciano. Nel settembre venivano chieste "fedi di sanità", da parte di coloro che provenivano dai due paesi. Sebbene nell'ottobre 1628 si fosse dimostrata non vera attraverso ispezioni la presenza della pestilenza ad Erbusco, vennero, tuttavia, messi dei cancelli in legno alle porte della città, per rendere più facile alle guardie il compito di controllare il movimento delle persone; e si tenne «una solennissima processione generale» per scongiurare il pericolo del contagio. Gli avvenimenti militari resero possibile il contagio per mezzo delle truppe lanzichenecche che attraversando territori già colpiti dal morbo nel settembre del 1629, percorrendo la Lombardia, portavano con sé i terribili germi del male. La malattia fu avvistata nel territorio di Lecco, Malgrate, Belledo, Chiuso e nel Bergamasco tanto che il 27 ottobre venivano poste guardie alle porte della città per il controllo di coloro che provenivano dalla Valcamonica e venivano prese misure severe nei riguardi dei presunti portatori di infezione.


La peste comparve nel Bresciano a Palazzolo il 13 febbraio 1630. Non riconosciuta dalla commissione sanitaria inviata in luogo da Brescia, continuò a mietere vittime, allargandosi alla frazione Mura. Accertata da una nuova commissione composta dai medici G.B. Soncini e Antonio Ducco, commissione inviata a Palazzolo il 19 marzo, il paese venne isolato mentre il commendatore Durante, che da Palazzolo si era trasferito a Brescia, veniva confinato con tutta la famiglia nel Lazzaretto. A Palazzolo si registrarono lungo il decorso del morbo circa 100 persone infette. Accertato il contagio, vennero anche a Brescia emanate norme igieniche severe per evitarlo mentre sempre nuovi casi venivano segnalati in vari paesi. Devozioni e processioni venivano compiute al Santuario delle Grazie e in Duomo con l'esposizione delle S.S. Croci. Mentre, oltre che a Palazzolo, la peste veniva segnalata a Ospitaletto (dove mieteva mille vittime) e a Pontoglio; in città, che in primo tempo si pensava risparmiata, si manifestò il 27 aprile. Ciò accadde in casa del nob. Giacomo Ugoni per cui si decise l'isolamento al Lazzaretto di ogni sospetto di contagio, compresi i medici e i sacerdoti che avevano avvicinato i colpiti.


Intanto il morbo si estendeva nel territorio il 9 maggio 1630 a Rovato, il 23 maggio a Milzano e Desenzano, il giorno dopo a Montichiari. Allarmato sempre più dal ripetersi anche di decessi in città il 25 maggio del 1630 il Consiglio Generale del comune di Brescia deliberava, per far fronte ai bisogni del momento, di eleggere altri sei deputati alla sanità e di prendere ad interesse mille ducati veneziani; e sei giorni più tardi si eleggevano quattro «sopraintendenti» al lazzaretto, due dei quali dovevano entrare immediatamente in carica, rimanendo gli altri due a disposizione per il caso di «legittimo impedimento» dei primi; il loro numero veniva portato a dodici nella seduta del Consiglio del 4 giugno. Abbiamo motivo per ritenere che il compito delle autorità non fosse facilitato dal contegno della popolazione, che non sembrava rendersi conto della gravità del pericolo: leggiamo infatti nel Bianchi, che al trasporto di due morti vi fu «gran concorso di popolo» e che al primo d'essi i «nettezini», cioè i nostri «monatti», che vestivano un camice verde con una croce bianca ed erano muniti di un campanello per segnalare il loro passaggio, furono seguiti da fanciulli schiamazzanti. Ai primi di giugno, con il caldo, l'epidemia scoppiò letteralmente: il 15 del mese si contavano 12 morti, il giorno seguente 9, ma il 17 essi salivano a circa 24. Il 19 giugno 1630 si riuniva di nuovo il Consiglio Generale cittadino, che decideva di intensificare il servizio di vigilanza sanitaria per prendere nuovi provvedimenti. Il 19 giugno venivano segnalati casi a Salò e a Mompiano e nei giorni seguenti a Lumezzane, Verolanuova, Leno, Goglione, Botticino e Ome. Nel frattempo la città si andava spopolando, gli uffici pubblici e le botteghe venivano chiusi, mentre dalle prigioni si toglievano i galeotti per sostituire i "nettezini" in gran parte morti o ammalati. Assieme si spargeva, come a Milano il terrore degli untori; il 12 luglio un soldato francese, sorpreso da un contadino ad accostarsi alle porte di contrada della Pallata, veniva ferito e catturato assieme ad un altro suo commilitone. La mortalità, intanto, aumentava in modo impressionante: il 6 luglio i morti erano 90, l' 11 luglio 102, il 18 luglio 133. Il 20 luglio il Consiglio Generale di Brescia, assieme ad altre devozioni, deliberava di far cantare una messa solenne e di offrire una lampada d'argento all'altare di S. Nicola da Tolentino nella chiesa di S. Barnaba, di far costruire nel Duomo Nuovo una cappella dedicata al santo e di inviare a Tolentino una rappresentanza a fare atto di omaggio al suo corpo, poiché molti che a quel santo s'erano raccomandati avevano miracolosamente recuperata la salute. Intanto i morti crescevano fino a raggiungere i 150 il 26 luglio e i 152 il 29 dello stesso mese. Mancavano nettezzini e carrette per il trasporto dei cadaveri, per cui si dovette ricorrere alla loro cremazione sul posto. L' 11 agosto i morti salivano in un sol giorno a 180. Solo dopo questa data, e specialmente in settembre il numero dei decessi andò calando fino a ridursi a zero in città nell'ottobre. Tirate le somme risultarono deceduti nel periodo maggio-ottobre 1630, ben 11 mila (di cui 4293 al Lazzaretto) il che significa che la popolazione si era ridotta praticamente alla metà, poiché un prospetto del gennaio 1631 dava un totale di 13.227 abitanti. La spaventosa morìa comportò, oltre al sacrificio di vite umane, spese gravissime per il personale di sanità e di polizia (medici, «barbieri», «nettezini», speziali, anziani delle contrade), per la sistemazione ed il funzionamento del lazzaretto, per il trasporto e la sepoltura dei cadaveri, per l'assistenza ai poveri, per la disinfezione di abitazioni e di cose, per le ispezioni effettuate in diverse località del territorio. E ciò senza contare le perdite per la cessazione di gran parte delle attività economiche giacché solo l'8 marzo 1631 il Senato riteneva di autorizzare la ripresa del Commercio con Brescia e con il suo territorio. Fra tanto terrore e nonostante le molte viltà non mancarono durante l'epidemia atti di eroismo anche fra sacerdoti e religiosi, non pochi dei quali incontrarono la morte per l'esercizio della carità e del ministero sacerdotale. Le memorie del tempo ricordano in modo particolare i cappuccini, i francescani, i filippini della Pace, i canonici Lateranensi di S. Giovanni, i carmelitani; rimasero in venerazione fra altri i nomi del curato del Duomo, monsignor Pietro Cucchi («che ha fatto grandi fatiche in questi emergenti»), e del prevosto di S. Giorgio monsignor Montini («more in tristitia, senza essere soccorso da alcuno»). Il Bonari elenca ben 103 cappuccini della provincia monastica bresciana morti per peste. Molti furono i medici che morirono vittime della loro abnegazione. Di alcuni è ricordato il nome: Ottorini, Piazza di Cobiato, Ottoni, Nassino, Ferlinga....; il chirurgo maggiore Monsù, tra i più stimati professionisti della città, il chirurgo minore Comini. Morì anche Bernardino Avanzi, "cavallero di corte" che dirigeva i trasporti al lazzaretto ed il seppellimento dei morti, impegno liberamente assunto e gratuito. Tra i medici che si distinsero oltre al Ducco, si ricordano Girolamo Ochi Rizetti di Brescia e Troilo Lancetta. Fra le vittime illustri basta accennare allo storico Ottavio Rossi e al pittore Tommaso Sandrini. Mentre in città gli appestati diminuivano di giorno in giorno fino a scomparire il 29 settembre 1630 il Senato veneto registrava che «al presente el si mor da peste nelli lochi infrascritti de bressana videlicet; in Calvisano, Santo Vigilio, Paraticho; de la Riviera de Salò, Bedizuoli, Calvazesio; de Val Tropia et Val de Sabio, in Bovegno cum sue Ville, Preselio, Agnosino; de Val Camonega, in Artogni, Angol, Borno, Esem, Corna, alli fosine de Sopra, Darfo, Masù (Mazzunno), Anfur, Castel Francho, Cortenedol" e minacciava morte e prigione a chi ardisse "partirsi de diritti lochi amorbadi per venir a Venetia...". Terribile il bilancio del quale bastano alcuni esempi. La Riviera di Salò perdette circa i due terzi degli abitanti e a Limone il 1630 venne ricordato come anno spaventoso. A Lonato fece circa tremila vittime. A Bagolino mieté 2536 persone, a Livemmo di 800 abitanti ne lasciò vivi 72. Del resto, sempre in Riviera, a Tremosine, sebbene gli elenchi fossero fermati al 25 dicembre 1631, furono registrate ben 600 vittime. In altri paesi, come a Bione, le registrazioni vennero interrotte. A Lumezzane S. Apollonio la peste che infierì soprattutto nel giugno-luglio 1630 fece 82 vittime. A Rodengo la peste si manifestò l'1 luglio 1630 e mieté subito sette vittime sollecitando la creazione di un Lazzaretto in località Crocette. Il 14 luglio era stato colpito Castenedolo e il numero dei morti è tale che il 5 settembre il parroco rinunciava a registrare i nomi delle vittime per la mortalità così grande. Il 24 maggio 1631, data della scomparsa del morbo su 2160 abitanti esistenti agli inizi se ne contavano in tutto 1.131 con una perdita di 1.029 vittime. Il 2 luglio 1630 la peste raggiungeva Edolo colpendo la famiglia di Bartolomeo Mutti che aveva ospitato un uomo, già infetto, proveniente da Brescia. Di fronte al diffondersi del contagio vennero creati più di quattro piccoli lazzaretti, che funzionarono fino al febbraio 1631. Il Putelli, invece, accenna a soli 20 i casi mortali a Breno. Il 20 luglio colpiva gli abitanti di Ossimo in Valcamonica fino al 28 novembre 1632, registrando 4 vittime nel 1631 e otto nel 1632. Nel 1630 mieté 3 vittime nel luglio, 80 nell'agosto, 83 in settembre, 38 nell'ottobre, 11 nel novembre, 7 nel dicembre. Zanano in Valtrompia risultò quasi sterminato dal morbo "a causa di una bastardina che fu condotta da Bressa in casa del signor Fioravante Avogadro", mentre a Lavone fece 93 vittime. Al 27 luglio 1630, nel giro di un mese erano morte a Sarezzo 125 persone su un totale di circa 250 abitanti, a Cesovo ne morirono 1740 mentre ne sopravvissero 200. A Bovegno gli abitanti da 2600 scesero a 900; A Irma morirono 220 persone su 345 abitanti, a Magno di Irma 136 su 253 abitanti. A Botticino Mattina le vittime furono 165; a Calvisano 500. A Iseo la peste cessò il 13 aprile 1631. I 2000 abitanti del 1610 erano ridotti a 1400. A Lumezzane cessò nell'agosto 1631; Adro e Rovato rimasero interdetti fino al febbraio 1632. In alcuni luoghi strascichi della peste perdurarono per lunghi mesi. A Rovato solo il 25 novembre 1632 venne levato lo stipendio ai nettezzini, dopo aver mietuto 2.500 vittime. Singolare è quanto si legge sull'ancona di un altare della pieve di Gussago che su una popolazione di 2000 abitanti ne registra morte 2300, ciò che ha fatto supporre al Begni Redona che nella cifra siano stati compresi molti sfollati della città. Di rilievo l'accurato raffronto di dati demografici riguardanti alcuni centri della Bassa pianura centrale, operati da Renata Savaresi, che danno il segno delle immanenti perdite umane. Raffrontando i dati di dieci paesi dal 1610 al 1637 si nota l'altissima mortalità raggiunta: Verolanuova 4.000 2.191 (-1.809) 45%; Cadignano 500 435 (-65) 13%; Alfianello 3.000 1.282 (-1.718) 57%; Bagnolo 2.525 1.205 (-1320) 52%; Borgo S. Giacomo 3.000 1.217 (-1783) 59%; Manerbio 3.000 2.292 (-708) 23%; Pontevico 5.000 3.286 (-1.714) 34 %; Quinzano 3.600 2.455 (-1.145) 31%; S. Gervasio 2.000 856 (-1.144); Verolavecchia 1.143 (-657) 36%. Il tutto per una perdita di 12.063 unità, pari al 42% della popolazione, con variazioni significative da paese a paese per cui si va dal 59% di Borgo S. Giacomo al 13 % di Cadignano. Qualcuno accenna ad una peste terribile sparsasi nel Bresciano e specialmente a Lonato nel 1634 e nel 1636, di cui non vi è traccia in altre cronache. Il ricordo, tuttavia, non risparmiò nuove paure. Nel 1637 infatti il Provveditore in proposito di sanità di Breno, Marin Molin, richiama ad una stretta sorveglianza ai Passi dell'Aprica e del Tonale contro il "contagio di peste".


Dopo quella del 1630 sebbene abbia infuriato altrove (come a Londra nel 1665, a Marsiglia nel 1720, a Mosca nel 1770, ecc.) l'epidemia non si ripresentò nel Bresciano se non come spauracchio. Sappiamo che il 15 maggio 1721, la città alla notizia del contagio diffusosi a Tolone, ricorse ai Santi Patroni Faustino e Giovita per scongiurare il flagello a Brescia.


Della peste scrissero, in diversi tempi, Guglielmo Corvi da Canneto (1250-1326), archiatra pontificio, con il "De peste"; Bartolomeo Arnigio "De' rimedi preservatori della peste" (Brescia, 1576); G.B. Cavagnini "Rimedi contro la peste" (Brescia, 1576); F. Bettera "De pestilentia..." (Brescia, 1601); Paolo Bellintani "Dialogo sulla peste"; Antonio Ducco "De peste agri brixiani".


Preziose le varie memorie e cronache fra le quali quelle dei Palazzi, dei Bianchi. Del vario e ripetuto manifestarsi di epidemie e della peste nei secoli rimangono ancora segni nei particolari culti a santi come S. Bartolomeo apostolo, S. Sebastiano e ancor più S. Rocco, S. Nicola da Tolentino e per la peste del 1630 S. Carlo Borromeo. Ad essi vennero erette chiese, cappelle, altari, santelle. Con chiese, cappelle, santelle e Croci vennero ricordati i "Morti" anche con particolari nomi di località di cui rimangono molti semplici toponimi. Molti gli ex voto pubblici e privati che hanno tappezzato i santuari. Originali le leggende che ancora si tramandano.


Continuò invece la peste degli animali fra cui quella bovina, registrata a ripetizione specie dal 1711 (e durata per due anni) e poi altre e per molte volte. Anch'essa è testimoniata in molti ex voto, processioni e devozioni particolari. Ancora presente la peste suina.