PIAN Camuno: differenze tra le versioni

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PIAN Camuno (in dial. Pià, in lat. Plani)

Paese a NE di Pisogne, presso la sponda sinistra del torrente Re di Artogne, a poco più di un km, dalla riva sinistra dell'Oglio, a m. 244 s.l.m. e a 50 km da Brescia. Il territorio comunale di kmq 11, è delimitato da quello di Artogne, Pezzaze, Costa Volpino (Bergamo) e Rogno (Bergamo). Il territorio si stende sul fondovalle ma sale per alture prima dolci e poi sempre più elevate sui fianchi dei monti Rotondo (m. 1176) e Beccheria di Bassinale (m. 1971) con prati, castagneti, abetaie e pascoli e con un sottobosco ricco di mirtilli, lamponi, funghi, ecc. Dalla piana e dai pendii che salgono sempre più, lo sguardo si allarga "sul lago d'Iseo e sui territori di Lovere e Pisogne, sulle prealpi bergamasche, e più a N sulla Concarena, sul Tredenus, sul Pizzo Badile e più a N ancora sul massiccio dell'Adamello". Il nome deriva dal fatto che l'abitato si sparge sul fondovalle pianeggiante mentre ai margini del fondovalle sorgono le frazioni Beata, Solato e Vissone. L'attributo Camuno è stato dato per distinguerlo da uguali denominazioni bresciane e di altre province. Altre località, desumibili dalla planimetria I.G.M. sono: Montecampione, Colombine, Campazzi, Castrino, Beata Torre, Roncaglia, Castellani, S. Pietro, Case Greche, Fontana Vecchia, Tavole, Castelletto, Le Novelle, Spinec, Fonte, Segheria, Facala, Minolfa, Tepec, Braff, Pra di Pam, Pradasole, Pra dell'Era, Fontore, Comignane, Valmorino, Moiola, Foppa della Luna, Fodestal, Malga Campione di sopra e di sotto. Il territorio si presenta ricco di scisti cristallini e presenta una pietra detta puddinga. Plani nel 1233, Plà nel 1490, Plane. Il Comune ha adottato lo stemma della famiglia Boni nel quale sono raffigurati il sole, la luna, le stelle ed una pianta di castagno.


ABITANTI (piancamunesi): 450 nel 1567, 550 nel 1573, 1150 nel 1820, 1478 nel 1853, 1493 nel 1861, 1550 nel 1871, 1610 nel 1881, 1573 nel 1889, 1831 nel 1901, 2011 nel 1911, 2067 nel 1921, 2325 nel 1931, 2275 nel 1936, 2590 nel 1951, 2580 nel 1961, 2938 nel 1971, 3318 nel 1981.


Anche se l'etimologia è più che evidente, p. Gregorio è ricorso invece alla fantasiosa derivazione dal nome di una nobile famiglia Plani o Piani alla quale sarebbero appartenuti i nobili Rustico e Bianco, supposti martiri nel 69 d.C. durante la persecuzione di Nerone. I primi abitanti del territorio frequentarono le alture occidentali dove sono state rinvenute incisioni preistoriche. Le origini sono, come per molte località della valle, da ricercare nella preistoria. Presso Solato, Vissone, Dosso sono stati recentemente individuati dei resti di strutture abitative, oltre ad alcune incisioni rupestri preistoriche e protostoriche. Con ogni probabilità, in epoca protostorica e romana il luogo fu zona di estrazione di minerali di ferro, quindi centro metallurgico, tanto che tale attività produttiva fu per molto tempo una delle più importanti, unitamente a quella agricola e pastorale. Reperti dell'industria litica di epoca preistorica sono stati rinvenuti nel 1968 presso il cimitero di Vissone, mentre in località Dassina nel 1971 è stata trovata una statua-stele con quattro complessi figurativi, databile al tardo Neolitico. Non sono mancati ritrovamenti di epoca romana come le sepolture ad inumazione in tombe a cassa di lastre di pietra, alcune delle quali con corredo, rinvenute agli inizi dell'800 in località Castrino. Fa invece parte della leggenda (per ora non adeguatamente confermata da ritrovamenti archeologici) la battaglia tra Camuni e le milizie guidate da Publio Silio, proconsole di Roma, nell'anno 16 a.C.: questi ultimi, si dice, provenienti da Brescia e dalla Val Trompia attraverso Zone ed il colle di S. Zeno. Tra le fantasie raccolte da p. Gregorio vi è anche la vicenda di una verginella, figlia di un conte Alloro dei castello in Calla di Lovere che alla discesa di Carlo Magno in Valcamonica convertitasi alla fede cattolica e convinto il padre a fare lo stesso, si fece ambasciatrice presso altri potenti signori pagani, fra cui il conte Landesio a far altrettanto e a sostenere l'impresa dell'imperatore franco. Re Carlo, sempre secondo la leggenda, le avrebbe data in feudo tutta la Valle che, essendo essa fattasi monaca o monica in S. Giulia in Brescia, si chiamò da lei Ca Monica. La monaca avrebbe poi conferito al Monastero di S. Giulia il giuspatronato sulla chiesa parrocchiale di Piano da lei eretta. L'abitato più consistente come quello di Gianico e Artogne si sviluppò lungo l'antica strada Valeriana che si trovava più a monte e più a oriente dell'attuale Statale. Quanti hanno scritto di Pian Camuno raccontano che in tempi remoti il paese fu sepolto sotto una frana e se ne scoprirono i resti nelle escavazioni come affermano G.B. Favallini (1877) e ancora P. Biazzi, G. Colfi e P. Prudenzini (1905). Nel 1870 B. Rizzi testimoniava che ai suoi tempi si potevano scorgere "con diligenti osservazioni sopra luogo" specie nei lavori agricoli, resti dell'antico abitato.


Il primo documento storico riguardante il territorio risale al 15 dicembre 837 con il quale l'imperatore Lotario I conferma al Monastero di S. Giulia la «corte Predellas» dalla quale si ricavava ferro, vino e si allevavano le pecore produttrici della lana. Ma le notizie più ampie ed interessanti si trovano nel cosiddetto "polittico" del Monastero di S. Giulia («Breviaria de curtibus Monasterii») databile fra l'879 e il 906 dove la corte di Bradella che è ivi nominata è da riconoscere con tutta probabilità come esistente in Pian Camuno. Da questi documenti si ricava come il Monastero bresciano aveva alle sue dipendenze più di un centinaio tra servi e manenti: il che vuol dire la quasi totalità della popolazione, come giustamente ha osservato A. Sina. In detto documento la «curte in Bredellas», situata dove oggi è S. Maria Rotonda, consisteva di una casa, con due caminate, di terra arabile per la semina così da ricavare 40 moggi di granaglie, di prati che davano 40 carri di fieno e 23 anfore di vino. I prebendari dipendenti della corte erano 16, fra maschi e femmine, rendevano 3 moggi di frumento, 5 di segale, 20 di miglio, 10 di panico per complessivi 38 moggi e inoltre 50 anfore di vino. Ancora vi erano 4 buoi, 7 vacche, 6 vitelli, 29 maiali, 482 pecore, 8 capre, 30 polli. Dall'erbatico si ricavavano 8 soldi d'argento e 4 denari, mentre dall'unico porto esistente provenivano 5 soldi. Esistevano poi 53 sorti sulle quali abitavano 83 servi che rendevano 60 anfore di vino, 6 libbre d'argento 11 soldi e 6 denari, 75 castrati e agnelli, 86 latticini, 67 velli di lana, 60 libbre di ferro, 14 catene di cipolle, 60 candele fatte de rasa; 30 carri di legna. Vi era poi un recinto ad uso dei pastori. Dei servi, 26 erano «manenti» che prestavano servizio nella misura richiesta loro dal massaro e 5 che notificavano gli ordini. Vi erano ancora due sorti che rendevano, come affitto, 5 anfore di vino, 8 castrati e 10 latticini; invece 8 sorti erano disabitate e rendevano in affitto 5 moggi di grano, 2 staia, 8 soldi d'argento e 6 denari, 2 castrati, 3 latticini.


L'esistenza della corte Predella o Bredellas nella zona di Pian Camuno è confermata, in base alla presenza della chiesa di S. Giulia e alle altre notizie documentarie, anche da Gianfranco Pasquali e dalla scoperta di strutture medievali. Il 20 luglio 1028 la badessa di S. Giulia riceve per conto del Monastero il dono di terreni del «loco pratello vico Plani» da parte di Giovanni e Martino padre e figlio, di Piano: è la prima volta che non è più ricordata solo la località «Predella» o «Bredella» oppure la località Sermite (a Solato), ma anche documentato il vico di Piano. È il tempo in cui man mano che il fondovalle si va assestando e sistemando si viene anche popolando. Probabilmente è nei sec. X-XI che prende rilievo la piccola comunità o vico sul quale, come sul territorio, ha potere in seguito alla donazione compiuta dall'imperatore Corrado nel 1037 al vescovo di Brescia Olderico I delle sponde dell'Oglio, del Mella, ecc.


La comunità di Piano è rappresentata da Sterno e Alberto dei Pratelli per la firma dell'accordo con i Signori della Valle nel 1200. Nel frattempo prendono sempre più importanza come feudatari i Brusati, la cui investitura è documentata il 12 marzo 1233. Come sottolinea G. Panazza: "il documento è importante perchè con tale atto le monache di S. Giulia, per mezzo del vice console di giustizia in Brescia, il nobile Pedrachi, ordinano al Console di Gratacasolo e di Piano, Pietro Palmeri, perchè nomini quattro brave persone per investire dei beni da loro aggiudicati alla terra di Piano, il prete Maifredo. Gli eletti furono Martino Palmeri, Martino fu Iostaco di Fano, Alberto fu Randoino e Mazolo Malesaverdi che compirono l'investitura «in loco Plani in curia ecclesiae». Numerosi sono i documenti riguardanti investiture feudali di territori di Piano da parte del Monastero di S. Giulia (come ad esempio il 6 ottobre 1297 per terreni in località «ad Pojectum» a un certo Giovanni quondam Aduxis di Terzano detto Matoni, o di affittanza di beni (18 gennaio 1314 a un certo Pietro Petracchi, 11 gennaio 1369), o di immissione in possesso di case e terreni (3 agosto 1331 e 7 ottobre 1347). Più volte (1354, 1406 ecc.) il Monastero di S. Giulia, interviene nel chiedere conto dell'amministrazione di fondi. D'altra parte fin dal 1299 vengono dalla Comunità di Piano riconosciuti i diritti vescovili nella sede della curia vescovile di Pisogne, nelle mani del rappresentante del vescovo: e questo fatto ci fa capire come anche la comunità fosse riconosciuta vassalla vescovile, come i Brusati e poi i Federici. Dalla presenza sul territorio del Monastero bresciano e del vescovo derivano: i non sempre facili rapporti fra di loro; a proposito dei diritti del Monastero in Piano essi sono documentati dal 1233 al 1684 in un registro dell'Archivio Vescovile di Brescia. Ai Brusati subentrarono, in parte per successione in parte per acquisti, i Federici con ampie proprietà e notevoli diritti feudali all'inizio del sec. XIV in tutta la zona a sinistra dell'Oglio fra Gianico e Pisogne.


Investiture di proprietà e diritti e decime da parte del vescovo sono documentate per tutto il sec. XIV (1331, 1390 ecc.). Piano seguì poi i Federici anche nelle fazioni politiche schierandosi nel 1363 con il partito ghibellino. Ma già nel sec. XIV ai Federici si affiancavano altre famiglie proprietarie di terre. Così, ad esempio, in un atto di compravendita del 4 maggio 1343 è ricordato Raimonde de Cathanis, nel 1417 Pedercini qd. Odesino Foresti di Castro. Ma i più potenti economicamente sono i Celeri, investiti dal vescovo l'11 gennaio 1369 e il 19 maggio 1468 dal Monastero di S. Giulia. Fra essi è particolarmente importante Antonio Celeri Motta che ebbe particolari privilegi dai Visconti e fu vicario di Edolo e Dalegno. Piano va tuttavia prendendo sempre più coscienza di comunità e nel 1420 entra in contese sempre più vivaci con Pisogne per i pascoli di Montecampione e Marucolo nel 1420, e ancora per Montecampione nel 1422. L'affermazione della Repubblica Veneta in Valle, alla metà del sec. XV, riduce sempre più il potere dei ghibellini Federici, mentre si moltiplicano i nuovi proprietari fra i quali certo Obertinello, i Plevani, Maifredo Carnevali, i Bertoli, i Bonicelli, i Missarelli, i Maffolini, i Pasini, i Cristofori, i Buono Fuzoni, i Maggioni, i Fanchini de Ravelli, gli Alberti, i Bonometti ecc. Nel 1400 una delle famiglie più antiche era quella dei Buonaccorsi che il Sina identifica in quella dei Bonicelli. La località con la denominazione dialettale "pla" è registrata da Leonardo nel suo notissimo schizzo della Valle Camonica e del Lago d'Iseo, del 1508, conservato al Castello di Windsor (n. 12674 r). Ma ebbe anche fama una torre al centro del paese. Situata su una rupe, che domina l'ingresso alla Val Camonica, questa torre doveva avere funzione di vedetta. A pianta quadrata in grossi conci di pietra locale, presenta rade e strette aperture. La parte superiore termina con quattro pilastri angolari che sorreggevano il tetto. All'ingresso una pietra reca una datazione piuttosto tarda (1612) legata probabilmente ad un rifacimento. Tutt'intorno una cortina muraria protegge ulteriormente la postazione difensiva. L'edificio è di proprietà privata.


Inutile rilevare come, trovandosi sulle vie di passaggio più frequentate della Valle, il paese sia stato coinvolto in movimenti di eserciti di armati. Il più tragico degli avvenimenti di guerra accadde il 28 febbraio 1513, quando il paese venne investito da soldati spagnoli venuti da Lovere e Clusone che lo devastarono. L'indipendenza sempre più sentita dalla comunità sfociò in sempre più aperti contrasti con i Federici, richiamando su di sè severi castighi. Essendosi, infatti, nel 1579 quelli di Piano come le vicinie di Vissone e di Solato rifiutati di corrispondere le decime vescovili ai Federici alla riscossione delle quali questi ultimi erano investiti, riusciti vani tutti i richiami e le minacce vescovili, vista inutile l'opera di mediazione, nella primavera del 1580, ad opera di mons. Tarugi, la terra di Piano fu posta sotto interdetto da parte del Vescovo di Brescia mons. Dolfin il 26 giugno 1580 per mezzo del suo Vicario generale mons. Cavalleri. S. Carlo Borromeo, nella sua visita pastorale in Valle, dapprima non volle fermarsi a visitare la parrocchia. Drammatico il racconto che ha fatto un biografo di S. Carlo, il Giussani: «Passandovi il Cardinale, tutti correvano a vederlo con desiderio di ricevere la sua benedizione; ma egli mettendosi la mano al petto, non volle benedire alcuno; benchè gli corressero dietro tutti insieme uniti piangendo e gridando misericordia e lo supplicassero a non abbandonarli, ma che si degnasse favorirli della sua santa benedizione». Avendo la Comunità di Piano accettato di pagare se il Vescovo non avesse ritenute giuste le sue ragioni contro i Federici, ed essendo stato tolto l'interdetto, a nome del Vescovo, dal Vicario generale mons. Ermolao Arlotti, finalmente S. Carlo il 4 settembre compì la visita apostolica a Piano. Alla presenza del Santo venne attribuito anche lo sgorgare della Fonte Vecchia che per la sua purezza chiama gente anche da altri paesi. Ma il 19 gennaio 1581 veniva dal Vescovo lanciato un altro interdetto che tuttavia fu subito tolto. La lunga vertenza fu chiusa con la vittoria dei Federici a seguito della sentenza a loro favore da parte del Capitano di Valle Gaetano Malatesta. L'indipendenza è anche segno di un crescente benessere fatto di duro lavoro come documenta il Da Lezze nel suo catastico (1609-1610) che elenca esistenti in luogo "un molino, una rasica, un forno di ferro, fucine tre". Soggiunge che non "vi è alcun nobile, ma solo contadini, che attendono all'agricoltura, et parte alle vacche, et molti sono cavalcanti che servono a' molti in condurre robbe de' mercanti". Più esplicito è p. Gregorio (1698) che scrive di Piano come di una "Terra di molta popolazione e riguardevole civiltà". Su Piancamuno si abbatteva il 14 agosto 1615 un temporale tremendo e distruttore. La situazione è riconfermata dall'estimo mercantile del 1753 che fra le famiglie più in vista elenca i Frassi «ferettieri di reggie» o molinari, i Bertoli, i Santioli che commerciavano in bovini, i Macelli «chiavarini ma che lavoravano la campagna», i Gianni molinari fino a Alessandro Bonometti, e Tullio e Mario Pievani, notai. Molti di questi nomi ritroviamo nel «Designamento» fatto dalla comunità della Valle per il riparto della tassa nel 1770, allorchè a Piano troviamo tre fabbri (Antonio Masuchello, Francesco Bertoli, Domenico Alberti), due falegnami (Antonio Massari e Pietro Cherubini), due notai, della famiglia Bonometti e Pievani, quattro mulini di ruota e un torchio per l'olio. Per ultimo, nel «riparto della tansa» del 1784, ecco i Santicoli, i Bertelli e i Maggioni per il bestiame, tre notai, due fucine dei Mercanti e dei Panigada, quattro mulini (degli Spati, di Bartolomeo Federici, dei Gianni) che mostrano la continuità delle attività produttive e delle professioni più diffuse nel territorio di Piano. Nel frattempo si erano andati decantando anche i contrasti con i comuni contermini e quelli interni fra originari e forestieri grazie anche alle nuove norme dettate dal Capitano di Valle Giancarlo Richiedei nel 1763 per superare i forti contrasti fra originari e forestieri. Nel sec. XVIII Pian Camuno dovette registrare alluvioni del torrente Re (ottobre 1738), inondazioni (dicembre 1739, agosto settembre 1757). La rivoluzione giacobina e l'epoca napoleonica portarono nuovi momenti difficili. Nelle loro razzie le truppe giacobine e francesi rubarono 7 kg. di argenteria, la casa del cappellano viciniale divenne "caserma delle falangi repubblicane, lasciandola in condizioni disastrose". Cambiò anche l'assestamento amministrativo conglobando il Comune di Artogne a quello di Piano, dal quale ridiventerà indipendente con decreto di Sauran dell' 1 maggio 1816. Terribile la strage compiuta alle quattro del mattino del 7 dicembre 1809. Quel giorno duecento soldati, al comando del ten. Romano Bianchi e guidati da tale Garatti della frazione Minolfa, che qualche cronista definisce "vero brigante omicida e ladro", che con tale azione aveva comperato l'immunità per suo figlio colpito da una taglia, circondarono il fienile del beneficio. Il Garatti aveva sistemato in tale edificio, prima di chiamare il Bianchi e le sue truppe, 40 disertori un tempo appartenenti alle truppe tirolesi capitanate da Hofer ed insorti contro gli occupanti francesi. «Ventiquattro d'essi, accortisi del tradimento scapparono in tempo utile; ma 16, tentata invano un po' di resistenza, furono tutti abbruciati nello stesso fienile. In tale circostanza anche un gendarme, certo Antonio Ordani da Soncino, rimaneva gravemente ferito da archibugiata» e moriva la notte seguente in casa di Giuseppe Bertoli al Castellazzi. Solo due di essi (uno di Lovere e uno di Castegnato) vennero riconosciuti. A Pian Camuno verso i "morti bruciati" si sviluppò una devozione popolare che perdura ancora. Sulla facciata del fienile un pittore valligiano dipinse la macabra scena purtroppo scomparsa col tempo. Nell'inverno 1808, nella primavera 1808 e l' 1 dicembre 1810 Pian Camuno dovette affrontare nuove inondazioni. Nel 1810 a Piano si acquartierò un distaccamento militare dell'81° di linea che il Comune dovette mantenere. Il 5 novembre 1813 discesero per il Colle di S. Zeno 480 soldati austriaci della III e V compagnia, uno squadrone di ussari a cavallo che si accamparono nelle Boschine accanto alla valle, ponendo corpi di guarda di 12 uomini sotto la Minolfa, al cimitero di Piano, alla Zumeta, al Caratello e alla Madonna d'Imavilla di Artogne. Gli ufficiali in numero di nove, furono alloggiati nella casa paterna del parroco don Tullio Romelli, mentre della casa parrocchiale se n'era fatto un quartiere. Piano e Artogne divennero una specie di prima linea dato che i nemici, cioè i franco-italici, si trovavano a Gratacasolo. Ma non avvennero che insignificanti scaramucce, nelle quali vi furono pochi feriti, parte curati presso le famiglie del paese, e parte trasportati da improvvisati infermieri locali a Darfo e a Breno. Fino da Bovegno per il passo di S. Zeno, vennero qui trasportati soldati feriti. Il sindaco di Piano, Uberto Poiatti, ebbe un bel da fare a provvedere vitto e tutto il necessario a tanta gente. Si fece invece strage di botti di vino, bottiglie di acquavite, quintali di pane, ecc. danneggiando ovunque campi, vigneti, case. I danni saranno, solo in parte, risarciti nel 1845. Verso la metà dell'800 Lovere compì numerosi tentativi di staccare Pisogne, Piano e Gratacasolo da Breno per includerli nel proprio distretto amministrativo e nel 1840 Piano acconsentì a tale progetto, ma non se ne fece nulla per le pretese di Lovere. Nel 1844 poi Piano era fra quei Comuni che chiedevano di tornare sotto la provincia di Brescia. Nel 1848 il borgo diede tre volontari per la Causa Nazionale e notevole sarà il contributo di Caduti dato da Pian Camuno nelle due guerre mondiali.


Passato sotto il Regno d'Italia, Piano, con R.D. 11 gennaio 1863, mutò nome assumendo quello di Pian Camuno che detiene tuttora. Vi sono indizi che positivamente indicano il progresso economico e sociale di Pian Camuno. Anche sul piano sociale esistono segnali positivi. Nel 1870 non solo erano attive le scuole comunali in ogni frazione, ma era già attiva in Piano una scuola serale che contava molti allievi. La Banda musicale, fondata nel 1875, ebbe come primo maestro Spineti, seguito da Gallini e Bertoli e poi Bendotti Sgrafetto. Nel 1883 veniva fondata la Società Operaia Cattolica. Il 17 novembre 1908 veniva inaugurato l'asilo infantile, promosso dal parroco don Gelmi. Periodo agitato fu il dopoguerra animato da paure come la scoperta il 12 luglio 1919 di una grande quantità di esplosivo e da vivaci lotte politiche per la presenza di un socialismo attivo, di un organizzato movimento combattentistico ispirato da Guglielmo Ghislandi, e dal 1922 da un crescente contrasto fra fascisti, combattenti e socialisti. Un gruppetto di socialisti il 22 dicembre 1922 picchiava a sangue un oste e la moglie a Vissone. La domenica seguente veniva bastonato il diciannovenne Angelo Missarelli e poi ferito da rivoltellate. Manifestazioni di socialisti contro il sindaco Giacomo Garatti avevano luogo l'1 gennaio 1923. Ma i fatti più gravi e tragici dovevano accadere la sera del 6 gennaio 1923: dopo aver circondata la casa di Alghisio Poiatti, esponente del partito dei combattenti ghislandiani i fascisti vennero in conflitto con lui e ne nacque una mischia feroce finita in una vera strage in cui rimasero uccisi i fratelli Siro, Giovanmaria e Angela e feriti la mamma del Poiatti, un'altra sorella e lo stesso Alghisio ed altre tre persone ancora. Rimasero inoltre feriti l'appuntato dei carabinieri Petruzzi e il fascista Bianchi di Pisogne.


Nuovi scontri tra fascisti e socialisti avvennero anche in seguito. Tre fascisti vennero feriti a Vissone il 31 novembre 1925. Il fascismo, dimenticando le rivalità sempre vive e che avevano avuto momenti di particolare tensione nel 1907-1909, costrinse poi di nuovo nel 1927 all'Unione i Comuni di Pian Camuno sotto la denominazione di Pian d'Artogne. Tale unione durò fino al 1957 quando i due comuni ripresero la loro autonomia. Ricostituito il Comune di Pian Camuno la DC e il PCI si alternarono alla guida dell'amministrazione comunale. La sezione locale del P.C.I. pubblicò dal 1980 al 1987 un periodico ciclostilato dal titolo "Pian Camuno 80". Gli anni '60-'70 furono di grande rilancio industriale con la comparsa di grandi e medie industrie: Predalva, Metalstampi poi Bonomi, Facchinetti, SICI, Novagas ecc. Vengono realizzati nuovi edifici scolastici alla Beata e a Vissone, viene assestata ed integrata la deviante dalla Nazionale, mentre viene ampliato il cimitero di Pian Camuno. Negli anni '80 vengono completati l'acquedotto e le fognature, realizzata la rete del metano, costruita la scuola media consorziata con Artogne, creato un centro sportivo a S. Giulio e compiuto il restauro (1988-1989) del palazzo comunale. Di rilievo la realizzazione di una zona industriale di 69 mila mq. e la strada di accesso. Contrastata invece la collocazione di un supermercato. Vennero inoltre ristrutturate e ampliate le scuole elementare e materna di Vissone, ristrutturata la scuola elementare della Beata. L'ex asilo nido venne trasformato in un centro diurno per anziani e poliambulatorio. Con il recupero di un edificio comunale a Fontana Vecchia vennero ricavati nel 1991 alloggi per anziani. In campo sportivo vennero particolarmente sviluppati il calcio e lo sci. Successo dal 1985 ebbe per qualche anno la cronoscalata automobilistica Pian Camuno - Montecampione. La sezione cacciatori ha organizzato zone di addestramento cani.


Non mancano a Pian Camuno alcuni monumenti. Oltre quello ai caduti nella I Guerra mondiale eretto nei primi anni '20 davanti alla chiesa parrocchiale e trasferito nel 1968 in via don S. Gelmi; nel 1967 venne collocato nella piazza omonima un monumento a Giuseppe Verdi consistente in un busto eseguito e donato dallo scultore Mario Pellizzoli di Busseto; il monumento agli alpini eretto in via don S. Gelmi nel 1970; ed inoltre quello agli invalidi del lavoro (1974) e al Partigiano (opera del geom. Valentino Barbieri e di Fausto Brunelli 1987). Il Panazza ha elencato una trentina di case interessanti sotto diversi profili: antichità, pregi architettonici, artistici ecc. Alcune furono o sono di proprietà di antiche famiglie locali: Poiatti, Maggioni, Bertoli, Maffolini. Alcune risalgono, almeno in alcuni elementi, al sec. XVI (come il portale di casa Bertoli di via Garatti 8, casa di via XI Febbraio, case della frazione Minolfa, ecc.). Altre risalgono al sec. XV (Maggioni in via Garatti, 16). Molto belle alcune case del sec. XVII (Garatti, Pioli, Poiatti, Felappi, Cotti Cottini, Bonettini). Infine non mancano case del '700 e dell'800.




ECCLESIASTICAMENTE. Appartenente alla pieve di Rogno, Pian Camuno ebbe il suo primo centro religioso nella chiesa di S. Giulia di fondazione del monastero di S. Giulia in Brescia che vi manteneva prima il cappellano poi rettore e parroco ed ebbe su di essa il giuspatronato. Un documento del 12 marzo 1235 testimonia l'investitura del beneficio ad un prete Maifredo. La presenza in luogo di beni feudali vescovili e il giuspatronato su S. Giulia sulla chiesa furono motivo di rapporti fra loro non sempre facili documentati dal 1233 fino al 1797, quando il monastero venne incamerato. Probabilmente nel sec. XIV o XV sorsero i due santuari alla Madonna della Rotonda e di S. Rocco, eretto al centro di Piano, alquanto lontano da S. Giulia, ormai quasi isolata. Sviluppatosi molto l'abitato intorno a S. Rocco, questa chiesa venne utilizzata per l'amministrazione dei Sacramenti. Fin dal 1490 accanto alla chiesa esisteva già la casa parrocchiale. Tale constatazione faceva nel 1562 mons. Pandolfo in visita a Pian Camuno e ancora, mons. Bollani nella visita pastorale del 1567. Ambedue i visitatori emanavano decreti per migliorare la chiesa di S. Antonio, per renderla adatta alla nuova funzione dichiarando con tutta chiarezza che S. Giulia era la vecchia parrocchiale ma che «propter comoditatem populi Sacramenta ecclesiastica administrantur in ecclesia S. Antonii»; inoltre è documentato che era appena costruita, la sagrestia e che si desiderava l'erezione del campanile. Anche il visitatore mons. Pilati nel 1573 registra che nella chiesa di S. Antonio si esercita ora la cura d'anime. A S. Antonio del resto ha sede la Confraternita del Corpo di Cristo (con 150 confratelli, ma senza beni) e un Consorzio della Misericordia sorto per vari legati. Il trasporto delle funzioni parrocchiali da S. Giulia a S. Antonio intensificò la dipendenza della parrocchia dal vescovo, sganciandola sempre più dal Monastero che anche nella nomina del parroco dovette assoggettarsi ad avallare la nomina vescovile. Nel 1578 poi la parrocchia passò dalle dipendenze dirette della pieve di Rogno a quelle della parrocchia di Artogne. Nonostante i contrasti, già ricordati, fra i pianesi e il vescovo di Brescia, circa i diritti di decima dei Federici nei quali fu coinvolto lo stesso S. Carlo, questi riconfermava praticamente lo stato di parrocchiale imponendo, oltre ad interventi migliorativi, che vi si custodisse "d'ora in poi" il SS. Sacramento come chiesa la più frequentata e la più comoda per il popolo, affidandola al popolo stesso. S. Carlo l' 11 dicembre 1580 comminava condanne contro Steffanino Bertogli ed altri che avevano sottratto biade che dovevano servire al pagamento di una somma per le riparazioni e l'abbellimento delle chiese. Come ha rilevato G. Panazza: «il secolo che va dalla metà circa del '500 alla metà del successivo fu assai turbolento non solo per il dissidio fra la comunità, i Federici e il Vescovo a causa delle decime vescovili (dissidio poi chiuso con sentenza in favore dei Federici da parte del Capitano di Valle G. Malatesta), ma anche per il forte dissidio fra Vescovo e Monastero di S. Giulia circa i limiti del giuspatronato e il diritto di questo, contrastato dal Vescovo in base alle nuove disposizioni del Concilio di Trento, intorno alle nomine del parroco. Essendo le monache indecise sulla nomina del parroco, il Vescovo Bollani il 22 settembre 1568 provvide ad inviare il rev. Giacomo Botti di Isorella che fu accettato dalle suore del Monastero, nonostante le rivendicazioni dei loro antichi privilegi. Pareva che il nuovo metodo fosse ormai consolidato, ma nel 1684, con la morte del rev. Andreoli, popolazione e monache di S. Giulia elessero parroco Egidio Plevani di Piano, da tre anni coadiutore "in loco" e dottore in legge, delegando don Bonomo Bonomelli a immetterlo nel beneficio: il che fu fatto il 23 giugno alla presenza dei testimoni Giovanni Maria Pedri viceconsole di Piano, Gianantonio Santicoli qd. Giacomo e Bono Pedri qd. Giacomo. Invece il Vescovo Gradenigo inviava, dopo il prescritto esame sinodale, come parroco, don Giovanni Facchinetti di Fiaccanico, riconoscendo alle monache solo il diritto di immettere il nominato nel beneficio, e con minaccia di scomunica a don Plevani se non avesse lasciato la sede occupata abusivamente. Ne nacque un braccio di ferro tra l'autorità della diocesi, ossia il vescovo, e l'opposizione e cioè le monache. Intanto la chiesa veniva ampliata nel 1671-1672, per iniziativa del parroco don Ludovico Andreoli. Sappiamo che aveva tre altari, che p. Gregorio nel 1698 dice "riccamente ornati". Nel 1684 ritornarono tesi i rapporti fra vescovo e Monastero. Il vescovo contrapposte infatti alla nomina da parte della badessa di don Egidio Plevani, la sua di don Giovanni Facchinetti minacciando la scomunica a don Plevani se non avesse lasciato la sede. La questione fu portata davanti alle autorità venete che ordinarono al Cancelliere Vescovile di sospendere qualsiasi atto contro don Plevani fino a quando si fosse trovata una soluzione. Questa venne trovata nel 1685 con la nomina di don Facchinetti ad altra parrocchia e il consenso vescovile per don Plevani che rimarrà parroco di Piano fino alla sua morte (1708).


Conclusi nel 1731 i lavori di ampliamento, la chiesa venne abbellita dal parroco don Giovanni Bonometti, particolarmente ricco, tanto che il card. Querini nella sua visita del 1731 la trovava dotata di cinque altari (di cui uno dello Zotti) e cioè, il maggiore o di S. Antonio ab., della Madonna del Rosario, di S. Antonio di P., di S. Giuseppe e della Madonna del Carmine. Con l'avvento della Repubblica Cisalpina la nomina del parroco passò, soppresso il Monastero di S. Giulia, all'autorità civile. L'opposizione a ciò da parte del vescovo venne risolta dal governo austriaco nel 1834 con un nuovo compromesso con il quale una volta la nomina sarebbe toccata al vescovo ed un'altra all'autorità regia imperiale. Particolarmente attivo fu il parrocchiato di don Giuseppe Bianchi che abbellì la chiesa tanto da farla da B. Rizzi nel 1870 dichiarare "moderna". A coronamento delle opere di restauro, la chiesa veniva il 2 settembre 1876 consacrata dal vescovo mons. Corna Pellegrini. Il parroco don Bartolomeo Massari provvedeva nel 1897 a completare i restauri all'esterno e specialmente nella facciata. Frattanto nasceva anche un nucleo di movimento cattolico, nel 1882 infatti nasceva una Società operaia cattolica di mutuo soccorso che nel 1909 contava 62 soci. Intenso fu il parrocchiato di don Stefano Gelmi che nel 1906 allestiva un ambiente per la gioventù femminile, mentre, nel 1908, il curato don Giuseppe Baiguini, dava vita ad un ricreatorio educativo serale. Nel dicembre 1907 poteva inaugurare l'asilo infantile i cui ambienti servirono poi dal 1910 come oratorio femminile e più tardi come sede dell'Azione Cattolica. Nel 1910 don Gelmi promuoveva la costruzione di un salone teatro. Da non dimenticare il determinante intervento di don Gelmi nella fondazione nel 1906 del Cotonificio 0lcese di Cogno. Il 29 novembre 1927 il vescovo concedeva al parroco di benedire la statua dell'Immacolata da elevarsi sul campanile. Abbattuta da un violento temporale nel settembre del 1995, la statua è stata riposta sul campanile nell'aprile 1996, dopo il restauro e la nuova doratura eseguiti dal laboratorio Poisa di Brescia. Nuovi restauri ed abbellimenti alla chiesa parrocchiale venivano promossi dal parroco don Paolo Blanchetti nel 1983 su progetto del geom. Giovanni Santicoli. 




CHIESA PARROCCHIALE DI S.ANTONIO: lesterno ha, secondo le annotazioni di G. Panazza, una facciata ad un ordine delimitata, ai fianchi, da due lesene in muratura con cornice modanata che racchiudono la specchiatura centrale, colorate di grigio, con capitello composito; lesene che sostengono l'architrave aggettato. Sopra questo è il timpano triangolare che però è sovralzato rispetto al cornicione sottostante per mezzo di due tratti di lesena che hanno per capitello la stessa cornice modanata del timpano: questo produce un effetto alquanto sgradevole probabilmente dovuto ai vari interventi che ha subito la chiesa. Il portale in arenaria grigia è architravato, contornato da cornice a triplice gradinatura su dadi con rosone per base. All'interno, sopra una elegante bussola in noce di gusto tardo neoclassico sta un affresco con Cristo che scaccia i mercanti dal Tempio, della prima metà dell'800 restaurato nel 1963 da T. Belotti. Ai lati, in due nicchie, statue in gesso di S. Gregorio e S. Girolamo di una qualche eleganza, collocate nel 1909. La vetrata raffigura la Madonna col Bambino fra i SS. Antonio abate e Giulia e con nello sfondo il panorama di Pian Camuno. Nella volta sono, come annota G. Panazza, nel mezzo delle tre campate, tre riquadri, dei quali i due laterali sono rettangolari e il centrale di forma circolare. Nel primo è raffigurato S. Antonio Abate e S. Girolamo nel deserto e la colomba che porta il pane. Quello centrale ha S. Antonio Abate che adora Cristo in cielo; l'altro riquadro presenta S. Antonio in gloria. Negli archi traversi sono due riquadri con le figure ad affresco degli Evangelisti. Tutto il resto della volta presenta elementi decorativi ottocenteschi, mentre i riquadri sono settecenteschi e nonostante i guasti subiti e i molti rifacimenti, anche di notevole finezza, con riferimenti ad Enrico Albricci, ma anche con legami con lo Scalvini. Nella volta del presbiterio il riquadro poligonale porta l'Assunta, sempre del sec. XVIII, fra i meglio conservati.


Sul lato di destra oltre ad un confessionale vi sono statue di S. Luigi G. opera di G. Obleter di Ortisei e una statua in gesso di S. Carlo. Il primo altare a destra è dedicato a S. Antonio di P. con altare in stucco policromo ricco di ornamenti, di uccelletti, ecc. Bella la soasa con colonne tortili, affiancate da due ben modellate statue di S. Siro e S. Francesco d'A. Nella cimasa una cartella in cui figura un santo che consegna una Regola a due devoti e, affiancate, le statue dei SS. Faustino e Giovita. La pala ad olio settecentesca raffigura la Madonna col Bambino fra i SS. Carlo e Antonio di P. attribuita da G. Panazza a D. Nasino, sulla porta laterale che segue è la statua di S. Giovanni B. Il secondo altare di destra già della Madonna del Rosario è ora dedicato al S. Cuore collocato per voto di guerra. Ai lati stanno le statue di S. Agostino e S. Ambrogio. Il presbiterio è affiancato da seggi del sec. XIX di gusto neoclassico. Sulle pareti laterali del presbiterio stanno due tele l'una con la Madonna col Bambino, S. Leonardo e un Santo vescovo, sull'altra i SS. Tommaso e Giovanni Nepomuceno eseguiti da Antonio Zanucchi nel 1740. Il coro semplice ma elegante è probabilmente secentesco. La pala, racchiusa da due semicolonne in stucco con arco e cimasa, raffigura la Madonna con i SS. Antonio ab. e Giulia e ai piedi una veduta del paese, opere del loverese Giuliano Volpi. Notevole è l'altare maggiore in marmo di Carrara con caratteristiche ed eleganti linee fantoniane ed eseguito nel 1737 dal Canevali. Troneggia sull'altar maggiore un gruppo di sei angeli scolpiti in legno e dorati con oro zecchino, eseguito dall'intagliatore Giovanni Fiorini di Brescia. In marmo di Carrara è anche il tabernacolo ricco di festoni, semi, colonne, volute, con ai lati le figure in marmo di S. Antonio ab. e S. Giulia, angioletti, ecc. L'organo raccolto in una cassa di semplici forme neoclassiche venne costruito nel 1913 da Angelo Bossi e restaurato nel 1979-1980 da Arturo Pedrini. Scendendo da sinistra il primo altare è dedicato alla Madonna del Cammino ed è dovuto a Giacomo Novi (1791). Sopra la parte laterale è il pulpito, particolarmente bello, ricco di specchiature, cariatidi e motivi decorativi. Il Panazza lo data al sec. XVII e lo avvicina a quello di Pietro Ramus nella pieve di Pisogne. Segue l'altare di S. Giuseppe, con bel paliotto in scagliola nera, pregevole soasa con colonne adorne di grandi foglie d'acanto affiancata dalle statue in legno di S. Barbara e di un santo vescovo. Completa la soasa un ricco architrave e una complessa cimasa con al centro una statua di S. Michele arcangelo e ai lati statue dei SS. Pietro e Paolo. La tela "di composizione ancora manieristica" raffigurante lo Sposalizio della Vergine è opera del Chizzoletto. Segue in una nicchia chiusa da una cancellata dovuta a Faustino Maggioni (1910-1915 c.) il battistero con sopra una statua di S. Giulia. La sagrestia di recente ampliata contiene una grande ricchezza di reliquiari, paramenti, suppellettili, tovaglie specie dei sec. XVIII-XIX.


S. GIULIA. Di inequivocabile dipendenza dal monastero bresciano omonimo, è citata nell'Indice dei documenti dell'Astezati nel 1180 per la nomina di un sacerdote officiante. Altre nomine sempre da parte del Monastero si ripetono nel 1233 (nomina del prete Maifredo), nel 1293 (prete Eustachio), nel 1347 (frate Maffeo), ecc. mentre obbligazioni e investiture di beni sono ricordate nel 1270, 1297, 1333, 1369 ecc. Del primo maggio 1354 è la stesura del primo inventario dei beni della chiesa. Il Fè d'Ostiani, dopo aver affermato che non si conosce in forza di quale privilegio il Monastero avesse diritto di nomina del parroco, se per concessione pontificia o del Patriarca di Aquileia, crede che per tale diritto, più che di patronato, si dovesse parlare di un privilegio straordinario di giurisdizione. Molti documenti riguardano nomine e beni della chiesa la quale tuttavia divenne motivo di contrasti tra il vescovo e il monastero anche perchè fino almeno dal sec. XV l'abitato si va sempre più raggruppando intorno al santuario di S. Antonio. Quest'ultima chiesa, data la distanza, fa ormai le veci di chiesa parrocchiale anche se S. Giulia è considerata parrocchiale fino al sec. XVII. Non essendo ancora consacrata con suo decreto dell'8 gennaio 1506 il vicario generale mons. Marco Saracco lancia un interdetto provocando la sollevazione dei capifamiglia di Piano che calpestano e bruciano il documento. Rilevanti sono anche alcuni decreti relativi alle visite pastorali. Nel 1602 il vescovo Marino Giorgi ordina che sia eseguita una pala d'altare più decorosa, nel 1646 il vescovo Morosini comanda che sia fatta una sagrestia che risulta non essere ancora stata eretta nel 1652. Nel 1732 gli altari erano due: il maggiore dedicato alla B. V. Maria e quello laterale a S. Giulia. Come ha ricordato il Panazza, nel 1961 l'ancona lignea venne fatta oggetto di furto, con l'asportazione di tre statue lignee policromate, che si vuole fossero del sec. XVI, raffiguranti S. Giulia, con la palma del martirio, S. Antonio abate, col fuoco in mano, e la Madonna seduta, con il Bambino. Nel 1973 vennero compiuti interventi sul tetto. La chiesa venne restaurata gratuitamente nel 1976-77 dal Gruppo Alpini e da volontari, con il contributo della Comunità Montana, sotto la direzione del geom. G. Santicoli e con la sorveglianza della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici: si rifece il tetto, si aprirono le monofore originarie e si chiusero le finestre di epoca tarda, si misero in luce resti di affreschi e si strappò quello della facciata, collocandolo all'interno. Della primitiva costruzione romanica non rimangono che l'abside e i muri terminali della navatella (visibili nella seconda campata ad E) poiché nel sec. XV la chiesa venne ricostruita con orientamento N-S perpendicolare a quello originario: l'ampliamento comportò la distruzione dell'antica navata e la trasformazione dell'absidiola in cappella. La torre campanaria è di circa un secolo più tarda. Una campana venne fusa nel 1793 da Innocenzo Maggi; le altre due, della ditta Ottolina di Seregno, vennero aggiunte nel 1923. La facciata è molto semplice e bassa con un tetto a due spioventi con tracce di decorazioni. Il portale, architravato con una cornice decorata da modanature in pietra di Sarnico, è preceduto da un protiro seicentesco con due colonnine sempre in Sarnico e due mensole pensili contro la facciata che sostengono i tre archi e la volta a crociera. Al di sopra della porta è incassata una lunetta con un rozzo affresco raffigurante le Anime del Purgatorio e sotto lo sporgente tetto è stata ricavata una finestrella di forma circolare. La parete E, a differenza di quelle O e N di scarso interesse, è notevole per la presenza del frammento dell'originaria chiesa romanica; l'abside semicircolare e l'angolo N e S dell'antica navata, perfettamente conservati e recentemente restaurati sporgono leggermente dal filo del muro. La muratura dell'abside è formata da conci di arenaria rossa di Gorzone e di granito, ed è spartita in cinque riquadri da sottili lesene che nascono da un piccolo zoccolo e sono unite in alto da una corona di archetti larghi e rozzamente lavorati. Al di sopra vi è una larga gola su cui poggiava il tetto recentemente rialzato. I tre riquadri centrali sono occupati dalle monofore. A destra e sinistra di questa è visibile e ben conservato quel che resta della bella muratura romanica dell'antica chiesa. Verso nord è addossata la quadrata torre campanaria, semplice a modanatura molto rustica e con i conci ben squadrati negli spigoli. Segnaliamo a S dell'abside la presenza di una bella porta, che comunica con la prima campata, a grossi conci di granito e di arenaria nelle spalle e nell'architrave. L'interno della chiesa si presenta molto semplice e completamente intonacato, eccetto l'antica abside in pietra a vista. Si tratta di una chiesa ad aula, ad una navata molto ampia suddivisa in due campate; il presbiterio è di forma quadrata e la già menzionata cappella semicircolare si trova nella seconda campata, ad E. Dal presbiterio, attraverso due porte architravate seicentesche in sarnico, si accede a destra alla torre campanaria, a sinistra alla sacrestia. Le due campate della navata sono divise da grosse lesene con semplice cornice modanata e in aggetto, in arenaria che funge da capitello; a loro volta da queste si eleva il grande arco a pieno centro che sostiene il tetto a vista.


Il presbiterio è rialzato ed è coperto da una volta a crociera; in esso si entra per mezzo di un arco a pieno centro pure dotato di semplici cornici modanate in arenaria che fanno da capitello. Scomparso l'antico altare resta la pala del '600 raffigurante la Madonna col Bambino in alto e sotto i SS. Antonio ab., Giulia, Andrea e Carlo B. che, da qualcuno attribuita al Marone, è dal Panazza assegnata a Camillo Rama. Le pareti della navata e del presbiterio sono prive di decorazioni ed hanno solo alte finestre rettangolari con strombatura interna ed arco lievemente ribassato, del sec. XV. Nell'uniformità dell'interno spicca la muratura antica dell'abside romanico formata da conci di varie dimensioni e rozzamente squadrati, disposti a corsi orizzontali con larghi strati di calce, frutto di qualche restauro posteriore. In perfetto stato si presenta, invece, la muratura nei tratti di parete ancora conservati dell'antica navata, dove i conci, meglio squadrati, sono disposti con maggiore regolarità e gli strati di calce sono appena visibili. Scrive il Panazza di questa parte originaria e di alcune scoperte di questi ultimi anni: «Nei recenti restauri è stata riparata la muratura del catino absidale e delle pareti e si è provveduto alla sigillatura con cemento degli strati di calce tra concio e concio. Inoltre si è messa in luce la spalla a N dell'abside che fa angolo con il tratto iniziale della frammentaria parete settentrionale dell'antica chiesetta. Un taglio nella muratura quattrocentesca ha permesso di mettere in luce gli intonaci dipinti ad affresco, purtroppo in cattivo stato di conservazione e che avrebbero bisogno di restauro. Sulle pareti a fianco dell'abside è una figura di vescovo ricoperta dei paramenti sacri, vista frontalmente. L'affresco è databile fra la fine del sec. XIV e i primi anni del XV. Sull'altra parete, che fa angolo retto, figura di Santo con barba e con veste rossa, ma di difficile lettura e, prosegue, a lato dell'arco trionfale è stato collocato, dopo lo strappo, un frammento di affresco che si trovava all'esterno, raffigurante la Madonna col Bambino, di modesta fattura dei primi anni del sec. XVII... Sopra l'arco trionfale è un Crocifisso ligneo policromato, molto restaurato, ma che era di fattura discreta, probabilmente seicentesco: proviene dal Cimitero ed è stato qui collocato nel 1977».


S. MARIA ROTONDA. Chiesa, secondo G. Panazza, "strana" e che "offre una serie di problemi di difficile soluzione". Uno di essi è dato dal nome di S. Maria Rotonda mentre la chiesa è quasi quadrata. L'ipotesi che l'attuale abbia sostituito una effettivamente rotonda e nemmeno l'altra, che si trovasse altrove, non hanno avuto riscontri negli scavi del 1965 e seguenti, che hanno messo in rilievo piuttosto un complesso di murature più consone ad un edificio di abitazione o rustico, ma non di una chiesa, nemmeno esistente in altri luoghi vicini. Un altro problema è il sospetto che documenti citati per questa chiesa riguardino quella di S. Giulia. L'esistenza di una prima chiesa di S. Maria a Pian Camuno ci è provata dall'investitura livellaria dei beni, che vengono descritti, della chiesa suddetta dell'1 marzo 1233. La località poi, da Pradella, venne chiamata Castellazzi, per cui nacque l'opinione che fosse stata costruita sulle fondamenta di un castello distrutto. Nel 1520 don Bettino Gnaffi parroco di Piano, dotava la chiesa di un beneficio (chiericato) che veniva poi arricchito con altre donazioni di terre da parte del nob. Uberto Federici d'Artogne con l'obbligo, al sacerdote investito, di celebrare messa a comodità dei fedeli nei giorni di precetto e durante l'estate (1563): era allora curato della chiesa il figlio Giovanni Antonio Federici. Per un errore di trascrizione, forse, la chiesa nel Catalogo Capitolare del 1532 è detta «ecclesia S. Martino de plano... valoris ducati 18». Del 22 settembre 1562 è l'investitura della chiesa di S. Maria Campestre di Castellazzo di Piano da parte delle monache di S. Giulia. Negli atti della visita pastorale del Vescovo D. Bollani (1567) abbiamo che la chiesa di S. Maria di Castellazzo, giuspatronato del Monastero di S. Giulia, aveva come rettore Gilio de Gratiadeis di S. Eufemia e aveva un reddito dal beneficio di 24 ducati: è con questo Vescovo che il beneficio di S. Maria venne reso indipendente da quello di S. Giulia. Ma gli atti della visita pastorale del Bollani sono anche interessanti perchè affermano che l'altare maggiore è consacrato e quindi ordina che siano distrutti i tre altari laterali che in una chiesa così piccola erano di ingombro. Rimangono atti di investitura a chierici del beneficio nel 1568 (a Girolamo Giulio de Orianis) e nel 1580 (a don Francesco Marzoni) fino a quando dal vescovo Dolfin il beneficio di S. Maria venne unito a quello della chiesa parrocchiale.


Tra le varie disposizioni di S. Carlo vi è la ricostruzione dell'altare maggiore. È ricordata dal Faino (1658) e da p. Gregorio (1698). Durante il sec. XVII venne trasformato il presbiterio con l'applicazione, nelle lunette del le pareti laterali, di cartelle barocche in stucco, ma soprattutto per la ricca decorazione in stucco che applicata alla parete dietro l'altare, pure rifatto in legno di semplici forme, faceva da sontuoso sfondo all'ancona lignea e dorata, con ricco drappeggio che partendo dalla sommità era sollevata da angioletti in volo. Viene inoltre, nel sec. XVIII, rifatta la soasa nella quale era stata posta una tavola con la Madonna e il Bambino protetta da un vetro. Ai lati erano state poste le statue di S. Antonio ab. e di S. Antonio di Padova. Restauri agli affreschi vennero compiuti nel 1910 da Giuliano Volpi. Nel 1963-1964 venne rifatto il tetto e di nuovo restaurati gli affreschi da T. Bellotti, a spese del Comune e della Comunità Montana. I restauri vennero inaugurati nel 1979. La chiesa, come scrive G. Panazza, è di forma rettangolare, orientata con presbiterio di forma anch'esso rettangolare, più stretto, ma è priva della facciata in quanto verso O era l'edificio civile, cioè la "corte" del monastero di S. Giulia. Per ovviare a questa anomalia, sul lato N, nell'angolo fra navata e presbiterio è stato inserito un corridoio con scale, all'interno, che conduce nella navata. Questo corridoio ha il prospetto, a N dell'abside, che funge da facciata per la presenza di un ampio portale architravato con mensole a gruccia costituito da grandi conci in arenaria rossa ben squadrati. Sull'architrave è a rilievo una croce che all'estremità dei bracci si adorna di borchie semisferiche, e sotto ai fianchi è inciso: «1439 + D . I . E . 30 MAZJ» che permette di datare il curioso edificio, della tipologia chiamata "rustica", alla prima metà del sec. XV. Sopra il portale è un piccolo rosone circolare. Nell'abside una finestra rettangolare dà luce al presbiterio. La parete E, come annota il Panazza, ha terminazione a doppio spiovente e due finestre monofore, strette e alte con arco semicircolare e con lieve svasatura esterna; sono gli unici elementi decorativi di gusto rinascimentale. La parte però verso S presenta un muro lievemente a scarpata e in aggetto. Il lato S del presbiterio ha pure una finestra quadrata, ma con l'andamento sghembo della strombatura perchè a fianco della stessa sporge il corpo più basso e di forma a parallelepipedo della sagrestia, che non presenta elementi di particolare interesse architettonico. Nella parete si apre un'altra finestra rettangolare. Caratteristico il campaniletto a vela che si erge tra il presbiterio e la facciata, con una campana fusa da Innocenzo Maggi nel 1804. Il lato esterno N ha due finestre che illuminano una il corridoio interno, l'altra la navata. All'interno un corridoio con successione di gradini porta dal piano della strada a quello più basso della navata. Sulla parete S del corridoio si trova riquadrato un tondo che aveva un'immagine quattrocentesca della Madonna di cui rimangono solo alcuni angeli e, sotto, un riquadro in due scomparti con la figura di S. Bartolomeo e la data 1581. La parete termina con un pilastro nel quale entro una nicchia è raffigurata S. Apollonia. La pianta della chiesa è del tutto irregolare. La navata poi è divisa in due settori da un portico a due arcate con arco a tre centri, sostenuto nel mezzo da una colonna tozza (alta m. 1,70), con base quadrata (poggiante a sua volta su un'altra di forma circolare) che negli angoli presenta un motivo a foglie; il suo capitello reca un solo ordine di foglie grasse a costolatura centrale e punta rivoltata. Le arcate, ai due lati, sono sostenute da pilastri con una modanatura cordonata che funge da capitello. Le due arcate sopportano una parete divisoria, con loggia, costituita da quattro arcate a pieno centro su colonnine slanciate in arenaria rossa e bei capitelli a foglie d'acanto. Uno dei capitelli reca incisa la data 1485. La zona della navata a portico costituita dalle due arcate, presenta soffitto ligneo orizzontale, e, addossata alla parete N, una scala a giorno che porta al matroneo superiore le cui arcate sono chiuse da una elegante grata lavorata a giorno, in legno dipinto, a forma di balaustrini. Tale matroneo con le grate fa pensare potesse servire alle suore per assistere alle funzioni senza essere viste, anche se è improbabile che le suore di S. Giulia abbiano mai soggiornato in questa loro "corte". Le tavelle della loggia recano la scritta: «A de - 8 - VIto 1600 - grAtiA dei-fecit - fare» (Nel giorno 8 giugno 1600 per grazia di Dio fece fare). Sul lato E della navata si apre l'ampio cimitero, un tempo, forse, con volta a crociera costolonata e oggi a finta volta forse del '600. Sull'arco d'ingresso a forma leggermente acuta che poggia su pilastri con una cordonatura che fa da capitello, a N è una nicchia con il Martirio del b. Simonino da Trento, attribuibile secondo il Panazza a G. Pietro da Cemmo. Sul lato S in due scomparti le figure di S. Sebastiano e S. Rocco "di fattura assai fine" scrive il Panazza, anche se rovinati. Nelle pareti del presbiterio, si vedono dipinti due strati dei quali il Panazza rileva come il più recente è costituito dal frammento di un riquadro con Madonna e Bambino in trono e a lato una lesena; questo frammento è sovrapposto ad altro, più antico, del tardo sec. XV che era diviso in due scomparti da lesene con elegante capitello corinzio. Nello scomparto visibile è la Madonna col Bambino in trono mentre l'altro è nascosto dallo strato precedentemente descritto. Nel secondo ordine vi è, purtroppo rovinato, un grande riquadro diviso in due parti: nella prima, entro un arco a pieno centro e con uno sfondo di architetture pienamente rinascimentali, è seduta sul trono la Vergine che tiene il Bambino Gesù sulle ginocchia, mentre, al fianco, è la figura di S. Lucia, ma di cui manca tutta la zona superiore; il Panazza lo ritiene di Paolo da Brescia o di uno stretto seguace; l'altra presenta un ovale contornato da una ghirlanda di angioletti di tonalità giallo-arancio e agli angoli, quattro dischi con finti marmi violacei contornati da fascia bianca. Dentro la ghirlanda è la Madonna in trono col Bambino Gesù sulle ginocchia che tiene il libro dei Vangeli in mano, di linee goticheggianti. Segue nell'ultimo ordine una Madonna col Bambino molto guasto. La parete sud del presbiterio presenta in cinque scomparti successivi: la Madonna col Bambino, S. Apollonia, il Cristo Patiens con pisside in atto di dare la comunione. Nell'ordine superiore vi è una Madonna col Bambino benedicente, S. Girolamo e la Madonna inginocchiata che adora il Bambino Gesù. Il Panazza annota «come in tutte le pareti i riquadri siano disposti con un notevole senso compositivo divisi da cornici traforate giallo oro e rosso». La parete frontale, oltre a crocette e a un disco violaceo presenta, nel secondo ordine procedendo da N, un riquadro con una figura di sacerdote con veste nera e cotta bianca, vista di profilo, che tiene nella sinistra il turibolo e nella destra alza l'aspersorio in atto di benedire un defunto, cui segue entro cornice ad archetti o a dischi traforati un S. Antonio Abate, con mitria e il nero porcellino; segue il vasto riquadro centrale con ricco trono dalle forme simili a quelle del trono precedente su cui sono la Madonna seduta e il Bambin Gesù. Ancora la Madonna con il Bambino è nel riquadro che segue. L'altare ha un'ancona lignea con ricca soasa, adorna di fregi nelle semicolonne, nei capitelli che raccoglie tre nicchie: al centro la Madonna con il Bambin Gesù sulle ginocchia che tiene la simbolica raffigurazione della Terra e ai lati le statue di S. Giulia e di S. Antonio Abate; nella lunetta è il busto del Padre Eterno benedicente. Le statue, scrive il Panazza, sono di fattura larga, modellate con un certo senso dinamico e con i panneggi ampi, elaborati e mossi; nel complesso è un buon lavoro della fine del sec. XVI, di fattura locale fortemente legata alle forme rinascimentali. A questa chiesa apparteneva il frammento probabilmente di polittico databile al 1460 circa raffigurante la Madonna col Bambino nel roseto. L'opera per ragioni prudenziali è oggi conservata nella canonica di Pian Camuno. Sulla parete S della navata si trovano due riquadri affrescati: uno con il Compianto di Cristo del sec. XVII, assai debole e rovinato; l'altro invece quattrocentesco, assai guasto, con figura della Madonna col Bambino seduta in trono dalle forme ancora goticheggianti, mentre quasi illeggibile è la figura di Santo o Santa posta a fianco.


CHIESA DI S. MARTINO. Nel catalogo capitolare delle chiese compilato nel 1532 è elencata «Ecclesia S. Martini de plano... valoris ducat. 18», ma poi di questa chiesa non abbiamo altre notizie. Il Panazza avanza il dubbio che possa essere stata confusa con quella di Sonvico di Pisogne.


CHIESA DEL LAZZARETTO (ORA CHIESA DEGLI ALPINI). Fuori dal paese, sulla strada che porta a Montecampione, sui ruderi di una preesistente chiesetta-lazzaretto che aveva dato ricetto agli appestati (così vuole la tradizione) è sorta nel 1980, per l'opera del gruppo alpini di Pian Camuno una chiesetta votiva, dedicata alla memoria degli alpini caduti o dispersi nelle guerre. 


IL SUFFRAGIO. Esistente nel Cimitero e ricordata da B. Rizzi nel 1870 è stata demolita e ricostruita in epoca recente.


CAPPELLA DEL CIMITERO O DEI DISCIPLINI. Scomparsa. Non si sa quando fu costruita. Sappiamo che nel 1767 la vicinia e il Comune di Piano implorano perché sia consacrato l'oratorio della B.V. della Pietà a comodo e a beneficio degli infermi del Comune: si tratta del medesimo edificio o di altro poi scomparso? È di forma parallelepipeda e di pianta quasi quadrata, poi sovralzata. Conserva ancora all'esterno completamente liscia la facciata con tracce di affreschi sopra la porta, oggi murata, con le due finestre laterali. All'interno, sulle pareti è una fascia con lesene viste in prospettiva sormontate da un architrave. Ogni riquadro ha poi un'apertura ottagonale con sfondo di cielo su cui spiccano figure di Santi. Interessante è uno dei riquadri con un Santo Eremita e la Morte dalla cui bocca esce un cartiglio con la scritta: «Vieni meco eremita che gionto è il fin di tua vita». È stata trasformata in fienile.




ECONOMICAMENTE: Piancamuno visse per secoli di pascoli, di boschi e nel piano di agricoltura, oltre che della lavorazione del ferro, dell'escavazione di pietra e anche di commercio. L'agricoltura ebbe sviluppo soprattutto negli ultimi secoli. Ancora nel 1610 il Da Lezze annotava che il territorio al Piano non è «molto buono, ma la maggior parte del piano è paludoso, produce biave pocco buone, vini puochi et cattivi ma castagne assai, dalle quali li habitanti cavano denari per le castagne secche, et biscotti, che mandano fuori del paese, produce anco fieni in quantità. Nella terra di Piano vengono fichi assai, et buoni, et quivi maturano più presto assai, che in qualonque altro luoco di essa Valle». Singolare la notizia di «un pascolo molto grande de Caretti mirabile per li cavalli bolsi, dove molti ne guariscono mangiando di quelle herbe, et molti se non guariscono si conservano almeno molti giorni». Vi erano molti contadini e mandriani e molti cavallanti «che servono a nollo in condur robbe a mercanti». Vi erano comunque oltre ad un molino e ad una segheria, un forno da ferro e tre fucine. La situazione economica si era già evoluta nel 1820 quando G. Mairone Da Ponte oltre a ricordare le due fucine di maglio grosso per la lavorazione del ferro e vari mulini segnala la caratteristica industria della zona, dovuta a quel filone di puddinga verdognola presente nel monte fra Piano e Gratacasolo, con la quale si eseguivano mole di macine che venivano esportate in tutta Italia. Il Da Ponte comunque descriveva come "bella" la pianura e «fertile di foglia di gelso, ma segnatamente di granaglia di qualunque sorte; dà anche del vino, però di qualità inferiore. In questa parte, continua, ha ancora dei vasti prati; e sulle falde montuose, che gli appartengono della grande giogaja destra e della vallata, ha de' pascoli in copia, de' fruttiferi castagneti con boschi d'alto e basso fusto». Ma prevalente era l'agricoltura e l'allevamento del bestiame "copiosissimo" e il commercio dello stesso. La situazione è ribadita nel 1853 quando la coltivazione dei gelsi è addirittura prodigiosa, ma la gente è «industriosa ne' traffici di bovine, e di cavalli, per la comodità de' pascoli comunali, che si è riservata dopo lo scomparto de' beni». Particolareggiata è la situazione economica nel 1853 quando il terreno in pianura è coltivato a granoturco, frumento, patate, fieno, viti e gelsi; mentre sulla montagna si coltiva, per la maggior parte, a fieno, castagne e patate, in minima quantità a granoturco; non vi sono viti né gelsi, se non nella frazione di Solato, in collina. Poca segale, miglio, grano saraceno, canapa per uso delle famiglie, noci ed altra frutta produce pure il suolo, in modo speciale al piano. La rendita annua si può calcolare di ettolitri 2.300 di granoturco; 140 di frumento, 350 di vino; quintali 2.175 di castagne; 16.000 miriagrammi di foglia di gelsi, 14.000 di vimini, 1.600 di patate; quintali 2.000 di carbone; frutta, escluse le noci, miriagrammi 410. Ben più fruttifera sarebbe la campagna in pianura, se non fosse gravemente danneggiata, nelle sue migliori parti, dall'Oglio, che abbisogna di arginature, e dai due su accennati torrenti; e quindi più agiata si vedrebbe la popolazione, quando non fosse annualmente costretta a sostenere gravi spese, per riparare dalle inondazioni l'abitato ed i terreni. Ha tre montagne per la pastura estiva degli armenti, Campione, Fedestalle e Valmajone, un tempo proprietà del Comune, ora dei privati; un'altra località si estende nel piano, denominata i Carretti, tuttora del Comune, dell'estensione di pertiche 146,26; ed altre varie, possesso in vero di privati, ma su cui i terrazzani han diritto al pascolo, in epoche determinate. Il prodotto delle lane ascende a lire 1.180, quel dei bozzoli a lire 2.000; piccolo e quasi nullo quello delle api. (...) Il numero degli abitanti ascende a 1.478; i quali attendono alla coltivazione del suolo ed all'allevamento del bestiame (260 animali bovini e 300 tra pecore e capre), loro occupazioni quasi esclusive, e che adempiono con singolare attività ed intelligenza; mentre poi sono eziandio assai esperti nella manipolazione e nello smercio dei prodotti della loro industria". Ma l'entusiasmo non riusciva a coprire le gravi falle sociali prodotte da un rapido incremento demografico e da nuove giuste esigenze. Infatti proprio negli ultimi decenni dell'800 e nei primi del '900, Pian Camuno conobbe il fenomeno della disoccupazione. Non pochi operai specializzati (carpentieri e muratori), cercarono lavoro nelle grandi città del nord, ma anche in Svizzera, Francia e Germania. Forte, nella prima metà del nostro secolo, è stata l'emigrazione diretta specialmente verso i paesi dell'America Latina oltre alle migrazioni pendolari specie su Darfo e Costa Volpino. Nel secolo scorso si intagliavano bocce ed altri oggetti. Nel 1892 esisteva una cava di pietre per macine molitorie. Agli inizi del secolo XX ebbe inizio il rilancio industriale. In località Pio fra Pian Camuno e Pisogne veniva fondata la Società Manifatture di Vallecamonica. Solo dopo alcuni anni dalla seconda guerra mondiale la situazione economico-sociale subiva una rapida trasformazione con la nascita nella zona pianeggiante di industrie quali le Acciaierie Predalva, la Metalstampi Bonomi, la Facchinetti, la SICI, la Novogas ecc. mentre verso gli anni '70 decollava nella zona montana e si sviluppava una stazione di turismo invernale che ebbe insperato sviluppo in alberghi ed impianti. Sull'onda di tale sviluppo nel dicembre 1972 veniva aperta un'agenzia della Banca S. Paolo. Lo sviluppo si andò accentuando. La Predalva Siderurgica nata nel 1973 veniva fermata nel suo sviluppo accusata, nel 1985, di inquinamento e cedeva il posto nel 1987 alla Predalva Meccanica che però falliva nel 1992. Nel 1979 falliva l'azienda chimica SICI ma nel 1992 la Gnutti riuniva a Pian Camuno nella Brawo le produzioni dislocate a Gratacasolo e a Cogozzo. Attiva è la Cooperativa trasporti Vallecamonica costituita nel 1974 e che vent'anni dopo raccoglieva 35 soci, con 40 autotreni e autoarticolati, 5 semirimorchi, ecc.


Nel 1989 veniva attrezzata un'area industriale mentre nel 1994 nasceva "Promopià" un'associazione degli operatori economici per lo sviluppo di Pian Camuno con il compito di animare iniziative di carattere sportivo, sociale e culturale e, nel contempo, ricreare la collaborazione fra operatori economici. Fra gli elementi tradizionali del luogo è la cucina che specie nelle frazioni offre piatti ottimi, come salame casereccio, pollo con funghi e uccelli con panna e polenta. Il mercato si tiene ogni venerdì ed il primo martedì del mese.




PARROCI E RETTORI: Eustacchio (rettore, 12 marzo 1298); Giacomo Foregri (nom. 20 settembre 1298); Martino da Artogne (è domandato come rettore dagli uomini di Piano alle monache di S. Giulia l'8 novembre 1325); Michele (chierico, prende possesso del beneficio di S. Giulia l' 1 ottobre 1347); Giovanni de' Capitani di Piano (1378); fra Battista Girardini di Vicenza, eremitano di S. Agostino forse nel convento di Pisogne (è nominato il 31 marzo 1417); Giorgio Gnaffi (1420); Martino da Artogne (19 gennaio 1428); Pasino Burlatti (18 gennaio 1441); Antonio Bombelli da Gianico (17 marzo 1460); Batino (3 marzo 1520); Zaccaria Faustinoni di Cividate (nom. 28 febbraio 1524); Giacomo Vaccheri de' Onesinis (nel 1562 assente); Girolamo Gilio de Orianis, chierico e rettore di Piano (è investito del chiericato di S. Maria del Castellazzo il 22 settembre 1568); Francesco Massonico (1580); Giovanni M. Alberti (1581); Cristoforo Baroni già parroco di Vissone (1605); Giov. Batt. qd. Andrea Armanni nobile bolognese (1612); Lodovico Andreoli I.U. Dott. di Artogne (1647); Lodovico Andreoli di Artogne ( + 1685); Andrea Bono (1705-1730); Giovanni Bonometti di Piano (1730-1765); Martino Panigada di Fraine (1766-1790); Giulio Romelli di Cividate (1790-1833); Francesco Crispino Massari di Piano (1834-1860); Giuseppe Bianchi di Quinzanello (1860-1867); Bartolomeo Massari di Piano (1867-1906); Stefano Gelmi di Malonno (nom. 10 maggio 1906 - 9 novembre 1941); Antonio Pennacchio (1942-1966); Giuseppe Chiapparini (1966-1967); Davide Antonioli di Monno (1968-1973); Paolo Blanchetti di Capodiponte (dal 1973).