TOSCOLANO (2)

TOSCOLANO (in lat. Tusculanum, in dial. Toscolà)

Centro agricolo-industriale-turistico che si stende sulla sponda occidentale del lago di Garda, sulla riva sinistra del fiume Toscolano, tra il lago e le pendici del monte Pizzocolo, dilungandosi sulla statale 45bis Gardesana Occidentale. È a 39 km da Brescia, a m 86 di altitudine s.l.m. Comune autonomo fino al 1928, con R.D. si fuse col comune di Maderno col nome di Toscolano Maderno (v.). Parrocchia autonoma, fa parte della zona XVI del Garda.




ABITANTI (toscolanesi): 2.028 nel 1493; 2.300 (?) nel 1610; 1.400 nel 1658; 1.264 nel 1727; 1.310 nel 1728; 1.334 nel 1775; 1.265 nel 1791; 1.264 nel 1805; 2.064 nel 1819; 2.422 nel 1835; 2.510 nel 1848; 1.750 nel 1858; 1.745 nel 1868; 1.800 nel 1875; 1.800 nel 1887; 1.900 nel 1898; 1.800 nel 1908; 1.800 nel 1913; 2.347 nel 1926; 2.251 nel 1939; 2.260 nel 1949; 2.000 nel 1963; 2.000 nel 1971; 2.000 nel 1981; 2.385 nel 1991; 2.310 nel 1997.




Geologicamente il terreno è dovuto all'escavazione della fossa del lago dall'azione dei ghiacciai quaternari. Ricca la vegetazione, per cui nel 1991 Piercarlo Belotti e Alberto Bonaspetti hanno schedato una cinquantina di piante da salvare, piante che vanno dall'olivo dei Righettini, in via Religione, di oltre duecento anni, ad un cedro dell'Himalaya alto oltre trenta metri.


Il nome è citato la prima volta in documenti del 1022, 1085, poi invariatamente noto come Tusculanum. Secondo Donato Fossati il nome Toscolano sarebbe stato introdotto forse già alla fine del sec. I d.C. in luogo del più antico Benacum; sarebbe dovuto alla presenza dei patrizi Nonii Arrii, proprietari di una ricca dimora sui colli Tusculani nel Lazio e della villa romana di Toscolano. Marco Gerosa lega il toponimo a "Tusculum", termine con cui i Romani avrebbero indicato ogni luogo ameno di villeggiatura. Dà ragione all'Olivieri Carla Mercato (Dizionario di Toponomastica UTET) che lo fa derivare "verosimilmente, da un nome proprio di persona latino" (Tusculus) con il suffisso aggettivale "anus" che designa appartenenza. L'immaginazione di poeti ha inventato divinità abitanti la regione, fra cui Tuscolo, figlio di Benaco e di Garda, rievocati da Giuseppe Meio Voltolina nei suoi versi. Lo stesso Voltolina ha immaginato che Ercole, approdato, nel suo ritorno a Tebe, avrebbe preso dimora a Benaco, città favolosa di cui il poeta diceva ancora visibili, in fondo al lago, torri ed edifici là sprofondati da un terremoto.


Si è molto insistito nell'indicare la zona del porto come la prima ad essere abitata. È più facile, invece, che i primi abitanti abbiano scelto le alture. Infatti reperti di industria litica, di età preistorica, sono emersi in località Garde (1872); selci grezze e lavorate (bulini, punte, raschiatoi e lame) databili 5-7 mila anni a.C. sul monte Castello di Gaino, trovati da G.P. Brogiolo in una località imprecisata tra Monte S. Urbano e Monte Lavino (1974). Altri reperti di industria litica dell'età del Bronzo vennero alla luce in un riparo sotto roccia sul monte Verver e in una grotta nella valle di Campèi. Probabilmente trasportata dall'acqua del fiume è una splendida cuspide di selce (un foliato di 12,5 cm di lunghezza, 4 di larghezza e 5 mm di spessore) dell'eneolitico, rinvenuta nel 1800 da Domenico Visintini nel greto del torrente Toscolano in località Religione e poi donata nel 1986 al Museo di Gavardo. A parte i ritrovamenti preistorici sparsi nel territorio, Toscolano fu senza dubbio un importante centro fin dall'antichità più lontana. Degli etruschi vi è un richiamo poetico nei versi di Catullo, che chiama "lidie le onde del lago", usando un aggettivo "lydi" con il quale i Romani indicavano gli Etruschi, perché li ritenevano originari della Lidia, regione dell'Asia Minore. Il ripetersi di iscrizioni, nelle quali ricorre il termine "Benacenses", ha fatto pensare ad una popolazione stanziata nel tratto rivierasco tra Barbarano e Gargnano, con capoluogo in Toscolano, con un suo centro, cioè "Forum". Tale punto era generalmente situato presso importanti vie di comunicazione, dove i cittadini romani dei distretti sprovvisti d'un centro urbano si radunavano per fare mercati e fiere, per avere comunicazioni di ordini e di leggi, per celebrare cerimonie e per provvedere agli interessi locali; in tali luoghi si definivano anche le loro contestazioni e si amministrava la giustizia. La popolazione era dipendente da Brescia, appartenente, come la città, alla tribù Fabia e ricoprente cariche. Il Bonvicini fa risalire la consistenza urbanistica del luogo al II-III secolo d.C. e particolarmente sotto gli imperatori Marco Aurelio, Lucio Vero, Commodo, Settimio Severo, Caracalla, Claudio il Gotico. Viene negata invece dagli studiosi più agguerriti l'esistenza di una città "Benaco" (v. Benaco città), della quale hanno scritto almeno duecento poeti e "storici" e che la leggenda, contrabbandata in base a presunte "antichissime cronache", citate da G. Dalla Corte ("Dell'istorie della città di Verona", 1744), vuole distrutta nel 243 o 245 d.C. per un terremoto. Plausibile, invece, l'opinione affacciata da Donato Fossati che l'origine della leggenda sia da riferirsi alla visione dei ruderi della villa romana coperti dalle acque e dai molti reperti archeologici dispersi nel territorio, che sono poi riemersi in recenti scavi, spesso fortuiti. Nel territorio toscolanese si trovano infatti le iscrizioni più varie: agli dei Mani per Lorenia Mercatilla, morta a 28 anni, da parte di Lorenius Nosabius (a Roina); un frammento con "Memor nostri" a Gaino; alla Vittoria; il funerario di Titus Caecias N... e un'altra agli dei Mani per Lorenia Vetusta, posta dal marito Gaudentius a Gaino, ecc. Consistente il gruppo di iscrizioni concentrate presso la parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo come una stele funeraria in calcare locale con dedica ai Mani ed ai genitori Publius Aelius Philitus e Aelia Chreste, posta dai figli Publius Aelius Parthenopaeus e Publius Aelius Heracles (famiglia di liberti); iscrizione su architrave in marmo lunense, con dedica Augustis Laribus; iscrizione onoraria su base in calcare locale, con dedica dei Benacenses all'imperatore Claudio II (268-270 d.C.); iscrizione funeraria su tabula in calcare locale con dedica agli dei Mani e a Severa, posta dal marito Profuturus che versò seicento sesterzi alla gentilitas Arpenia, associazione probabilmente impegnata nelle opere a favore dei defunti. Strutture murarie di epoca romana vennero alla luce presso il porto; a Maclino; sepolture emersero nel 1872 dietro casa Maffizzoli, a Cervano (1957); a Gaino (1957). Fra le strutture più rilevanti il Bonvicini indica la diga romana "conservata quasi intatta nella zona del porto" e sulla quale egli ha raccolto particolari notizie.


L'espressione più alta della romanità di Toscolano è tuttavia la villa romana, della quale scrivono il Sanuto (1483), Silvan Cattaneo (1553), Grattarolo (1599), Scoto (1610), Rossi (1616) e il cui primo studio approfondito fu compiuto da Claudio Fossati e pubblicato nel 1893. È ritenuta, da Odorici, Brunati, Labus, Bettoni, edificata da un Augusto. L'ipotesi è suffragata da una lapide murata nella parete E del campanile della chiesa parrocchiale vecchia con la scritta "Augustis Laribus". Alcuni studiosi si riferirono all'imperatore Probo (276-282), ma l'ipotesi venne scartata dal Fossati, che ha avanzato l'idea che si tratti di una dedica di un collegio sacerdotale di Augusto, che si trova anche altrove. Anzi il Fossati pensa che, forse, si potrebbe trattare di una dedica da parte di Caio Valerio Mariano, che sostenne incarichi in Trento, Brescia, Mantova e che potrebbe essere stato membro di un sodalizio sacerdotale di Toscolano anziché, come si è pensato, di quello di Tuscola Laziale. Claudio Fossati ha ipotizzato che i proprietari della villa fossero della famiglia Nonia Arria (v.). In effetti, tra le lapidi, ve n'è una in località Religione nella quale si afferma che «Marco Nonio Macrino consacrò agli dei conservatori per la salute di Arria sua».


La costruzione della villa, secondo alcuni studiosi, dovette iniziare con Publio Nonio Asprenate nel 38 d.C. A lui Augusto aveva infatti assegnato, quale premio per i servizi resi nella difesa del Reno contro i Germani, possedimenti sulle "ripae benacenses". Ma poi venne continuata, ampliata, arricchita in seguito, forse dagli stessi Nonii-Arrii. Interessante la grandiosa ricostruzione della villa fatta dallo storico Fossati, che la descrive addirittura come "babilonese per vastità": «l'ingresso, custodito da massiccia cancellata, doveva trovarsi in parte sulla strada attuale per il porto, in parte nel giardino adiacente verso il lago. Un viale conduceva al palazzo, alla cui destra, precisamente ove oggi sorge il santuario di Santa Maria di Benaco, s'innalzava il tempio a Giove, poi quello a Bacco sull'area in cui si trova l'abside della parrocchiale e quindi l'accesso al fabbricato: l'atrio, il cavedio (portico coperto), l'immenso peristilio (galleria con colonne isolate) lungo la riva, l'oecus (stanza di riposo del padrone), poi la distesa dei giardini, interrotti da costruzioni, monumenti, fontane e campi sportivi. La villa aveva la lunga fronte rivolta al Baldo, ornata da terrazze sporgenti sull'acqua e, a monte, era cinta da bastioni intersecati da torri, spingendosi sino a circa metà dell'attuale piazza e seguendo poi all'incirca il tracciato della statale». Lo stesso Claudio Fossati scrisse che «dagli scavi, praticati per lunga serie di anni in quei luoghi, emersero continuamente colonne e statue di marmo, lapidi letterate, mosaici vastissimi, condotti di piombo, embrici, terrecotte, medaglie, monete, capitelli e cornicioni lavorati, intonachi dipinti coi colori più vivaci e brillanti, una svariatissima quantità di marmi, dai più fini ai più comuni. Vennero in luce sepolcri, cippi funerari, cementi durissimi, serraglie, modanature, mensole, fregi, rilievi, testine, colossali murature». Il Fossati aggiunge che «i raccoglitori di antichi cimeli asportarono quanto poterono di quei ruderi e che, tra gli altri, il marchese Maffei teneva ancora a Verona la statua marmorea di Giove Serapide, cinto il capo del modio, col pallio sopra la tunica e le crepide ai piedi, probabilmente trovato nell'antico santuario di Benaco a Toscolano».


Tuttavia, salvo colonne conservate nella facciata della chiesa parrocchiale, e iscrizioni nel campanile verso il santuario della Madonna di Benaco, ben poco rimaneva fino al 1967, quando, durante i lavori compiuti per la posa di una fognatura, il 1° febbraio, vennero alla luce, nell'area attigua a quella della Cartiera di Toscolano, i resti della villa romana. Una campagna di scavi portò al recupero di alcune stanze, mosaici e monete. Il tutto venne abbandonato anche al saccheggio. Nel 1996 vennero alla luce alcune vasche ritenute piccole piscine o peschiere ornamentali.


Nuove scoperte vennero compiute nel settembre del 2000 durante alcuni lavori nei pressi di un'abitazione in fase di costruzione, nel piazzale deposito di stoccaggio di una ditta edile. Si intuisce subito che il ritrovamento è di grande pregio: la parte di mosaico liberata dal terreno, 4 o 5 metri quadrati, è di una bellezza straordinaria. I tasselli di pietre policrome formano armoniosi disegni geometrici ed elementi floreali stilizzati. «Le figure e il cromatismo molto accentuato - spiega l'archeologo Angelo Ghiroldi - sono tipici del IV-V secolo, risalgono alle ultime fasi di vita dell'edificio. I reperti rinvenuti negli anni Sessanta, situati ad un centinaio di metri di distanza, sono invece più antichi, probabilmente del II secolo d.C.». La nuova scoperta ha probabilmente riportato alla luce la "Tricora", una stanza a tre absidi collocata nella zona residenziale e di rappresentanza della dimora romana, forse la sala da pranzo. «Si tratta - aggiunge Ghiroldi - di una delle stanze più importanti della villa». Il Ghiroldi valutò a 15 mila mq l'estensione della villa, non escludendo che nuove ricerche potrebbero allargare l'area ai 40 mila mq ipotizzati dal Fossati. La villa deve essere stata devastata da un incendio, forse causato, nel 408, dai Visigoti di re Alarico. Con questa supposizione combaciano sempre più gli studi recenti dell'archeologo Gian Pietro Brogiolo e di altri, che assegnano a tale periodo il declino irreversibile delle ville romane sul lago.


La vita sul lago, comunque, continuò, come è emerso dalle strutture tardo-romane e alto medievali ricomparse sul monte Castello di Gaino, dove l'archeologo Gian Pietro Brogiolo ha trovato pietre ollari del IV-V secolo d.C., muri che datano 1.500 anni, resti di una torretta di avvistamento, proprio vicino alla vetta più elevata del monte, da cui si potevano vedere, come riferimento, altre fortificazioni (Sirmione e Garda in particolare) ed una roccia tagliata, che in origine doveva servire da riparo. Brogiolo ha inoltre accertato, con altri saggi di scavo, la presenza di luoghi che dovrebbero nascondere resti di abitazioni. Le campagne di scavo hanno consentito allo studioso di collocare attorno al VI secolo d.C. l'età del sito archeologico del monte Castello. Dell'VIII-IX secolo è un marmo bianco decorato con cordonature, cerchi, ecc. e murato nel fianco dell'antica canonica, a lato del santuario della Madonna di Benaco. Un altro marmo simile fu ritrovato nel 1998 nelle stanze al pianterreno dell'attuale canonica. Della stessa epoca e sempre nello stesso edificio è una bifora di bei conci, ghiere lunate nei due archi, colonnetta in marmo rosso di Verona che poggia su marmo di Botticino.


Secondo il parere di Donato Fossati, tra i "tanti barbari invasori" pare che Toscolano abbia subito devastazioni, più che da altri, dai Visigoti e dai Longobardi. Dai primi, perché, discesi con Alarico per la via di Trento (402), avrebbero puntato sul Garda; dai secondi perché più a lungo si insediarono e si organizzarono nel bresciano. Come scrive il Fossati, «pare che la Riviera sia appartenuta al Duca di Brescia; ed Alachi, Duca di Brescia e di Trento contemporaneamente, potrebbe aver goduta la villa di Toscolano, sita a mezza via tra le due città e posto adatto a tenere in osservazione ambedue i Ducati. È nata in me tale supposizione dal vedere fondata in Toscolano la Curtis Regia, rimasta nel nome alla chiesa di Santo Stefano Corteregia (poi chiesa di S. Antonio) e nel vocabolo formatosi allora a denotare la contrada dove si trovava la villa e la spiaggia dove ergevansi le vaste terrazze, chiamata nel dialetto legale, denominazione inesplicabile per sé sola, spiegabilissima quando si sappia che nelle carte medioevali e finché è durato l'uso ufficiale della lingua latina, era detta regàulis, manifesta corruzione di regalis». Toscolano e Maderno, come sottolinea ancora il Fossati, serbano traccia della loro occupazione nel nome di molte terre, distinte col nome di Sorti-lotz, cioè lotti assegnati in proprietà ai militi e ai nobili e nel nome di Cuzzaghe, da Cuz, prestazione agraria, perché essi corrispondevano una quota di redditi in natura. Appartennero alle prime: Cervano, Era, Consaine, Paludi, Lozolo, Vimprato, Cavallo, Paradiso, Cese, Pescarola, Gandinello, e altre; alle seconde le terre della Capra, delle Brede, di Mornaga, Ruina, Cecina, Messaga, Gazzi, Folino, Cabiana, Marcina, Vercenigo e molte altre. I boschi più vicini all'abitato erano nella massima parte riservati (ingazati) ad uso delle cacce dei Re e dei Duchi, che ritenevano la caccia e la guerra uniche occupazioni degne di un nobile; il resto serviva all'uso domestico e al pascolo del bestiame. Molti termini sono nel nostro dialetto rivierasco derivati dal linguaggio longobardo e per curiosità ne cito qui alcuni: lama (palude), stroppa (virgulto), faida, greppia, pieggio (plegher - promettere), sperono (sporen), blac (nero, corna blaca), slepa (schiaffo), suga (fune), pilter (stagno), bisca, bicchiere, magù (magen), gaz (bosco), fobia (passo - valico), ecc. Segni della presenza longobarda sono la dedica a S. Michele del castrum e poi della chiesa parrocchiale di Gaino e il nome Degagna (che ancora sussiste nel territorio, «essendo i Decani guardiani degli agglomerati minori alla dipendenza degli sculdasci che governavano le Corti regie poste nei luoghi di maggior considerazione», qual era quella di Toscolano). Risalente ad epoca longobarda dovrebbe essere il culto a S. Giorgio di Roina e Mornaga, invocato a difesa della campagna dalle avversità climatiche.


È opinione di D. Fossati che sotto i Franchi (774) sia stata stabilita a Toscolano, in luogo della corte ducale, una "corte regia". Se, infatti, il termine "curte Tuscolani" si trova in documenti del 1206, una "contrada Curtarezio" è citata ancora in documenti del 1381 e si sarebbe trovata nelle adiacenze della demolita chiesetta di S. Antonio, già S. Stefano in Corteregia. Secondo lo stesso, la corte sarebbe stata la sede del gastaldo longobardo amministrante i possessi regi della zona, i quali, in seguito, sarebbero passati in parte al vescovo di Brescia. In una vertenza discussa nell'anno 1206 depose fra gli altri il "gastaldum domini Episcopi pro curte Materni et in curte Tusculani". La supposizione dell'avv. Fossati sarebbe confermata, secondo N. Bottazzi, dai vari toponimi germanici già elencati che si trovano nella zona, mentre mancano nelle zone attigue.


Il Fossati poi rimarca che quella di Toscolano sarebbe stata l'unica corte regia della Riviera, sicché «è probabile che qui abbiano convenuto i missi dominici per tenere le assemblee giudiziali: fu questo l'ultimo periodo nel quale il nostro paese può aver esercitato una parvenza di capitale o di centro della Riviera, perché coll'allargarsi e il fiorire delle libertà comunali fu Maderno capo della Riviera, fino a che Regina della Scala, moglie di Bernabò Visconti, non trasferì la residenza delle magistrature a Salò, dal quale più non si allontanarono». Tale preminenza sulle terre circostanti Toscolano dovette mantenere anche durante le invasioni ungare ed unne dei sec. IX e X, quando ad un "castrum vetus" venne aggiunto, rinforzato, quello di S. Michele di Gaino e creati, forse, quelli "de Pellicanis" e "de Trivellis". Al dominio franco il Fossati fa risalire, in contrada Religione, lo xenodochio od ospizio per pellegrini e viandanti, al quale successe poi il convento dei domenicani e, come egli scrive «più ancora quegli immensi beni e diritti infeudati al Vescovo di Brescia in tutti i paesi della Riviera, della quale e di Toscolano, assunse il titolo di Marchese, riconosciuto a Domenico Dominichi nel 1477 da Federico III Imperatore». Ed ecco, egli sottolinea, «come la villa Romana e il territorio toscolanese passarono dalla Camera Regia dei Franchi, confiscatrice delle proprietà Longobarde, al Vescovo di Brescia».


Accanto alla corte o curia vescovile, i cui segni rimasero fino al 1797, per donazioni di duchi, imperatori o vescovi, ebbero larga proprietà i principali monasteri bresciani, quali quelli di Leno, di S. Giulia, dei SS. Cosma e Damiano, di S. Pietro in monte Orsino di Serle, i quali, come ha sottolineato Paolo Guerrini, tennero in Toscolano e in Maderno molte proprietà fondiarie e numerose famiglie di famuli, manentes, massari e livellari. Già nel diploma di Lotario I, del 15 dicembre 837, venivano registrati possedimenti sul lago di Garda a Cervinica (forse Serniga) e nel Sommolago. Il monastero di Leno ebbe a Toscolano una sua chiesa dedicata a S. Benedetto, sulla quale manteneva il suo patronato ancora nel 1658, e protrasse a lungo nei secoli le sue proprietà. È del marzo 1040 la prima donazione di Nozio e Guido di Toscolano, alla chiesa (poi monastero) di S. Pietro in Monte di Serle, di un appezzamento di terra con alberi di olivo sito nella pieve. Altre donazioni seguono nel giugno 1041, nel 1042 e nel 1071 (donazione del diacono Riccardo abitante in Campi). Beni in Toscolano venivano riconfermati all'abbazia di S. Eufemia il 13 giugno 1132 da papa Innocenzo II. E, ancora nel 1367, il 18, 20, 25 gennaio l'abate del Monastero Giovanni Panigali effettuava locazioni di beni a Toscolano e a Maderno. Preminenza ebbe tuttavia per secoli il feudo e la curia vescovile, che andò allargando la sua gastaldia ai territori di Bogliaco coi possessi di Mariano, Magnolo, Villavetro, Castello dei Pellecani, Fornico, Panicale, Cornicolo, Ravicerio, Capra di Navazzo, ecc. e a quella di Maderno parecchie terre al di là di Bornico, la valle di Surro, Bregno, la corte di Suriano, ecc. (ciò nel 1207), cosicché bisogna ritenere che quando il Vescovo fece cessione ai conti di Marcaria dei diritti feudali sopra Gargnano e agli Ugoni di quelli sopra Gardone, si sia riservato il possesso dei liberi allodii dati già a livello e a colonia agli abitanti del luogo. Da un curioso processo pubblicato dall'Odorici nelle sue "Storie Bresciane" sappiamo che furono gastaldi vescovili a Toscolano Pietro Grasso nel 1190, poi Matteo Tornioli, Bresciano Giudici e un Bosello, tutti di Toscolano e nel 1206 un fratello dell'Arciprete di Maderno.


Alla riorganizzazione del patrimonio ecclesiastico in Toscolano, Maderno, Gardone si dedicò il vescovo Maggi nel 1279. Nello stesso tempo al "designamento dei contributi in Plebatu Materni" è presente Baldrigo de Gogis "clericus plebis Tuscolani". Un Pace di Toscolano, guelfo, viene nominato nel 1298 con Bresciano Sala come procuratore e delegato speciale del Comune di Brescia per fare da mediatore tra le fazioni per un'ampia pacificazione perseguita dal vescovo Maggi. Nel 1298, certamente in ragione dell'importanza attribuita alle zone orientali del Bresciano, il vescovo Maggi tornava a disporre un nuovo "Liber designamenti" per Toscolano e Maderno. Il vescovo Maggi poi coinvolgeva il comune di Toscolano, assieme a quello di Maderno e ad altri, nell'obbligo di mantenere in efficienza il ponte sul Chiese a Gavardo. Nel 1299 Pasino Gozio Boselli, giudice nel quartiere di S. Stefano in Brescia e fra i riformatori degli statuti municipali della città, erigeva la ricca prebenda di S. Nicolò di Cecina. Nel 1304 al vescovo veniva corrisposto olio, ma anche cereali, sale e prodotti caseari. In una ricognizione disposta nel 1307 dal vescovo Maggi, attraverso il suo vicario Cazoino, il suo mandatario, il chierico di S. Bartolomeo, come ha documentato Gabriele Archetti ("Berardo Maggi vescovo-signore di Brescia", p. 455), ordinava la designazione di beni, circa 100 piò, della sorte di Cervano di Toscolano.


Quello che si deduce dai "designamenti" del vescovo Maggi è che Toscolano risulta una comunità mista di liberi possessori, di sudditi vescovili e di districtabiles. Nel febbraio 1233 il chierico Ogerio Bonaldi di Toscolano è tra gli incaricati che trattano i problemi della pieve di Cividate. Nel 1234 lo stesso, assieme al domenicano fra Rogerio, sanziona i designamenti di Pisogne. Nel 1252 è Rogerio di Toscolano ad interessarsi dei vari diritti vescovili. Come è rilevato nella revisione dei beni ordinata dal vescovo Maggi, nel 1298, e come scrive Donato Fossati, «si desume che i terreni della villa romana, le sorti, i lozoli, i cuz dei barbari erano trapassati nel Vescovo, il quale, oltre il diritto di decima, teneva tre sistemi di coltivazione: col primo spartiva (e per ciò mezzadri) i prodotti in natura, col secondo percepiva un canone locatizio perpetuo, col terzo riceveva una quantità fissa di prodotti, quasi sempre in olio, oltre alcuni appendizi e onoranze. Sui registri annessi agli atti censuarii compilati, sono segnati anche i nomi e cognomi dei principali possidenti, professionisti e artigiani elevati a dignità di liberi e di agiati da quelle forme economiche pacifiche e stabili: Boselli, Tegazzi, Dellaguardi, Marchetti, Segatori, Falconi, Bonomi, Ambrosini, Pelli, Righetti, Zaneboni, Pederboni, Passurelli, Bertoni, Manentini, Calcinardi, Colombi, Belloni, Bulgarelli, Bonaspetti, Ferrari, Grazioli, Elena, Benamati, Avanzini, Arrighi, Manni, Tassini, Zambelli, Bonati, ecc.


Attraverso livelli, concessione di terre, all'ombra della curia o corte vescovile, crebbero le proprietà di quelli che erano i funzionari della curia stessa, come gli Avogadro (di un fondo in Toscolano, Beltracco q. Giacomo Avogadro investiva ancora nel 1411 Nicola q. Giovanni di Pulciano), i Confalonieri, ecc. Inoltre si avvantaggiarono dei beni vescovili gli Ugoni (v.Ugoni famiglia). Di tali beni si avvantaggiò pure il Comune, acquisendo averi e rivendicando una sempre più larga autonomia, che il Fossati fa partire fin dal sec. X, suggerendo una rivendicazione di indipendenza, assieme a Maderno, dall'imperatore Ottone I nel 969. Investiture vescovili andarono poi anche al comune di Toscolano. Cosi, ad esempio, il 14 febbraio 1446 veniva investito per nove anni della "X olei et rosiis".


La presenza della curia o corte vescovile portò al rafforzarsi, in epoca comunale, della fazione guelfa, che vide i toscolanesi partecipi in sempre più vasta scala nel territorio rivierasco e bresciano. Tra gli altri si distinguono un Baldovino Ugoni, fra i Rettori della lega lombarda; un Ioannes dei Calepini presente a Pontida il 7 aprile 1167; Bresciano dei Causidici, presente nel luglio 1196 ad Arco, presso il conte Federico, forse per stipulare accordi per i confini del Trentino; Bresciano de Pellecani, partecipante in Trento, nel dicembre 1148, all'accordo fra Odorico Pancera d'Arco e la Pieve di Bono da una parte e Nicola Lodrone dall'altra. Giovanni Bresciano di Toscolano è tra i firmatari nell'ottobre 1200 dell'alleanza tra Brescia, Pavia, Cremona, Verona ecc. Per la presenza di Giovanni Bresciani e di Pasino Boselli, Toscolano venne risparmiato dalla reazione di Brescia contro i Comuni di Valtenesi.


Nell'epoca delle Signorie, Toscolano seguì da vicino le sorti di Maderno, e mentre i Della Scala rivolsero la loro attenzione alla Valtenesi e alla Valsabbia, Toscolano puntò dal 1334 su Venezia, che si presentava come lo sbocco più promettente di quanti altri per l'industria della carta che si andava affermando, oltre ai prodotti dell'agricoltura (olio, limoni, ecc.), cercando e trovando in Venezia, scrive il Fossati, «un luogo aperto alle più disparate attività: operai di ogni ceto, marinai, contadini, in specie ortolani, lavoratori di specchi, librai, tipografi e medici vi prosperarono infatti in seguito, creando notevoli colonie, che si fecero onore e diedero lucro alla madre patria». Nelle lotte che continuarono a lungo fra gli epigoni delle fazioni, guelfi e ghibellini, e fra i simpatizzanti per Milano o per Venezia, non mancarono, tra i toscolanesi, vittime illustri, quali Paolo de Boselli, esiliato probabilmente per la sua avversione a Venezia e riammesso solo nel 1378, sotto cauzione, e Rizzardo Ugoni, abitante a Roina, che fu tra gli esponenti della fazione viscontea durante la guerra tra la Serenissima e Filippo Maria Visconti.


Toscolano, come Maderno, male sopportò poi il dominio visconteo, durato dal 1351 al 1426, ancor più per il fatto che, nel 1377, Beatrice della Scala, soprannominata Regina, moglie a Bernabò Visconti, decise di trasferire la residenza del governo della Riviera da Maderno a Salò. Fu talmente invisa Beatrice Regina, che i toscolanesi chiamarono "regina cagna" un simulacro in pietra che, come attesta il Fossati, «esistette su un parapetto al culmine del vecchio ponte di Toscolano e che fu demolito solo nel 1860». Nonostante ciò, il periodo di dominio visconteo, come sottolinea D. Fossati, «segna il passaggio di Toscolano dalla condizione agricola alla manifatturiera, perché, appunto verso la metà del secolo XIV, ebbe inizio la fabbricazione della carta che, promovendo la creazione del ceto operaio e la necessità di arti meccaniche, attrasse verso di sé la maggior parte della popolazione, dedita fino ad allora all'agricoltura, che era arrivata ad uno stato di rara floridezza; essa naturalmente volse in decadenza, ma per rialzarsi rigogliosa nei secoli successivi, quando i guadagni accumulati coll'industria si versarono a profitto dei campi, che si fecero intensamente produttivi».


Sebbene contermini, i Comuni di Toscolano e di Maderno furono sempre comunità civili, amministrative ed ecclesiastiche distinte e a volte rivali l'una l'altra. Così, ad esempio, nel 1381 «venne posto onorevole fine ad una controversia che si dibatteva da molti anni tra i Comuni di Toscolano e di Maderno concernente i rispettivi diritti di acqua del fiume e sull'alveo dello stesso. Pretendevano i toscolanesi di aver diritto di fare qualunque lavoro sull'alveo del fiume allo scopo di mantenere e fortificare la chiusa (travata) che determina poi la loro seriola in contrada delle Garde, "in contrada Garde seu uti dicitur ad zuchatam" che animava il molino comunale e negavano che pari diritto competesse a quei di Maderno per difendere e fortificare la loro zuccata presso il ponte vecchio attuale, la quale animava la roggia dei molini di Maderno e un'altra che attraversava il promontorio in tenere dello stesso Comune. La questione fu compromessa nell'arbitro, prudente e discreto uomo Tonolo, figlio del qm. Pederzolo Tebachi di Gargnano, con impegno di accettare ed eseguire il suo lodo sotto pena di fiorini d'oro 200 per ogni infrazione». Sempre in tale periodo, vennero raccolte, ordinate e scritte le consuetudini e le regole sulle quali le comunità basavano la loro esistenza e i rapporti all'interno e all'esterno delle stesse. Anche Toscolano si diede propri statuti dei quali, tuttavia, non è rimasto traccia. Vi è ricordo di toscolanesi che furono coinvolti nella redazione-sanzione degli statuti della Riviera. Con un Florioli fece parte della Commissione che aggiornò gli statuti della Riviera del 1334, un Delaido q. Nicolais. Fece pure parte del Consiglio Generale che li approvò (1386). Più tardi i toscolanesi Bartolomeo Faustini di Roina, Michele Danza di Cecina ed Erculiani q. Bartolomeo Belloni di Pulciano fecero parte del Consiglio che licenziò, nel 1586, l'edizione degli statuti daziari.


Consolidatosi il dominio veneto, con la ducale del 13 maggio 1426 del doge Francesco Foscari, che è considerata la Magna Charta della Riviera (poi dichiarata Magnifica Patria), anche Toscolano dovette per alcuni anni subire, fino al 1444, la continuazione della guerra fra Milano e Venezia. Tale situazione portò Toscolano a contribuire con armi e denaro per il sostegno della Serenissima e a riparare i danni inferti dal Marchese di Mantova, che nel luglio 1438 aveva occupato Salò e la Riviera. Sempre nel luglio, Toscolano contribuiva con volontari guidati dai madernesi Lancetta, a coprire la ritirata dell'esercito veneto verso il Veronese, sottoponendosi, al contempo, al blocco imposto dai Viscontei, padroni di Salò e di Maderno, e assieme rifornire per via montana Brescia assediata dal Piccinino. Certamente anche Toscolano fu coinvolto nell'impresa del trasporto sul lago della flotta veneziana che, calata attraverso il Monte Baldo per espugnare Salò e, trovandosi nel golfo di Maderno, venne assalita dai galeoni milanesi, quasi del tutto distrutta, salvo alcune imbarcazioni leggere che poterono rifugiarsi a Torbole, mentre truppe milanesi scese dai monti, facevano numerosi prigionieri veneti, compreso il loro capitano M. Taddeo d'Este. Le vicende di guerra ebbero termine nel giugno 1440, quando Francesco Sforza, generale in capo dell'esercito veneto, liberò la Riviera e concluse la guerra. Mentre venivano intraprese opere di difesa, dal 1449, per 25 anni, Toscolano rimasta ai margini di continue nuove contese fra il Ducato di Milano e la Repubblica Veneta del 1448 e del 1451, poté dedicarsi alle opere di pace, sviluppando sempre più la sua agricoltura e le sue attività manifatturiere, specialmente quelle della carta e del ferro. Documentata è anche, nel 1526, la presenza di commercianti di carta e stracci ebrei, quali un certo Salomone.


La creazione di un vicariato e di quadre con centro a Maderno fu, a non lungo andare, motivo di mortificazione e di rivalità per Toscolano e, come scrive D. Fossati, «diede occasione a liti diuturne, ma mai ben definite col Comune di Toscolano e con quelli della Riviera alta, aizzati questi, sottomano, dai Provveditori di Salò, i quali naturalmente tendevano ad aver in proprie mani anche la sovranità giudiziaria. Maderno, con una sentenza dell'aprile 1479, ebbe ragione contro Toscolano, che nell'anno precedente con maneggi e con soprusi aveva ottenuto di poter rendere giustizia a prescindere dal Vicario madernese, almeno fino a una certa somma (4 ducati); ancora un secolo dopo continuavano le contestazioni tra i due Comuni contermini e un po' rivali». Per decenni di laborioso progresso, uniche pause di rilievo furono visite illustri, come quella dell'imperatore Federico III, del 1489, che fruttò in premio a due membri della famiglia Pilati di Toscolano, trasferitasi poi a Trento, il titolo di conte.


Anni di pace servirono ad aprire orizzonti culturali anche a Toscolano. Con Gabriele di Pietro e, poi, con i Paganini (v.), Toscolano divenne uno dei centri di cultura più prestigiosi. Né fu trascurata l'istruzione popolare. Si deve a don Francesco Grisetta l'istituzione, agli inizi del '500, di una scuola, continuata poi da don Bartolomeo Gozzi e da altri sacerdoti. Su Toscolano e su Maderno puntava la sua attenzione, nel 1543, Iacopo Bonfadio, cullando il sogno di istituire sulla Riviera un'accademia per leggere le opere di Aristotele e attendere alle lettere. Nel 1573 Bartolomeo q. Giulio Monselice disponeva di suoi beni per mantenere sacerdoti che insegnassero ai giovani la grammatica italiana e latina. Si allargava anche lo spazio della carità e della beneficenza. Nel 1504 Daniele Setti disponeva una soma di frumento da distribuire ai poveri e lasciava una casa con orto al Comune. Compartecipazione manifesta alfine vi fu anche in seno alle cariche pubbliche: lo attesta il fatto che nel 1547 il Consiglio madernese deliberò l'istituzione del Monte di pietà, operativo con proprio notaio, un conservatorio dei pegni e un massaro: il fine, sottrarre i più bisognosi alle esosità dei prestatori di denaro. L'iniziativa, come ha sottolineato il Lonati, appare lodevolmente sollecita nell'ambito provinciale, soprattutto se si considera che i primi Monti dei pegni istituiti in Lombardia sorsero a Milano e Mantova nel 1483, nel 1490 a Brescia. Nel 1552 Bartolomeo Tononi disponeva la dispensa, per un intero anno, di pane ai poveri; la stessa provvidenza imponeva Luca Setti con testamento del 1579, aggiungendo anche la distribuzione del vino. È del 1592 il legato di Zuane Zuanis per la dote alle fanciulle povere da marito. Nel 1630 Giuseppe Botti di Cecina istituiva un legato per la distribuzione del sale ai poveri, mentre, in seguito, altri benefattori disponevano somme per la provvista di medicinali, di pane e per l'affitto di case. Inoltre venivano destinate zone di montagna per il pascolo e per la legna. Anni di splendore ebbe Toscolano, testimoniato dalla costruzione della nuova chiesa parrocchiale (1584-1586), arricchita sempre più di notevoli opere d'arte. Da parte sua il Da Lezze, nel Catastico del 1609-1610, ne dà concisa descrizione idillica, scrivendo «qui sono giardini et gli abitanti [si dedicano] alla mercantia della carta in gran quantità, olio d'oliva, cedri, limoni et simili». Agli inizi del 700 tornarono venti di guerra. Per fortuna breve fu il conflitto per la successione spagnola. Nel 1706 il maresciallo francese Vendôme, vinti gli austriaci a Calcinato, li obbligò a darsi alla fuga. Fu così che parte di essi si diresse verso la Riviera e, attestatisi a Bornico, tempestarono di proiettili gli assalitori. Fu un combattimento accanito di quattro ore, nel quale i franco-spagnoli ebbero gravi perdite e furono costretti a ritirarsi. Il giorno dopo gli austriaci continuarono la ritirata, ma, non potendo trasportare per le erte strade di Tignale e di Tremosine sei grossi cannoni e le salmerie, li gettarono nel lago, a Maderno. Nel frattempo i francesi, saccheggiati Salò, Gardone e Fasano si acquartierarono a Maderno e a Toscolano, senza però recare molti danni. Gli abitanti di quest'ultimo paese furono convinti di aver avuto la protezione di S. Giorgio e fecero dunque voto di pellegrinare ogni anno alla chiesa dedicata al Santo, in segno di devoto ringraziamento.


Durante i sec. XVII-XVIII se, come scrive il Fossati, la famiglia Delay fu «l'unica che per titolo, aderenze e ricchezze avrebbe potuto erigersi a sopraffazione, era invece dedita alle industrie, ai commerci e alla beneficenza e si dilettava di feste e di conviti». Non mancarono però anche in Toscolano elementi turbolenti, quali un giovane Graziali legato al conte Camillo Martinengo Cesaresco, abitante a Barbarano, e un tale Zuanelli, parente e "compare" del famoso conte e bandito Alemanno Gambara. Le loro famiglie, scrive il Fossati, furono «due nidi di prepotenti attorniati da gente di mala vita e da scherani che tenevano in frequenti allarmi il paese, così chè il Comune dovea mantenere un corpo di Guardie, che stanziavano anche sui campanili in vedetta, e prendere anche altri provvedimenti contrari alla libertà e al quieto vivere».


Se la violenza fu in sostanza appannaggio di alcuni, la peste del 1630 fu una gravissima calamità per tutti. Quando se ne profilò il pericolo, vennero posti steccati agli ingressi del paese, alla guardia dei quali vennero deputati Pietro Antoni Belloni, Antonio Zuanelli e Giacomo Fassina. Tuttavia ogni salvaguardia non riuscì ad evitare che su 2000 abitanti vi fossero 1204 morti, che venivano sepolti nei giardini del paese. Singolare fu il fatto che alcune famiglie (Avanzini, Colombo, Spagnoli) vennero risparmiate per intero, altre invece (Vicari, Bertolazzi, Andreoli, ecc.) si estinsero addirittura. La peste ispirò nuove opere di beneficenza e di devozione, quale, nel 1647, il legato di Giorgio Aquilani per la dispensa del pane e del sale per i poveri. Seguirono decenni di tranquillo progresso, durante il quale prosperò particolarmente l'industria della carta, si moltiplicarono le limonaie, si sviluppò l'edilizia. Comparve anche l'arte, con Andrea Celesti, che, giunto da Venezia e sposatosi in Toscolano l'8 gennaio 1688 con la veneziana Martina Davagni, arricchì la chiesa parrocchiale e i palazzi di Toscolano con prestigiose opere d'arte. Nell'inverno, per altro freddissimo, del 1705-1706 gli imperiali posero l'accampamento fra Gargnano e Salò e perciò anche a Toscolano.


In fondo, nonostante le tragiche parentesi di guerra e peste, i sec. XVI-XVII-XVIII furono di progresso e di civiltà. Il Fossati ascrive a Venezia particolari meriti, tra i quali l'avere provveduto, «tra la congerie degli ordinamenti amministrativi-finanziari instaurati, all'impianto dei Registri Censuari, così opportuni per identificare le proprietà e per accertare i continui suoi trapassi ed anche a stimolare la coltura e il miglioramento delle terre». Un ordinamento fu emanato nel 1562, «in virtù del quale i Comuni era obbligati a far lavorare i beni incolti propri e ad assumere pure quelli lasciati in abbandono dai proprietari».


Per questi e per molti motivi, anche se i toscolanesi, come i madernesi, si permettevano di chiamare "el gat" il leone di S. Marco eretto sulla colonna della piazza di Maderno per la pochissima somiglianza con il re della foresta, nel momento del tracollo della Repubblica, la fedeltà a Venezia rimase tetragona. Tale fu anche dopo che le truppe napoleoniche, nel 1796, diventarono padrone dell'alta Italia e anche a Toscolano non mancarono, nel dicembre, nuove paure di guerra, per la presenza dei francesi e per le scorrerie degli austriaci. In effetti Toscolano parteggiò per Venezia fino all'estremo, accorrendo, come scrive il Fossati «in massa alla difesa di Salò invasa dagli armati del Governo provvisorio giacobino e dalle truppe repubblicane». Di Toscolano era il dott. Giuseppe Sgraffignoli «uomo di alto intelletto e di grande autorità, il quale fu a capo del governo civile della Riviera appunto negli ultimi giorni della agonizzante Repubblica, nei momenti di abbandono delle autorità venete e nei giorni della fiera resistenza contro i bresciani alla quale aderì e subì in conseguenza, più d'ogni altro, le vendette dei vincitori, colla confisca dei beni e la condanna a morte, scampata colla fuga; venne sottoposto a processo anche un Bortolo Archetti, di Toscolano, ma la condanna rimase sospesa».


Il Fossati poi attribuisce questo atteggiamento non solo all'attaccamento secolare per Venezia «benemerita tutrice dell'indipendenza della Riviera», ma anche all'«aborrimento della città, cioè di Brescia, l'eterna nemica avida di sottoporre la rivale e di pesare crudamente sul suo capo. E come l'affetto e la repulsione avevano avuto origini remotissime ed erano stati mantenuti vivi da quotidiane occasioni e vicende, così tale affetto e tale odio, passati nel sangue di tante generazioni, erano penetrati a formare parte del carattere dei benacensi; l'avversione alla città si è spenta solo alla fine del secolo scorso e cioè dopo quarantacinque anni di dominazione austriaca e dopo quaranta di unità nazionale».


Quando la rivoluzione giacobina prevalse, alcuni toscolanesi dovettero prendere la via dell'esilio. Qualcuno tornò in seguito all'amnistia. Da essa fu escluso Giuseppe Sgraffignoli, al quale furono confiscati tutti i beni e comminato il bando perpetuo. Subentrarono per Toscolano, scrive ancora il Fossati, dal 1787 al 1802, anni di «vera miseria: chiuse tutte le cartiere, chiusi i filatoi di refi e le Cure di Salò, chiusi i mercati di Germania agli agrumi e all'olio, consumate e sperperate le altre derrate dalle truppe, le popolazioni vissero in ristrettezze incredibili e patirono la fame». Difficili furono anche i lunghi mesi (1798-1800) dell'occupazione austro-russa, durante i quali si scatenarono le vendette dei filo-veneti. Si andò gonfiando il fenomeno del brigantaggio, «fomentato dalla sospensione delle industrie e dei commerci, dai mancati raccolti e dallo spirito di vendetta contro il partito Cisalpino». Di un centinaio di rivieraschi, che gli austriaci arrestarono e spedirono alle carceri di Sebenico e di Petervaradino, vi furono anche due toscolanesi che erano stati tra i pochissimi ad abbracciare la causa giacobina e cioè il dott. Giovanni Maria Avanzini (morto poi nel 1837) e il legale Giov. B. Fondrieschi q. Francesco. Tornato Napoleone, instaurata la Repubblica Italiana (1801), a far parte dei Comizi di Lione venne chiamato anche l'industriale toscolanese Giacomo Andreoli q. Donato.


Negli anni di pace che seguirono si registrò una ripresa delle attività economica e commerciale, delle industrie e dell'organizzazione amministrativa. Frutto di tale sia pur passeggera ripresa furono la costruzione di un porto commerciale e di un cimitero (1810) per tutte le frazioni. Alcuni toscolanesi, tra i quali il col. Pietro Grisetti, Alemano Zuanelli, Antonio Samuelli combatterono nelle armate di Napoleone in Spagna, Germania e Russia traendone motivo di orgoglio e di vanto per tutta la vita. La fine di Napoleone si consumò in un nuovo rapido declino economico, nel reclutamento forzato per le continue guerre e specie per la sciagurata campagna di Russia. Toscolano venne inoltre coinvolto negli ultimi scontri tra l'esercito francese e quello austriaco, sceso dal Trentino. «Fu in queste tardive ed ultime battaglie - scrive il Fossati - che il nostro paese assistette a due combattimenti, uno sull'acqua e l'altro a terra. Nel 16 febbraio 1814 il vicerè Eugenio, preso Salò, cacciava gli austriaci, che vennero cannoneggiati dalla flottiglia francese mentre si ritiravano lungo la strada aperta del Rovinato di Maderno; il 7 marzo i francesi, con sette legni armati, battevano gli austriaci di fronte alla Capra (promontorio) di Toscolano, lasciando ferito il proprio comandante capitano Tempie. Cacciate da Salò, le fanterie austriache si erano trincerate sulla sponda sinistra del nostro fiume, del quale avevano barricato il ponte, come avevano innalzati terrapieni nel prato Zuanelli, allora del Comune (lungo l'argine sinistro, dove ora esiste la strada di collegamento dei due ponti e dinanzi alle monache di S. Benedetto e giù fino all'oleificio già Setti, poi Ciscato); il 17 febbraio gli italiani dell'armata reale respinsero dal Rovinato e da Maderno gli austriaci e attaccarono il ponte di Toscolano, schierandosi sul Solino e sulle colline del Monte Castello e sfondando le barricate del ponte, mentre i dragoni della Regina guadavano il fiume al molino di Maderno e prendevano di fianco e alle spalle gli austriaci, i quali, gettate le armi, fuggirono per la via di Gargnano e si sbandarono sui monti. Erano poco più di un migliaio per parte: i francesi, il giorno dopo, sgomberarono, poi fecero ritorno, poi abbandonarono ancora il paese, continuando questo giuoco inutile sino alla fine d'aprile, con poca soddisfazione di Toscolano e anche di Maderno sottoposti, giorno per giorno, a contribuzioni di viveri, legna, vino, fieno ecc.».


Retaggio della fine dell'età napoleonica furono la strada della fame e il tifo petecchiale. Ma ad ascoltare il Fossati i trent'anni che seguirono fino al 1848 furono «di tranquillità e di lavoro industriale ed agricolo e vanno segnati per una straordinaria prosperità economico-sociale di Toscolano, che spese molti capitali in costruzione di giardini d'agrumi, in cerchiare di mura ampi terreni, in rifare e abbellire abitazioni, ampliare cartiere ed inoltre accumulò tanti capitali da poter far fronte alla crisi del 1848-49, e alle successive ben più gravi e durate parecchi anni, derivate dalla malattia della vite, del baco da seta, del limone e dell'esuberante produzione di carta».


Sono anni nei quali Toscolano registrò anche fermenti nuovi, culturali e politici. Nel 1818 Faustino Andreoli, fabbricante di carta, Pietro Fossati, cancelliere presso la Pretura di Salò, Felice Consolini, Pietro Maffizzoli, Stefano Moggi (o Mozzi), Pellegrino Pellegrini di Maderno si unirono per acquistare un campo su cui erigere un teatro ove recitassero i dilettanti del paese ed il capocomico Pietro Samuelli. Tutti i sunnominati erano tenuti d'occhio dalla Polizia per i sospetti che in essi si annidassero i componenti della XI Falange. Infatti il 19 marzo 1821 l'I.R. Delegato Provinciale denunciò alla Direzione generale di Polizia «l'esistenza nel comune di Toscolano di una unione di Carbonari la quale vuole intitolarsi l'Undecima falange del Benaco e vuolsi di più che un certo Anelli di Lombardia possa appartenere alla società». Le immediate ricerche registravano che Pietro Samuelli sarebbe stato il bidello di tale società, ma egli risultò non essere altro che un negoziante di stracci con la sola passione per le recite; tutto si perse come una bolla di sapone. I sospetti tuttavia continuavano e si riversarono contro i promotori della filodrammatica che si «sono pronunciati pel giacobinismo e due di loro Andreoli e Fossati sono vecchi massoni». Nuove indagini portarono ad escludere che la filodrammatica servisse in paravento alla Undecima Falange. Tuttavia la Polizia austriaca non demordeva e ritornava a cercare il confidente che aveva fornito le prime notizie. Su sua indicazione, in ragione di nuove confidenze avute dal Samuelli, si scoprì tale Calcinardo che venne interrogato e che offrì una versione diversa delle cose, per cui il Delegato di Brescia, Brebbia, assicurava la superiore autorità che non esistevano società segrete.


Ma Toscolano ormai era nelle mire della polizia e quando da alcune persone del paese «marcate per i loro principi politici» si chiese di poter istituire colà un Casino di società, l'autorità non concesse il permesso. Il Samuelli, arrestato più tardi per la stampa e la diffusione di false cedole austriache, negò ancora e la XI Falange del Benaco rimarrà, come ha rimarcato Luigi Re che ha ricostruito le vicende, sempre «l'araba fenice per la polizia». Tuttavia Re aggiunge che «se non esisteva di nome, esisteva di fatto. Brescia e la sua provincia era un folto vivaio di cospiratori. Qualcuno era stato arrestato. Altri arresti si dovranno eseguire ed un Giuda farà più di cento nomi che impressioneranno la Commissione speciale che sospenderà i processi. Quanto allo spirito pubblico di Toscolano l'ultima precisa parola è detta in un rapporto del Commissario Sartorio del 3 ottobre 1822: "Toscolano ha in sé stessa chi può ispirare il veleno delle massime liberali. Toscolano, che ogni giorno va diventando più doviziosa, può avere nelle stesse sue ricchezze il fomite ed il mezzo per condursi al sovvertimento e nelle strette relazioni colle quali legano fra di loro quegli abitanti, può trovare l'opportunità per nascondere una trama"». Il vice re il 25 luglio 1823 "visitò le cartiere e minutamente quella della famiglia Samuelli, i magazzini dei fratelli Andreoli (che odore di carboneria!), ove ammirò «diverse qualità di carta velina anche di straordinarie dimensioni che mediante le nuove macchine attivate nelle fabbriche di questa famiglia vi si costruiscono» e visitò pure il grandioso giardino di agrumi della famiglia Maffizzoli".


Di un club di carbonari o della XI Falange si ritornò a parlare nell'ottobre 1830 e nuove denunce fioccarono nel marzo 1831, quando la polizia si convinse che tale società si trovava in relazione coi carbonari di Brescia, della Franciacorta, del Bergamasco, di Cremona, di Pavia, degli altri centri politici di Lombardia, costituenti l'associazione della Giovine Italia. In verità si trattava di uno sparuto numero di toscolanesi che frequentava la villetta alle Selve dell'ex ufficiale napoleonico Pietro Grisetti (v.); come ha scritto il Fossati, «la polizia austriaca, che sorvegliava oculatamente questo nido, non poté cogliere alcuno dei nostri, eccettuato il padrone di casa, che perdette la pensione, fu carcerato e, fuggito, andò lungamente ramingo in Italia e all'estero, donde ritornò e finì i suoi giorni nel diletto romitaggio nel 1847».


In sviluppo invece fu l'attività culturale e la vita di società. Oltre alla banda che sembra abbia continuato a lungo vestita con divise napoleoniche, il 29 agosto 1824 veniva fondato il "Casino di società" o meglio la "Società del casino di Toscolano", con il dichiarato scopo di «riunire in apposito e conveniente locale i soci a piacevoli convegni, alla lettura dei giornali, riviste scientifiche e letterarie». Accanto alla lettura dei giornali, cui la società si abbonava regolarmente («Nella sala lettura dovranno stare sui tavoli i due ultimi numeri dei giornali, e non è permesso leggere ad alta voce, giocare o discutere in modo da disturbare i lettori»), era naturalmente prevista la possibilità del gioco. Per il biliardo «nessuno potrà giocare più di otto partite di seguito, e per ogni partita ai 24 punti si pagano cent. cinque», mentre per le partite a «Carambola Parigina o Bazica, le compagnie avranno la preferenza sui giocatori individuali». Per gli altri giochi, i partecipanti dovranno pagare una tassa di cent. 5 per «non più di tre partite alle carte, dama o domino». Anche la musica era evidentemente gradita ai soci e al casinò si tenevano spesso concerti, con l'avvertenza che «la chiave del cembalo verrà custodita dal bidello, il quale non dovrà darla se non a chi notoriamente sa suonare». Feste e accademie musicali tenne di solito al Casino l'orchestra salodiana dei fratelli Giuseppe e Francesco Bruni. Per una di queste accademie del 26 marzo 1840 il poeta A. Marchiori scrisse una romanza inneggiante alla concordia fra Salò e Toscolano.


Ma la musica e i divertimenti non erano la faccia vera della vita economica e sociale. Infatti predominavano il lavoro duro delle cartiere e le condizioni delle folle ancora consistenti di contadini, di boscaioli, di carbonai. La più evidente manifestazione dei disagi fu l'epidemia di colera del 1836, che fece numerose vittime, tanto che, quando il flagello ricompariva nel 1855, la popolazione ricorrerà direttamente, con voto solenne, alla Madonna di Benaco. Di tale voto è ancora testimonianza la statua dell'Immacolata inaugurata davanti al santuario nel 1858. Nuovi fermenti culturali e politici maturarono nel 1848, quando non furono pochi coloro che andarono ad ingrossare le file degli insorti e quelle dei Corpi Franchi che frequentarono anche la Riviera gardesana. Fra i toscolanesi il Fossati ricorda: «Federico Maffizzoli, che prese parte al blocco di Mantova nel corpo universitario, Andrea Maffizzoli, Giuseppe Zaninelli, Pietro Fossati, Luigi Camozzini e parecchi altri che più non ritornarono, mentre i ricchi versavano contribuzioni in denaro e il Comune contraeva debiti per mantenere la guardia civica e alimentare i Corpi Franchi, i quali stanziarono per più mesi ad intervalli alle Camerate, a Gaino e nel Centro. Il corpo di Luciano Manara guidato da Carlo Pisacane si fermò a lungo nella conca delle Camerate, prima di dirigersi a Trento per la Valle di Vestino, e i chiassosi bivacchi di Segrane erano interrotti e rallegrati dalle classiche melodie e dagli inni patriottici che si spandevano dalla chiesetta al cui organo il Pisacane, colto musicista e abile suonatore, sedeva a lungo, tra l'entusiasmo dei compagni».


Il decennio che seguì alla rivoluzione del 1848 fu anche per Toscolano di attesa della liberazione dall'Austria, ma, contrariamente a quanto avvenne altrove, scórse nel segno di un patriottismo moderato. Come scrive il Fossati: «Non ebbero presa e non fecero quindi proseliti da noi le società segrete, lo stesso Mazzini vi era poco conosciuto, poco nominato, ma conosciutissimi erano invece i ministri, i generali e i principali uomini politici del Piemonte, sui quali convergevano gli sguardi di tutti». L'indipendenza nazionale sotto la guida della monarchia animò sempre più non pochi toscolanesi, alcuni dei quali, come Pietro Fossati, due fratelli Belponer, Luigi Zuanelli, unitisi ad altri di Maderno, espatriarono in Piemonte per arruolarsi nell'esercito regio. Dopo la vittoria di Magenta (giugno 1859) Toscolano conobbe la presenza dei volontari garibaldini e quella dell'artiglieria piemontese che, alla foce del fiume, piantò le proprie batterie.


Quelli a cavallo della metà del secolo non sono solo anni di fermenti politici e di avvenimenti bellici, ma anche di sviluppo sociale e civile. Già nel 1850 Toscolano è fra i primi centri della provincia ad avere un ufficio postale. Nel 1851 viene fondato l'Istituto Bonetti, che, oltre a mantenere una scuola nella frazione Messaga, elargisce due pensioni annue a favore di giovani che si dedicano a studi universitari, somministra medicinali agli infermi e doti a nubende (patrimonio netto circa Lire 90.000). Nel 1863 un gruppo di toscolanesi, fra i quali l'arciprete don Grana, fonda una delle prime società di Mutuo soccorso della provincia. Toscolano è negli anni dal 1859 al 1866 punto di riferimento del partito d'azione, intento alla liberazione del Veneto. Scrive sempre il Fossati: «Il giorno della Battaglia di Solferino e S. Martino (narrava a me, ragazzo, Luigi Camozzini vecchio operaio formetta, reduce del 1848) tutti i tetti delle case di Toscolano erano gremiti di gente che figgeva lo sguardo allo sfondo del lago, ai colli ad esso degradanti segnati dalla vetusta rocca dei Gonzaga, spia d'Italia e sussultava al rumoreggiar sordo del cannone lontano, ma senza apprensione, perché certa della nostra vittoria». Con l'armistizio dell'11 luglio 1859, firmato a Villafranca dai generali Della Rocca, Vaillant e Hess, fu stabilito che le truppe franco-sarde osservassero la linea di confine passante per Bagolino, Lavenone, cresta che separa Val Degagna da Val Toscolano e finisce a Maderno; mentre quelle austriache, tenendosi a distanza da detta linea per un determinato territorio dichiarato neutro, raggiungessero Toscolano. In tal modo Toscolano rimase austriaca ancora per qualche tempo, fino alla pace di Zurigo. In quei mesi al ponte vecchio fu installata la ricevitoria doganale.


Dal 1859 al 1866 ospitò profughi veneti. Nel frattempo, dietro incitamento di Garibaldi, fu tra i primi centri della provincia a costituire una Società del Tiro a segno. Scoppiato il conflitto del 1866, Toscolano, come tutta la Riviera, visse altri mesi di emergenza. La minaccia più seria veniva dal lago, dove predominava la flotta austriaca. Il 19 giugno 1866 giunge Garibaldi in visita alle batterie collocate sul promontorio; ritorna poi il 21 giugno spingendosi fino a Gargnano. Un diario registrato dal Fossati annota l'arrivo il 21 giugno a Toscolano e a Gargnano del II reggimento comandato dal col. Spinazzi e il 23 giugno un'azione di guerra a mezzogiorno: «quattro cannoniere austriache fanno fuoco sulla batteria di Promontorio, che risponde con una quarantina di colpi danneggiandole e costringendole a ritirarsi; il 24 giugno, la batteria di Promontorio respinge a S. Vigilio un piroscafo austriaco ed una cannoniera discesi da Riva; il 20-21 luglio le batterie di Maderno-Toscolano tentano invano di impedire ai piroscafi austriaci la quotidiana rotta Peschiera-Riva e viceversa».


Seguono anni di faticosa ripresa, ma anche di vivaci polemiche politico religiose per Roma capitale e, in seguito, per il "non expedit". Il Fossati vanta un lungo periodo di pace sociale. Egli scrive: «A Toscolano ed in altri paesi della Riviera del Lago, il partito clericale non esistette, anche se vi fu qualche anima turbata per il dissidio politico-religioso, poiché da noi non poteva tentennare il tricolore colla croce di Savoia e il nostro popolo praticò sempre la religione sincera fatta di fede e di sentimento, ma non quella ispirata dagli interessi materiali o intinta di pregiudizii e di bigottismo. Nemmeno gli stessi sacerdoti furono da noi clericali, ma bensì innanzi tutto apertamente italiani, devoti alla monarchia nazionale». Tra questi ultimi egli elenca l'arciprete don Antonio Bignotti (m. nel 1888), don Andrea Cipani, don Bezuglio, don Giuseppe Amolini, curato di Toscolano per oltre quarant'anni, don Domenico Ambrosi, arciprete di Salò, don Bortolo Bellicini, parroco di Gardone Riviera, don Pietro Grana, arciprete di Toscolano per oltre cinquant'anni, il quale, come scrive il Fossati, nel 1878 «nella archipresbiterale di Toscolano commemorò, con ispirata parola, Vittorio Emanuele II e ne ebbe rampogne e dispiaceri, ma non piegò e nel 1887 e nella stessa chiesa, con un altro nobile discorso, commemorò i caduti di Dogali».


Non mancano negli stessi anni opere di pace. Nel 1867, con la valida cooperazione dell'arciprete don Grana, veniva istituito l'asilo infantile, al quale l'anno seguente Giovanni B. Visintini donava il bel fabbricato di via Trieste. Nel 1873 venne realizzata la strada che collegava Toscolano con Maderno (l'attuale statale). Nel 1874, per iniziativa d'industriali cartai, con una strada di 3 km e mezzo incassata nella montagna e scavata sul fianco della stessa, la valle delle cartiere venne allacciata al paese. Nel 1887 Toscolano fu tra i primi centri della provincia a registrare la nascita del Patronato Scolastico con una sessantina di soci. La vita amministrativa e politica continuò ad essere contrassegnata da vivacità, tanto da provocare, nel 1880, inchieste delle Prefetture sull'amministrazione comunale. Alcuni personaggi assunsero incarichi di prestigio. G.B. Visintini fu deputato al Parlamento; Claudio Fossati fu consigliere provinciale; Donato Fossati fu presidente della Deputazione Provinciale, ecc.


Nel 1883 alcuni personaggi del luogo, fra i quali l'industriale Carlo Visintini (che ne venne eletto presidente), Ferdinando Bentivoglio e Francesco Mozzi fecero rivivere il Casino, ma con scopi ben diversi da quelli della precedente edizione e cioè, più che altro, come casa di gioco o "casinò". Come ha osservato Marcello Zane, «L'ingente tassa d'iscrizione (fissata in lire 15, unitamente a rate trimestrali incredibilmente fissate in lire 5 ciascuna), l'obbligatorietà ad accettare le eventuali cariche elettive, pena il pagamento di salatissime multe, i giochi stabiliti dal regolamento, indicano nei soci frequentatori il casinò di Toscolano i personaggi più in vista della borghesia gardesana, che solamente più tardi, agli albori del nuovo secolo, si sposteranno per il loro divertissement nel nuovo casinò di Gardone Riviera. Al casinò si tenevano regolarmente sontuose feste da ballo "cui non potrà essere ammesso alcun forestiero senza speciale invito stampato", mentre, recitava il regolamento, "in occasioni straordinarie e di feste patriottiche, di ricevimento di persone distinte, la direzione avrà facoltà di invitare estranei alla società"».


Uno specchio della situazione si legge sui giornali nel 1883: «L'acqua potabile è buona ma scarsa, le abitazioni sufficienti e munite quasi tutte di latrine. Esistono 2 cimiteri. Dal 1882 vige il regolamento d'igiene, dal 1877 quello di polizia mortuaria. V'hanno 2 farmacie, 2 medici condotti, una levatrice. Nel quinquennio furono 266 i vaccinati, 260 i rivaccinati; 131 giovani vennero visitati alla leva militare, 43 di essi furono riformati, 2 volte si verificarono casi di colera». Naturalmente si tratta di dati di facciata che non rispecchiano la situazione delle masse sempre più folte di lavoratori nelle cartiere, ma particolarmente nelle aziende tessili, dove le operaie hanno retribuzioni di un decimo di salario in confronto a quello pur modesto degli operai cartai. Nessuna meraviglia che sulla fine del secolo serpeggiasse il socialismo, che trovò esca nel «malcontento per le misere paghe date agli operai ed operaie». L'annuncio, vergato dalle colonne de "Il lavoratore bresciano" del gennaio 1894, esortava alla presenza sul posto di «alcuni compagni da fuori per istituire anche fra questi lavoratori un fascio che valga ad amalgamarli ed ottenere migliori trattamenti». Le minacce di licenziamento da parte dei proprietari delle diverse cartiere della zona e la scarsa unità dei «buoni compagni, ma divisi ed incerti», fanno cadere nel vuoto le esortazioni del corrispondente firmatosi Pino. Solamente nel febbraio 1898 la "Brescianuova", in una breve corrispondenza da Toscolano, annuncia come «anche in questa borgata, dove l'industria va man mano sviluppandosi, l'idea socialista trova sempre più terreno adatto». Nel marzo dello stesso anno viene ufficialmente aperto il nuovo circolo socialista di Toscolano, che, dotatosi di sede e vessillo, inizia immediatamente un'intensa opera di propaganda, a partire dall'organizzazione dell'imminente festa del 13 maggio.


Segno di progresso, nel 1898, fu l'adattamento delle strade alla linea tramviaria. Ma s'imponeva pressante la costruzione di una strada provinciale Gardone Riviera-Toscolano in grado di poter ospitare la stessa linea. Ancor più segnava un positivo progresso l'inaugurazione nel marzo 1899 dell'impianto idroelettrico delle Camerate, costruito dalla Società Elettrica di Salò "con canale di presa di m 1300 e con due gallerie, capace di una portata media di 1.200 litri, per produrre 1.500 cavalli normali". Sulla fine dell'800 sorse sul lungolago di Maderno la villa Margherita, che nel 1909 si trasformò nell'Hotel Bristol. Questi negli anni '30 cessò l'attività e lo stabile venne acquistato dal Consorzio Antiturbercolare della provincia di Cremona per adibirlo a preventorio di malattie tubercolari per bambini cremonesi. Dal 1943 al 1945 fu adibito a "foresteria" del Ministero dell'Interno della R.S.I. Nel 1999 fra l'Amministrazione Provinciale di Cremona e l'Istituto Ospedaliero di Sospiro (Cr) fu sottoscritto un contratto per la cessione dell'edificio per la durata di 99 anni per l'utilizzo del fabbricato da parte dell'Istituto. I lavori di ristrutturazione dello stesso, iniziati nel 2002, sono tuttora in corso.


Nei primi anni del '900 si andò intensificando il "movimento forestieri", cioè il turismo, che aumenta già dal 1912. Assieme, i giornali possono proclamare, nel settembre, "Toscolano che si abbellisce". Nel 1903 in località Selve accanto alla villa Maffizzoli, su progetto dell'ing. Giacinto Bianchi, con la collaborazione del prof. Arturo Cozzaglio e per munificenza dei Maffizzoli, sorgeva un nuovo asilo infantile per la zona di Gaino, affidato alle Ancelle della Carità. Come riparazione alle alluvioni che colpirono Toscolano e molti altri paesi nel 1905-1906, il 30 giugno 1906 il Consiglio provinciale approvava e finanziava il progetto di un nuovo ponte sul fiume Toscolano e opere di sistemazione del tronco stradale Toscolano-Gargnano.


Sotto la guida dell'arciprete don Giulio Samuelli e poi del curato Giovanni Fava, al movimento socialista si appaia un crescente ed organizzato movimento sociale e sindacale cattolico, particolarmente diffuso fra le operaie tessili. Nel 1907 affrontò il problema del riposo festivo e poi allargò la sua attività a più ampi problemi sindacali; già nel 1908 l'Unione Cattolica del lavoro era viva in prevalenza negli stabilimenti tessili. Nasceva la Società Operaia Cattolica Femminile di Toscolano-Maderno, che nel 1911 si dava uno statuto pubblicato dalla Tipografia Queriniana.


Segno di tempi nuovi furono le attività sportive: dal 1902 fino al 1914, si moltiplicavano le gare di tiro a segno e l'attività della Società Ciclistica, già attiva nel 1908. Nell'aprile 1904 fu l'Audax Italiana, sezione Brescia ad organizzare a Toscolano feste ciclistiche di beneficenza, con la partecipazione della Forza e Costanza. Nel 1905 comparve, per i tipi di Devoti di Salò, lo statuto ed il regolamento della Società Canottieri "Benaco" fra i paesi di Toscolano, Maderno e Gardone Riviera. Il 12 settembre 1910 la Società Sportiva di Toscolano presieduta da Fausto Simonelli inaugurava, con il supporto della Forza e Costanza, il suo vessillo. Già esisteva, inoltre, una "vasta palestra" e l'attività si faceva sempre più intensa. Nel 1912 Ferdinando Bentivoglio lasciava gran parte della sua sostanza in soccorso alle madri povere che non potevano allattare i figli, e per l'erezione, però mai avvenuta, di un ospedale.


Esplicitamente il Fossati scrive che a Toscolano, come nella Riviera, l'intervento nella I guerra mondiale "non ebbe numerosi fautori" e che un suo discorso interventista al Teatro Sociale di Salò, nel dicembre 1914, venne accolto più con plauso di favore che di convinzione". Dichiarata la guerra, Toscolano si trovò nella zona di sbarramento e nella retrovia del fronte, con affollamento di profughi e anche di truppe in movimento verso la non lontana zona di combattimento e il paese schierò tutte le opere ed iniziative di assistenza alla popolazione e ai soldati combattenti. Le vittime della guerra e non solo i caduti al fronte, ma anche i civili colpiti dalla febbre spagnola furono parecchi e davanti alla chiesa parrocchiale fu eretto loro un monumento, opera di Pietro Clerici di Como: una statua in bronzo, simboleggiante l'Italia armata che incorona i suoi eroi. Alla Vittoria venne dedicato il viale del nuovo ponte eretto nel 1909. Tra i due ponti venne ricavato il Parco della Rimembranza. A ricordo dei caduti venne eretto, nel cimitero, un grande lapidario che copre le tombe delle salme dei soldati riportate dai fronti. La ripresa del Dopoguerra fu piuttosto lenta e registrò poche novità, tra le quali spiccò nel 1922 la costruzione del tronco tramviario Toscolano-Gargnano. Il centro gardesano registrò parecchi momenti di disagio e di scontri sociali. Le forze politiche attive, mentre si dileguava la presenza liberale, erano la socialista e la cattolica. La prima ebbe i suoi esponenti nel movimento sindacale. particolarmente forte fra i cartai; la seconda si espresse nel Partito Popolare e nell'Unione del lavoro, piuttosto notevole fra le operaie. Nel 1922 si andò sviluppando anche una sezione cartai, che nel giugno riuniva, per la visita del segretario generale di categoria Celestino Cresta, un centinaio di operai. Nel settembre 1922 si profilarono i primi scioperi. Infatti in sciopero scesero, col sostegno dell'Unione cattolica del lavoro, le calzettaie.


Il 1 novembre 1922 fecero la loro apparizione, provenienti da Salò, i fascisti, che si accontentarono di esporre sul Comune il tricolore. Pochi giorni dopo, il 12 novembre, Toscolano visse un momento unitario, con l'inaugurazione del monumento ai Caduti. Ma già si profilava rapidamente la prevalenza locale del fascismo, incontrando però una forte resistenza nel socialismo del paese e nelle stesse organizzazioni cattoliche. Il 28 gennaio 1923 in una rissa fra socialisti e fascisti, nella quale anche si sparò, si registrarono quattro feriti anche se non gravi. Nello stesso gennaio 1923 riesplodeva la vertenza sindacale delle tessili che, pur ricomposta grazie all'intervento dell'arciprete don Samuelli, del curato di Toscolano don Giovanni Fava e del sindacalista "bianco" Francesco Castagna, registrò l'intromissione dei sindacalisti fascisti Ausonio Bernasconi e Silvio Taglietti. In appoggio ad un nuovo sciopero di calzettaie, nell'ottobre 1922, si schierarono i giovani dei circoli cattolici. Le difficoltà incontrate dal fascismo continuarono, nonostante tutto. A giugno 1923 la scarsa partecipazione della popolazione alla cerimonia della benedizione della bandiera delle scuole offrì una nuova occasione per il "Popolo di Brescia" per criticare il contegno del clero toscolanese. Pochi giorni dopo, il 20 giugno, si verificarono nuovi scontri tra socialisti e fascisti, durante i quali un fascista, Castellini, sentendosi minacciato, ferì, con un colpo di pistola al petto, il socialista Simpsi. Un nuovo sciopero delle operaie tessili, manifestazione di protesta per l'imposizione delle 10 ore di lavoro, vide un nuovo intervento dei fascisti, che si intromisero imponendo la fine della protesta stessa. Erano gli ultimi guizzi di libertà sindacale. Oramai il fascismo era sempre più padrone della situazione.


Nel febbraio 1924, il segretario politico del fascio, Castellini, dichiarava «ormai superato in Toscolano quel periodo di diffidenza da parte della popolazione che lo aveva aduggiato per un intero anno» e segnalava che in tre mesi gli aderenti s'erano raddoppiati, che i Balilla erano saliti al numero di 31 (!) e che cinquecento signore si erano sottoscritte per offrire il gagliardetto alla sezione del fascio. Un segno dell'egemonia fascista si verificò pochi giorni dopo, nel giugno 1924, quando, sotto la guida abile di Augusto Turati, i sindacati fascisti si imposero come unici interlocutori nella vertenza sindacale. A Toscolano Augusto Turati fece, nel giugno 1924, quelle che si possono dire le prove della sua politica sindacale, che lo farà conoscere poi nel 1925 per lo sciopero dei metallurgici. Infatti riuscì a farsi mallevadore della soluzione di una vertenza nel settore dell'industria cartaria, forte dell'appoggio degli industriali. Durante lo sciopero dei cartai, nella primavera del 1925, si videro squadre di fascisti, affluite dalla sponda veronese del lago, marciare minacciose per le vie, entrare nelle case, prelevare gli operai popolari e socialisti in sciopero e portarli direttamente nelle cartiere. Alla fine Turati si vanterà di aver concluso la vertenza a favore dei lavoratori. Le difficoltà del fascismo continuarono per mesi, tanto che le sorti dovettero essere affidate ad un triumvirato e solo nel luglio 1924, "a votazione segreta", ad un segretario: Ettore Zuradelli.


Non mancarono opere di pace sociale. Nel 1924, presso la stazione tramviaria e il ponte sulla strada provinciale per Gargnano, sorse, accanto alla chiesa di S. Benedetto ed alla Casa delle Suore della S. Famiglia, una palazzina che ospitò un nuovo asilo ed una scuola di lavoro per ragazze. Nel 1925, mentre era ormai smantellata la presenza socialista, la tensione continuò fra fascismo e parrocchia e sfociò, nel giugno 1925, nella chiusura del Circolo cattolico maschile e femminile. Si mosse in proposito perfino il prefetto della S. Congregazione del Concilio card. Sbarretti; si mosse il vescovo mons. Gaggia, che ricorse al sen. Ettore Bianchi. Il prefetto ripiegò su un escamotage: cambiare il patrono del circolo. Quello di S. Agnese diventò S. Teresa del Bambin Gesù, l'altro, di S. Stefano, prese il nome di S. Pietro. I circoli, assieme all'oratorio, tornarono nelle mire del regime e vennero di nuovo chiusi nel novembre 1927 "per usurpata attività di educazione fisica, morale e spirituale di esclusiva competenza dell'Opera Nazionale Dopolavoro". Lo stesso avverrà nel 1931, e certo alla rinuncia alla parrocchia di don Samuelli non fu estranea la lunga tensione fra il fascismo e la parrocchia di Toscolano.


"Normalizzata" la situazione politica e amministrativa con la piena affermazione del fascismo, nel 1925 venne avviata la costruzione dell'acquedotto e venne dato spazio al tempo libero. Infatti nel 1925 nasceva la squadra di calcio e nel gennaio 1926 veniva ricostituita la Società del tiro a segno che diventava Società Consorziale comprendente Salò, Gardone Riviera, Maderno e Gargnano, inaugurata il 20 settembre 1926 assieme al campo di prove dedicato a Silvio Bonaspetti. In compenso, nello stesso anno venne sciolta la Società del Casino. Con queste iniziative si chiudeva l'attività del comune autonomo di Toscolano. Un regio decreto, il 14 luglio 1928, univa i comuni di Toscolano e Maderno con sede degli uffici in Maderno, nella villa già della famiglia Bianchi.




ECCLESIASTICAMENTE.


La leggenda vuole che originario di Toscolano sia stato S. Gaudenzio. Il formarsi di tale credenza, come poi di quelle che si riferiscono al vescovo S. Ercolano, è da riferirsi allo sviluppo della presenza del Cristianesimo nella Riviera. Ascrivibile al sec. V-VI è la nascita, sul pago, della pieve, che fu considerata fra le più antiche del Garda. Tuttavia, come indicano le dedicazioni delle chiese di S. Michele (Gaino), di S. Giorgio (Roina) e forse il titolo stesso della chiesa plebana dei SS. Pietro e Paolo, il radicarsi definitivo del Cristianesimo nel territorio venne completato nei tempi della dominazione longobarda. Il culto a S. Stefano potrebbe indicare una diaconia della pieve. Non provata, ma verosimile, è la dedicazione originaria della pieve a S. Andrea, invocato come patrono dei pescatori. Donato Fossati insiste sulla «trasformazione degli edifici pubblici: la basilica sacra a Nettuno - egli scrive - divenne chiesa di S. Stefano protomartire, intitolata più tardi a S. Antonio Abate in Curte Regia a Toscolano. Il tempio di Giove Ammone si tramutò nel santuario della B.V. di Benaco». Il sacello di Bacco, ampliato coi ruderi della villa, sarebbe poi stato trasformato in una chiesa cristiana. «Molti anni fa - egli scrive - nella casa colonica annessa alla prebenda vi era il vaso del primitivo fonte battesimale, che, dopo aver servito a contenere l'olio del parroco, era adibito ad abbeverare il bestiame: era di un sol pezzo di marmo bianco, decorato nell'orlo superiore esterno di un fregio non affatto rozzo, che tutto lo circondava a bassorilievo». Il Fossati ancora soggiunge: «la tradizione della estrema antichità di questa vecchia Pieve è attestata dall'epigrafe esistente sopra la porta destra della nuova parrocchiale e dettata per memoria dell'erezione di questa».


Probabilmente trasformata in seguito, specie nei sec. X-XI, l'antica pieve si presentava inadeguata. Essa fu del tutto dipendente dal Vescovo e l'arciprete fu ritenuto suo vicario. A lui fu assegnata una quarta parte della decima spettante al Vescovo stesso e in più egli ebbe in dotazione terreni, boschi, case e diritti di acqua. Il Vescovo Bollani poi cedette 138 ditte livellarie, di oltre 360 basede annue di olio. I Vescovi successivi aggiunsero dei beni allodiali spettanti alla Mensa, conservarono il Palazzo, il brolo, due giardini di agrumi e la terrazza sul lago, dandoli poi in locazione, ai parroci, per un tenue canone annuo». E come dipendente la Pieve fu considerata per secoli, tanto che la canonica dell'arciprete venne considerata anche come una specie di vescovado, dove i vescovi si ritiravano per periodi di riposo. È una supposizione del Fossati che la prima chiesa plebana sia sorta su un tempietto a Bacco e fosse dedicata a S. Andrea e, più tardi, a S. Domenico, forse quando il vescovo Domenico de Dominici (1474-1478) riunì la parrocchiale alla mensa vescovile col consenso della Santa Sede.


È segno dell'attività della pieve l'esistenza di un ospizio o xenodochio in località Religione, del quale vi è ricordo ancora nel 1728 in un testamento di certo C. Zuanelli abitante in "contrata hospitalis". Non è escluso che l'ospizio abbia avuto anche a che fare con l'Ordine Gerosolimitano o di Malta, che sulle sponde del lago ebbe numerosi ospizi. Ancor più singolari sono i rapporti che l'ospizio ebbe, probabilmente, con i livelli d'olio che a Toscolano possedette anteriormente al 1158 la mensa vescovile di Lodi, livelli dovuti ad un voto della popolazione del luogo. Secondo quanto ha documentato G.B. Rota, infatti, una «tradizione verbale assai antica, attribuisce l'origine di tal canone al voto che le persone di quei territori avrebbero fatto a S. Bassiano, Vescovo e Protettore di Lodi, per essere liberate dalla lebbra che le affliggeva: di far ardere continuamente una lampada in loro nome all'Urna del Santo e di somministrare a questo scopo l'olio per uso della Mensa Vescovile. Venuti a Lodi parecchi di quei lebbrosi, a nome di tutti avrebbero deposto il voto nelle mani del Vescovo: e fatte fervorose preghiere al Santo, colla S. Messa al di lui altare, rimasero mondati essi ed i conterranei». Tale tradizione si mantenne, attraverso le più varie vicende, fino al 1797.


Caduto in rovina, a ristabilirne la benefica funzione, sul principio del sec. XIII, secondo quanto ebbe a scrivere Claudio Fossati, «come a comporre i dissidii delle fazioni politiche e a predicare la pace sociale e la concordia in difficili momenti di lotte fraterne e di movimenti ereticali, vennero chiamati dal Comune di Toscolano i figli di S. Domenico, i Frati Predicatori, e che ad essi furono donati i terreni di Grecenico con l'antico Ospizio, e fu ventura perché quei frati misero subito mano a trasformarlo in convento, ad ampliare la cappella, a colmare, spianare e nettare i terreni, fenderli coll'aratro, a intraprenderne il risanamento e la trasformazione, e a difenderli contro l'irrompere delle acque del fiume». Come ha rilevato Cinzio Violante ("Storia di Brescia", I, p. 1092), «nel 1260 la domus fratrum de Toscholani» era retta da un prevosto e abitata da un altro frate e da un converso e, quel che è più significativo, appariva legata alla Congregazione di S. Domenico. Ma, dopo breve tempo, pur conservando intitolazione di S. Domenico, divenne canonica agostiniana. Infatti, da un documento del 2 febbraio 1279 risulta che la «religione di San Domenico di Tuscolano» era costituita, allora, da un praepositus, che era un prete ("pre Dalaydus"), e da alcuni fratres, semplici chierici o forse anche solo laici. Secondo una testimonianza più tarda (3 aprile 1321) la suddetta fondazione tuscolana era posta sotto la giurisdizione del vescovo di Brescia. Come canonica agostiniana "la Religione" durò a lungo, collegandosi dal 1365 con la canonica di S. Eustachio nelle chiusure di Brescia, divenendo commenda a metà del sec. XV e passando in proprietà del monastero di S. Croce della Giudecca di Venezia, fino a quando nel 1562 verrà acquistato dai Canonici Regolari lateranensi di S. Afra.


Dell'attività caritativa della casa della Religione vi è documentazione nell'atto del 1° novembre 1261, nel quale certo Boldrigo di Toscolano elegge erede di due parti dei suoi beni il ministro della Congregazione di S. Domenico e dispone che i suoi beni debbano e possano essere venduti e, in parte, distribuiti fra "i poveri di Cristo". La pieve è già in funzione da tempo, come indica la presenza dell'arciprete Buongiovanni, nel 1275, alla Congregazione dei sacerdoti bresciani che elessero vescovo Berardo Maggi. Proprio accanto al vescovo Maggi e ai membri della sua corte agirono, come s'è visto, alcuni chierici di Toscolano. Nomi di altri arcipreti compaiono poi lungo il sec. XIV. Nel 1469 la parrocchia acquisiva, in seguito ad una convenzione tra il vescovo di Brescia e il Comune, una sua autonomia amministrativa, e il diritto di presentazione del parroco. Nonostante ciò, il vescovo di Brescia mantenne sempre con Toscolano legami stretti, dei quali è simbolo la cattedra collocata nel 1621.


Tra gli arcipreti alcuni si distinsero particolarmente. Brillante dovette essere il nob. Francesco Fossati, oriundo da Lucca e beneficiario della prebenda di S. Nicolò di Cecina, presentato dal Comune e nominato nel gennaio 1490. Nella bella canonica, il 17-18 marzo 1500, egli ospitava Isabella d'Este e la cognata Elisabetta Gonzaga. Isabella vi tornava nel settembre seguente e, scrivendo alla cognata, si rallegrava di averla avuta con sé per le ore passate nel giardino dell'arciprete e per il pesce che aveva gustato. Nonostante la presenza di sacerdoti "mercenari" non mancarono segni di profonda pietà, come la costituzione, prima del 1521, della Scuola del SS. Sacramento. La vita religiosa ed economica di Toscolano nella seconda metà del '500, anche per le particolari attenzioni dei vescovi di Brescia, si rianimò per la presenza dei Canonici Regolari Lateranensi di S. Salvatore di Bologna che, come già detto, abitavano a Brescia l'antica canonica di S. Afra. Del complesso della Religione, essi fecero un priorato e una casa di villeggiatura, continuando, come ebbe a scrivere Donato Fossati «le tradizioni agricole-industriali dei loro antecessori, togliendo i campi, le case, gli opifici dall'abbandono nel quale erano stati lasciati».


Al Fossati, morto nel 1512, successe il prete Andrea De Bonis di Reggio, ma come mercenario di mons. Francesco Della Rovere, vescovo di Vicenza, nipote di papa Giulio II e commendatario della Badia di Leno. Dopo di lui il vescovo di Brescia, avocata a sé la Prebenda, vi inviò come cappellano prete Luca Grazioli di Villavetro (Gargnano), incontrando l'opposizione degli abitanti che volevano esercitare il diritto di presentazione. Avendo il Grazioli rinunciato, il capitolo nominò in sede vacante rettore-prete Manfredo Orlando di Toscolano (1559), dal quale il Comune ottenne, tramite il Governo di Venezia, le dimissioni.


Eletto Vescovo il Bollani, questi giunse col Comune ad una Convenzione (giugno 1559, rogito notaio Trappa di Brescia) in forza della quale veniva riconosciuto il diritto del Comune di presentare un nome all'elezione dell'arciprete. Il primo proposto dal Comune, e nominato arciprete, fu Cristoforo Pilati da Segrane (Toscolano).


Don Cristoforo Pilati dottore in utroque jure, arciprete nel 1559 a soli 27 anni, come ha scritto Armando Scarpetta, «nonostante la giovane età, dimostrò di saper governare la sua parrocchia e si fece amare e stimare dai suoi parrocchiani. Riuscì ad imporsi con bontà, ma anche con fermezza, in mezzo alle piccole beghe per i diritti o i privilegi dei suoi confratelli coadiutori nelle frazioni della Pieve. Questi ultimi, nei primi tempi, non erano troppo entusiasti del nuovo giovane parroco che voleva guardare nelle loro cose e far valere i diritti della chiesa matrice». Nella sua visita pastorale (1566) il vescovo Bollani trova una parrocchia attiva. Il vicario vescovile perpetuo don Cristoforo Pilati: in regola con i decreti del Concilio di Trento, insegna ai fanciulli i primi rudimenti della fede, spiega il Vangelo nei giorni festivi, si dedica alle confessioni, tiene in molta cura i libri dei battesimi, dei matrimoni e anche il libro dello stato d'anime. Per la sua intensa cura pastorale e cultura ecclesiastica meriterà la stima, oltre che del vescovo Bollani, di S. Carlo Borromeo e verrà incaricato di visite pastorali alla diocesi di Brescia e di Feltre.


Negli atti della visita che porta il suo stesso nome, del 6 maggio 1572, l'impegno per la costruzione della nuova parrocchiale è già preso, mentre i lavori avranno inizio nel 1575. Ma andavano troppo a rilento, per cui due anni più tardi, nel 1577, lo stesso mons. Bollani scriveva all'agente del vescovo a Roma, Giacomo Roveglio di Salò, lagnandosi della lentezza dei lavori e ne attribuiva la causa alla troppa bontà del parroco Pilati, il quale si perdeva in un goto d'acqua per il suo buon cuore; ribadendo che alla spesa dovevano contribuire il Vescovo, il Comune e i privati. Ma sembrava anche che i muratori di Salò e di Riviera si fossero intesi per lavorar poco e farsi pagar molto, per cui il Vescovo suggerì di rivolgersi al sig. Orazio, maestro di casa del Marchese Pallavicino, che stava erigendo il suo palazzo di Barbarano (poi Martinengo), per far venire dei muratori da Cortemaggiore (paese dei Pallavicino), che lavoravano meglio e a buon mercato. È più che probabile, come pensa il Fossati, che tanto il Pilati quanto il vescovo Bollani pensassero ad una ristrutturazione e ad ampliamento dell'antica pieve, affidando l'opera ad un capomastro o architetto locale, Bertoldo da Toscolano. Una svolta decisiva venne dalla visita apostolica del card. Carlo Borromeo, del 10-12 agosto 1580. S. Carlo prese una decisione radicale: suggerì (o impose ?) di abbattere tutto e di erigere la chiesa dalle fondamenta. "Con tale ipotesi, scrive il Fossati, si spiega anche l'asserzione di frate Andrea da Toscolano, il quale dichiara che l'architetto fu un maestro Bertoldo da Toscolano, mentre il Borromeo dice d'aver egli stesso dato il disegno; si capisce che maestro Bertoldo fu solo il progettista dell'ampliamento iniziato e troncato".


In effetti i Toscolanesi eressero un nuovo grandioso tempio, dedicandovisi, come sottolinea ancora il Fossati, «con passione e con ardore. I poveri lavoravano gratuitamente la festa, i ricchi andavano a gara nell'aiutare e nel donare: eletti alla direzione, nel 1583, furono Gio. Giacomo Tamagnini, Vincenzo Piloni, Silvestro Bersi, Scipione Comincioli, presieduti dal parroco Pilati; fu abbattuta completamente la vecchia costruzione, eccettuata la sacristia». Il Vescovo generosamente concorse nella spesa e infine, autorizzato con breve dal Papa Sisto V, cedette al Comune per dieci anni i redditi della mensa vescovile in Riviera. La grandiosa chiesa, un vero duomo, era già eretta nel 1584, come conferma l'iscrizione ancora esistente sopra la porta destra della chiesa: «D.O. / Deleto vetustissimo toto Benacu tempio / hoc in Augustiorum formam / sub sanctissimis Apostolorum Principis auspiciis / quod religio pubblica erexerat / anno Domini M.D.L.XXXIV / D.D. / loannis Antonii Colosini et Donati Colosii / Pia legati beneficentia / Picturis ille sacrarium circummambientibus / iste intercolumnia occupantibus / exornavit / Tandem spectabilis comm. Decretum / Sanctorum Innocentium Martyris / Internam templi faciem implevit / et coronavit / Haec ad maiorem Dei gloriam». Quattro anni dopo, con sentenza del 24 maggio 1588 autenticata dal notaio Andrea Maffei di Garnover e confermata da bolla Pontificia, il vescovo di Brescia card. Morosini si impegnava a fabbricare, assieme all'arciprete, la nuova casa parrocchiale. La chiesa venne poi continuamente arricchita di opere d'arte. Le famiglie Turazza, Delay e Sgraffignoli fecero dipingere a proprie spese da Andrea Celesti le grandi ancone del coro; quella dei Colosini, l'ancona del presbiterio; quella dei Colosio, le lunette della navata centrale ed il Comune, a sua volta, la grande tela della strage degli innocenti. Le più cospicue famiglie del luogo si assunsero il patronato e l'abbellimento delle sei cappelle: i Colosini quella del Rosario, colla pala del Celesti, i Calcinardi quella di S. Cristoforo, con una pala di scuola veneta, i Fossati quella di S. Giuseppe, con pala del Celesti, i Delay quella di S. Francesco di Paola, con pala del Celesti, i Pilati quella della deposizione. Dei primi anni del '700 sono gli scanni del coro.


La chiesa venne consacrata il giovedì santo del 1620 dal vescovo Marino Giorgi, il quale, per l'occasione, vi tenne la benedizione degli olii santi e le sacre ordinazioni e definì quella chiesa "sposa prediletta fra tutte le terre della Riviera". È del 1633 l'erezione dell'altare delle SS. Reliquie. Decisa fu l'opposizione dell'arciprete Avanzini, con l'appoggio della popolazione, al tentativo, compiuto nel 1620, ma già profilatosi con la visita di S. Carlo, della creazione di un vescovado della Riviera del Garda con sede a Salò. Le pratiche erano già in stato avanzato con l'appoggio «della quadra di Salò, di Maderno, di Desenzano e Valtenesi, della Montagna di Idro e Treviso, Vobarno e parte della Valle Sabbia, quando Toscolano e "gli homeni del suo Spettabile Concilio il 25 febbraio di detto anno elessero due oratori, che mandarono a Venetia presso quella Repubblica ed a Brescia presso quell'Eccellentissimo Vescovo ed in qualunque altro loco fosse stato di bisogno" a perorare la causa avversa». Causa vinta, per cui l'idea di un vescovado a Salò cadde. A confermare l'attaccamento al vescovo di Brescia, nel 1621 veniva eretta la bellissima cattedra vescovile. Di notevole rilievo il testamento, del 31 maggio 1678, di Giovanni Antonio Colosini, massaro della Confraternita del SS. Sacramento, che istituì erede la Confraternita ed usufruttuaria la moglie, la quale però rinunciò all'usufrutto a vantaggio della Confraternita, che ne diventò beneficiaria il 6 agosto 1685. Contrariamente a quanto si è scritto, è solo il 13 aprile 1688 che i commissari del legato Colosini e il vicario della Confraternita decisero di far decorare, "con pitture insigni et ornamenti e cornici a rilievo dorate, la cappella maggiore", della chiesa. L'incarico venne affidato al Celesti, che, approdato a Toscolano non si sa per quale precisa ragione (un delitto, le orecchie d'asino ad un ritratto del doge...), a Toscolano si era sposato. Dopo qualche mese le grandi tele del coro erano pressoché finite e l'11 novembre 1688 i Delay sborsavano delle somme per ordine dei Commissari della Confraternita "al signor Cavaliere Andrea Celesti", a maestri intagliatori per le soase del coro, indoratori ecc.


Intenso il parrocchiato di don Gaetano Zuanelli (1697-1709). Oltre che sistemare i rapporti tra la chiesa plebana e le parrocchie di Gaino, di Cecina, ecc., nel 1702 creò una specie di capitolo, istituendo legati per il mantenimento di sacerdoti, che nei giorni festivi recitavano in coro le ore canoniche. Si dedicò inoltre all'abbellimento della chiesa parrocchiale. Nel 1700 fece eseguire, grazie al legato Colosini, dal Celesti o dai suoi allievi, le dieci tele degli intercolumni raffiguranti fatti del Vangelo, mentre nello stesso anno il Comune faceva eseguire dallo stesso pittore la tela della strage degli Innocenti per la controfacciata. Negli anni che vanno dal 1703 al 1706 fece intagliare quattro dei cinque bei confessionali della chiesa. Nel 1705 venne eretto l'altare maggiore in legno dorato, nel 1708 il Celesti eseguì altre tele. Nel 1709 completò, aiutato dalla Scuola del SS. Sacramento, la decorazione del coro e del presbiterio, facendo affrescare, da Stefano Orlandi di Bologna, le lesene, la cupola del presbiterio e il catino dell'abside. Nello stesso anno l'intagliatore Dal Prato eseguì le due eleganti cantorie e le facciate dell'organo e del controrgano.


L'opera dell'arciprete Zuanelli, che, lasciata nel 1709 Toscolano, si dedicò alla predicazione, e che sarà poi, dal 1730 al 1736, vescovo di Belluno (v. Zuanelli Gaetano), fu continuata con alacrità e zelo dal nipote don Pietro Zuanelli, arciprete di Toscolano dal 1709 al 1745. Nel 1713 il concorso dei sacerdoti, delle confraternite e della popolazione, arricchì la chiesa di preziose suppellettili, tra cui uno stupendo ostensorio, e fece costruire (1736) un quinto confessionale, ecc. Nel 1727 era stata costruita l'alta torre, dotata, nel 1733, di un concerto di campane di Pietro Olmo da Como. A questa intensa opera di carattere artistico corrispondevano altrettanto frequenti manifestazioni di devozione, che Armando Scarpetta valuta negli anni 1709-1711 consistere in più di 80 processioni, votive o consuetudinarie, ogni anno. Come ha sottolineato don Samuelli, indicano la religiosità dei toscolanesi "la molteplicità e la ricchezza dei legati per la celebrazione di Messe e funzioni, la recita delle ore canoniche (1730) e le confraternite che si aggiunsero a quella del SS. Sacramento e cioè del SS. Rosario, della B.V. del Carmine, della SS. Trinità, della Dottrina Cristiana" e, aggiunge don Samuelli, "la larga e deferente ospitalità che ebbero i religiosi dei vari Ordini e Congregazioni".


Ricco di iniziative fu il parrocchiato di don Giovanni Battista Antonioli (1745-1760). Egli fra le altre iniziative introdusse il particolare culto alle SS. Reliquie; promosse, nel 1752, la decorazione del Santuario della Madonna di Benaco e, nel 1756, provvide la chiesa parrocchiale, grazie anche all'aiuto di benefattori, fra i quali un tale Giulio Fasoli e le filatrici di lino, del ricco pavimento già progettato nel 1722. Un'attenzione tutta particolare riservò alla chiesa parrocchiale il successore don Bartolomeo Canetti (1760-1774) nativo del luogo e laureato, che finirà poi prevosto di S. Giorgio a Brescia. Sono al suo attivo lo stupendo altare maggiore, prima in legno, in marmi e bronzi preziosi, progettato dall'architetto ab. Gaspare Turbini, la tela della Pietà (1764) di Sante Cattaneo e il rinnovamento di quasi tutti gli altari della chiesa parrocchiale, oltre a preziose suppellettili, paramenti sacri ecc.; le tele dell'altare di S. Cristoforo, e quelle di S. Vincenzo Ferreri e di S. Gaetano e i ritratti degli arcipreti collocati in sagrestia. Fecondo, anche se contrastato, fu il parrocchiato di don Faustino Badinelli (1793-1813), durante il quale ebbe ripercussioni pesanti la rivoluzione giacobina. Nel 1797, infatti, il Governo provvisori bresciano indemaniò tutti i beni parrocchiali e li vendette a Giovanni Borghetti di Brescia, da questi alienati nel 1824 ai fratelli Vicario di Gaino, che immediatamente li permutarono col fondo posto sotto la fontana di Gaino e insieme con un prato (di ragione della prebenda), diventando così tutti di proprietà del Beneficio Parrocchiale. Cadde al contempo il diritto di decima riscattato dal Comune nelle transazioni intervenute tra Vescovo e popolo quando era stata eretta la nuova parrocchiale e si distaccò dalla Mensa il Beneficio; andarono poi in massima parte perdute le prestazioni livellarie per avvenute prescrizioni, espropriazioni fiscali o per difetto di inscrizioni ipotecarie, riducendo a modeste proporzioni la dotazione della prebenda.


Superata la crisi rivoluzionaria e le vicende dei tempi napoleonici, toccò al veronese don Giuseppe Vedovelli (1813-1838) riprendere in pieno l'attività parrocchiale. Nel 1823 egli provvide ad un nuovo organo. Soprattutto intensificò la devozione popolare alla Madonna di Benaco, organizzando pellegrinaggi, particolari devozioni. Una processione nel 1824 per implorare la pioggia vide presenti, assieme al vescovo Nava, popolazioni di altre parrocchie della Riviera. E la pioggia arrivò. Nel 1830 don Vedovelli organizzò indimenticabili solennità nel centenario della peste del 1630. Senonché, sei anni dopo, nel 1836, il popolo dovette ricorrere alla Madonna di Benaco per il diffondersi di un'altra epidemia, il colera. Al Vedovelli succedette don Giovanni Setti di Maderno (1839-1856), passato poi prevosto a S. Nazaro a Brescia. Colto e benefico (disporrà, in morte, un legato per i poveri a letto o impossibilitati ad uscire di casa), egli dovette affrontare una nuova emergenza del colera nel 1855. Si fece voto alla Madonna di Benaco.


Lungo cinquant'anni (1857-1908) il parrocchiato di don Pietro Grana (Salò 1825 - Toscolano 1908), sacerdote colto, oratore facondo e caldo patriota. Nel 1858 inaugurava il monumento all'Immacolata. Nel 1861 era tra gli animatori del gruppo dei preti passagliani della Riviera; nel 1863 tra i fondatori della Società Operaia di Mutuo soccorso. Nel 1868 provvide la parrocchia di nuovo concerto di campane. Amico di S. Daniele Comboni, sostenne le sue opere di apostolato. Sotto il suo parrocchiato nel 1901 facevano il loro ingresso a Toscolano le Piccole Suore della Sacra Famiglia, che avviarono una scuola per ragazze accogliendo anche alcune orfane; nel 1908-1909, per particolare iniziativa del curato don Giovanni Fava, sorgeva, nelle adiacenze della canonica, il primo nucleo delle attività oratoriane con spazi ricreativi e aule di catechismo. Particolarmente attivo negli anni '20-30, per suo merito sorge anche una banda diretta da Antonio Tomacelli, complesso che scompare però negli anni '50. Con la legge 20 giugno 1909 n. 364 la chiesa parrocchiale venne inclusa fra i monumenti nazionali.


Di impronta completamente nuova è il parrocchiato di don Giovanni Giulio Samuelli (Gargnano 1872 - Capriano del Colle 1947). Già curato a Toscolano e poi parroco di Navazzo, nel 1910 torna a Toscolano come arciprete, con una già ricca esperienza in campo sociale. A Toscolano, coadiuvato dal curato don Giovanni Fava, si gettò decisamente nell'azione. Fondò i circoli della Gioventù cattolica, organizzò il sindacato cattolico fra le calzettaie e i cartai, sostenne azioni sindacali, facendo di Toscolano un centro di attività sociale cattolica e, come si è accennato, affrontò con decisione socialisti e fascisti. Il 30 ottobre 1921 veniva inaugurata, su progetto dell'ingegnere G. B. Bianchi ed Enrico Carini, e per munificenza dei fratelli Ignazio e Giuseppe Maffizzoli, la casa "Per i figli del Popolo", creata per ospitare le scuole di catechismo, l'oratorio, le scuole serali di lavoro e professione. Nel 1925 mons. Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, amico dei fratelli Maffizzoli, venne a visitare questo nuovo edificio. Don Samuelli subì contrasti e attacchi dai fascisti, che non tolleravano il suo prestigio e la sua influenza in campo sociale come mediatore nelle vertenze, specie nel settore tessile. Nel 1934 lasciò la parrocchia per il canonicato in duomo, incarico che, quasi subito, abbandonava per la parrocchia di Capriano del Colle.


Particolarmente difficili furono i venti anni di parrocchiato (1935-1955) di don Emilio Verzelletti (Travagliato 1902 - San Paolo 1986). Rasserenato il clima politico, egli attese con impegno alla vita pastorale. Provvide all'illuminazione della parrocchiale, al completamento delle stazioni della Via Crucis, all'acquisto della statua del Cristo morto (1943), abbellì il santuario della Madonna di Benaco, riorganizzò gli oratori maschile e femminile e le scuole di catechismo. La guerra, e particolarmente il periodo della Repubblica Sociale Italiana (1943-1945), lo vide impegnato in un'opera di mediazione con le più alte cariche della stessa, per evitare, in unione con il vescovo di Brescia, vendette, ritorsioni su sacerdoti e civili, fra i quali vi erano alcuni suoi parrocchiani. Don Verzelletti fu coinvolto, senza volerlo, dagli avvenimenti, nei quali dovette destreggiarsi tra conoscenze via via acquisite e cercate di esponenti della R.S.I. (quali Buffarini Guidi). Riuscì a sottrarre, come scrive in "Ricordi degli anni 1943-45 a Toscolano Maderno" (1964), alla prigionia e al campo di concentramento suoi parrocchiani e sacerdoti delle diocesi di Vicenza prima e poi di Brescia. Gli ultimi lunghi mesi della guerra pesarono anche sulla vita parrocchiale, che continuava tuttavia intensa con un affidamento particolare alla Madonna di Benaco, attraverso un solenne voto espresso l'8 settembre 1944.


Per un decennio, tuttavia fecondo, durò il parrocchiato di don Francesco Galeazzi (1904-1966). Egli arrivò a Toscolano nel 1955, dopo la dura esperienza della guerra, che gli era costata la prigione per l'appoggio dato alla Resistenza. Morì per tumore nel gennaio 1966, lasciando un ricordo di grande bontà e zelo sacerdotale, oltre alle opere compiute per sua cura: oltre alla sistemazione definitiva dell'oratorio maschile, vi fu la costruzione della nuova chiesa di S. Giuseppe per gli abitanti di Mezzacampagna. Fu restaurato anche il Santuario della Madonna di Benaco.


Sviluppo pastorale continuo la parrocchia registrò lungo il parrocchiato di don Antonio Pietro Vaglia (1982-1998). La cura della chiesa parrocchiale portò al restauro, dal 1991, 1992, 1994, delle tele del Celesti e alla posa di nuove vetrate (1993). Nel 1994-1995 l'oratorio S. Luigi venne ampliato e ristrutturato, mentre la sua attività si arricchì di un suo coro, di gruppi Scout (AGESCI, Toscolano 1). Inoltre ospitò la Caritas Parrocchiale "Don Francesco Galeazzi", particolarmente impegnata attraverso il Gruppo Malì 4 a realizzare a Sikasso un centro di formazione professionale. Accanto all'oratorio e in simbiosi con esso era attivo il Circolo Giovanile "S. Stefano". Nel 2003 l'arciprete Fausto Prandelli avviò il restauro, nel laboratorio Casella, di tre tele del Celesti: la Caduta di Simon Mago, Cristo consegna le chiavi a S. Pietro e Il martirio dei SS. Pietro e Paolo.




CHIESA PLEBANA DEI SS. PIETRO E PAOLO. Nessuna notizia è rimasta della costruzione della prima chiesa parrocchiale, che Paolo Guerrini ritiene sia stata eretta dai monaci del monastero di S. Pietro in Monte Orsino per l'assistenza religiosa e morale dei coloni e dipendenti che lavoravano nelle loro proprietà, ma che potrebbe aver sostituito un'altra eretta in epoca longobarda per il servizio della corte ducale. Venne demolita nel 1580 per far luogo all'attuale. Come ha scritto Adriano Peroni ("Storia di Brescia" I), la facciata, «si presenta, a parte i portali, nel vecchio schema tripartito a capanna, con oculi e contrafforti. L'ipotesi dell'elaborazione tutta locale della costruzione, sottolinea il Peroni, solo con ricorso a formule usate dal Todeschini, è avvalorata da un confronto con la parrocchiale di San Pier d'Agrino a Bogliaco, dove ritroviamo il medesimo schema, solo con esecuzione più rozza delle modanature e delle colonne e in minori proporzioni». Di interesse particolare le colonne in marmo rosso, che sono ritenute provenienti dalla villa romana, come le pietre e i marmi che sono serviti per la costruzione. Allungate e rabberciate, sono state poi adornate da una doppia fasciatura in marmo bianco.


L'INTERNO (50 m di lunghezza, 20 m di larghezza) è ad impianto basilicale; come scrive il Peroni, "presenta colonnati tuscanici simili a quelli di Desenzano, ma l'imposta della volta a botte è rialzata attraverso sottili lesenature che si continuano in archi trasversi. Sulle campate delle navate laterali si aprono alternatamene le cappelle. Il presbiterio è coperto da una finta cupola, che in pratica è una profonda volta a padiglione, rettangolare, e termina in un'abside poligonale". Sulla controfacciata è collocata una grande tela di Andrea Celesti raffigurante la strage degli innocenti, fatta dipingere dal Comune all'artista nel 1700. Negli intercolunni sono collocate dieci tele, pure opera di Andrea Celesti, raffiguranti, a partire da destra e dal fondo: la Fuga in Egitto, Gesù tra i dottori del Tempio, la Trasfigurazione, Gesù fra i fanciulli, la guarigione del figlio del Centurione. Scendendo da sinistra: la Maddalena ai piedi di Gesù, la guarigione del cieco nato, la Risurrezione di Lazzaro, Gesù scaccia i venditori dal tempio, l'ingresso di Gesù in Gerusalemme. Le vetrate, prima a rulli, nel 1865 vennero in parte sostituite con cristalli a colori montati su telai in legno. Nel 1912 la ditta L. Balmet di Grenoble eseguiva nuove vetrate colorate aventi come soggetto episodi evangelici, a completamento di quelli già raffigurati su tele, e cioè il Battesimo di Gesù, Gesù nell'officina di Nazareth, Gesù tra i fanciulli, l'ultima Cena, la Risurrezione, l'Ascensione e inoltre Gesù che appare alla B. Alacoque e S. Carlo che comunica S. Luigi. Nelle lunette vennero rappresentati gli stemmi Pontificio, Vescovile, Nazionale e del Comune, gli stemmi della famiglia Pilati a ricordo del fondatore della chiesa, mons. Cristoforo Pilati, di mons. Gaetano Zuanelli, arciprete a Toscolano e poi vescovo di Belluno. Nelle vetrate del presbiterio vennero raffigurati il vescovo S. Gaudenzio e S. Benedetto.


GLI ALTARI. Il primo altare, salendo dal fondo a destra, è dedicato a S. Cristoforo. È in legno dorato, con paliotto decorato di un fregio floreale. Le due colonne che accolgono la pala hanno sul basamento testine di angeli e terminano in due capitelli corinzi che sorreggono un timpano con tre anfore. Nella pala (olio su tela cm 370x190) si raffigura la B.V. in gloria con i santi Antonio ab. e Cristoforo che traghetta sulle spalle il Bambino. Il Panazza la data al 1603 e la attribuisce a Pase Pace. L'altare venne arricchito nel 1757 della reliquia di S. Luigi Gonzaga e venne ricostruito come nuovo nel 1791. Il secondo altare è dedicato alla Madonna del Carmine. L'altare, in marmo bianco e grigio, ha due colonne corinzie che sorreggono un fastigio con due angioletti seduti. La pala (olio su tela cm 370x190) raffigura la B.V. col Bambino che è contornata da angioletti ed affiancata da S. Giovanni Battista e da una santa, che consegnano il Rosario a S. Simone Stock, mentre al suo fianco sta un frate domenicano orante. Nel settore inferiore della tela, un gruppo di devoti, fra i quali un papa (da qualcuno identificato in Giovanni XXII), un cardinale, un doge (forse Marino Giorgi) e altri personaggi. Al centro un angelo trae per un braccio dal profondo un uomo del quale si vede solo la testa. Come ha rilevato Antonietta Spalenza, tale presenza «riporta al cosiddetto "privilegio sabatino", ossia alla promessa della Madonna di liberare dal Purgatorio, il primo sabato dopo la morte, i Confratelli del Carmine morti piamente con lo scapolare, privilegio che sarebbe stato sancito da papa Giovanni XXII con la "bolla sabatina"». Datata dagli studiosi ai primi anni del '600, la tela viene da qualcuno attribuita a Pase Pace. Sul lato destro del presbiterio sorge l'altare della B.V. del Rosario. Sull'altare in scaiola bianca, rosa e verde, fra due colonne corinzie ed una semplice ma elegante cornice, sta una sontuosa tela (olio su tela cm 370x190) di Andrea Celesti raffigurante la Madonna del Rosario col Bambino che mostra la Corona del Rosario, circondata da angeli, con ai piedi i SS. Domenico e Caterina da Siena. L'altare, progettato in marmo sin dal 1770 venne invece eseguito nel 1798 in scaiola da Ercole Peduzzi.


Nel catino dell'abside è raffigurato il Trionfo della Croce, nella cupola del presbiterio l'Assunzione della B.V. Sulle lesene sono affrescati putti che sorreggono figure, insegne episcopali e suppellettili sacre. Gli affreschi furono eseguiti dal bolognese Stefano Orlandi nel 1709. Il presbiterio è adorno delle grandi tele di Andrea Celesti. Salendo a destra si incontra la tela raffigurante "La guarigione dello storpio" con gli stemmi di Girolamo Tamagnini, Scipione Delay e Camillo Sgraffignoli. Sopra la grande tela, si svolge un'altra tela oblunga raffigurante "La pesca miracolosa". Nella lunetta è raffigurato l'evangelista S. Marco. Ai lati del presbiterio si ergono a sinistra l'organo e a destra il controrgano, costruiti nel 1709 da Dal Prato, con stucchi di Lodovico Bracchi e dorature di Leoni. Doveva essere quasi contemporaneo l'organo del quale non si conosce l'autore. Venne poi ricostruito su progetto di fra Damiano Damiani nel 1822 e poi dalla ditta Bianchetti di Brescia. Nell'abside si incontra la tela del "Martirio dei SS. Pietro e Paolo"; nella lunetta, l'evangelista S. Matteo. Fa da sfondo la tela della "Consegna delle chiavi" e, nella lunetta, si nota la raffigurazione dell'Eucarestia. Sul lato di sinistra dell'abside è la tela raffigurante la caduta di Simon Mago e nella lunetta c'è l'evangelista S. Giovanni. Segue la tela della Liberazione di S. Pietro, sormontata da quella della "Vocazione dei SS. Pietro e Andrea" e, nella lunetta, l'evangelista S. Luca. Si ritiene che le grandi cornici siano state eseguite da Tommaso Dal Prato e da Giulio Bezzi e indorate da Francesco Leoni, artisti che, in documenti del tempo, compaiono con relativi incarichi per l'organo, le cantorie, il Gonfalone del SS. Sacramento, la cornice della Strage degli Innocenti e per «agiustar le figure del Cristo».


L'altare maggiore, in marmo bianco di Carrara e verde antico, sostituì, nel 1763, il precedente in legno dorato posto nel 1705. Venne eseguito da Scalvi e Orlandi di Brescia, con bronzi dorati di Carlo Ferrazzoli. Costò circa 20 mila lire, raccolte da famiglie e completate dalle Scuole del SS. e della Dottrina Cristiana. Venne consacrato il 10 aprile 1777. Di particolare eleganza è il coro, con 24 stalli sormontati da statuette raffiguranti i dodici apostoli. Sul lato sinistro del presbiterio si erge la cattedra del vescovo costruita nel 1612, che Gerani descrive "particolarmente pregevole non soltanto nell'intaglio, ricavato nella sua parte centrale da motivi geometrici graziosamente applicati; ma soprattutto nelle decorazioni, consistenti, oltre che nei motivi ornamentali comuni, anche in meravigliose sculture sui bracciali, sul baldacchino e nei festoni a frutta che scendono con artistica movenza; è, insomma, una superba prova di valentìa dell'artigianato dell'epoca e l'ottima conservazione permette di ammirarne ogni particolare".


Scendendo dal presbiterio sul lato sinistro, si erge l'altare della S. Croce. Esso è molto simile a quello del S. Rosario. Ha paliotto a connesse di marmo bianco, verde e rosa; due colonne corinzie sostengono un timpano spezzato con al centro una cartella con un cuore e un sole raggiato. L'altare precedente era in legno, dorato nel 1633 da Antonio Franzini. Era di patronato della famiglia Pilati, e forse voluto dall'arciprete Cristoforo Pilati, sepolto davanti all'altare. La pala (cm 122x190) raffigura la B. Vergine che tiene sulle ginocchia il Cristo deposto dalla Croce, fra angioletti. Forse sull'altare erano esposte le reliquie poi trasferite all'altare di S. Giovanni Battista. I reliquiari vennero sostituiti nel 1764 dalla tela della deposizione, di Sante Cattaneo. Scendendo sul lato sinistro, si incontra l'altare di S. Giovanni Battista. A quanto scrive Antonietta Spalenza: "l'altare attuale deriva da un rifacimento settecentesco: le due colonne grigie giocate sulle venature del marmo, terminanti in capitelli compositi vicini allo stile ionico, sostengono un timpano spezzato con una struttura quadrata centrale, mentre, dietro le colonne stesse, si intravedono due paraste in marmo rosso. Il paliotto, in marmi diversi, mostra una decorazione con figure geometriche quadrate". La tela (cm 370x190) raffigura il Crocefisso con ai lati S. Giovanni B. e, inginocchiata, la Maddalena (a sinistra) e S. Rocco (a destra). È attribuita alla scuola del Celesti. L'altare fu cappellania della famiglia Delay. L'ultimo altare è dedicato a S. Giuseppe. Esso ripete quello di fronte, dedicato a S. Cristoforo, mentre la pala (olio su tela cm 370x190) raffigura S. Giuseppe portato in gloria da due angeli, con ai piedi, a sinistra, S. Filippo Neri e S. Carlo Borromeo e a destra S. Francesco di Sales e S. Francesco Saverio. È opera di Andrea Celesti. L'altare era di patronato dei Fossati, come suggerisce un'iscrizione datata 1642. Sotto l'altare, nel 1943, venne posta la statua di Cristo morto.


Nelle navate laterali sono poste quattro lapidi che ricordano: a destra, i tipografi Gabriele Di Pietro e Paganino e Alessandro Paganini, e il sacerdote Giuseppe Avanzini di Gaino, esimio professore di matematica e fisica all'Università di Padova; in quella di sinistra mons. Cristoforo Pilati e Andrea del fu Geronimo Grazioli, medico e letterato toscolanese. Appoggiato ad una colonna di destra della navata centrale sta il pulpito, opera notevole di intaglio, con un putto al centro e fasci di foglie che lo contornano e che accompagnano anche la scala. Sotto di esso è il banco della Dottrina Cristiana, interessante saggio di mosaico, con incrostazioni di madreperla. Lungo i lati della chiesa corrono cinque eleganti confessionali.


In sagrestia vi è una pala di Domenico Brusasorci, già nella chiesa di S. Domenico, e parecchi ritratti degli arcipreti. Interessanti i banchi e ricchi, particolarmente, gli arredi sacri, fra i quali: un ostensorio in lastre d'argento con dorature, lavorato a cesello, opera dell'orefice viennese Domenico Malugo, bellissime pianete, una delle quali donò don Pietro Zuanelli nel 1722, un trono per l'esposizione del Santissimo, di stile barocco, intagliato e dorato, nel 1755, dal notissimo Tagliapini di Salò, bellissimi pizzi, ecc.


Il campanile, di disegno severo, di solida mole e di altezza proporzionata, fu eretto, a spese del Comune, intorno al 1734 e dotato di campane fuse da Pietro Olmi di Como nella contrada del Porto, con rame importato da Monaco. Il Comune concorse con 4000 lire sulle 14.051 spese. Un nuovo concerto di sei campane venne fuso nel 1843 dalla ditta Innocenzo Maggi di Brescia e collocato su di un castello in legno costruito dal toscolanese Angelo Bonaspetti. La scarsa prova del concerto fuso dal Maggi portò alla sua sostituzione con uno nuovo, di cinque campane, fuso dalla ditta Luigi Cavadini e Figlio nel 1868.




ALTRE CHIESE.


S. MARIA DI BENACO. Santuario veneratissimo, venne addirittura fatto risalire al V sec. d.C., con la dedicazione alla B. Vergine di un tempio di Giove Ammone. Ne scrive nel 1463 Marin Sanudo, affermando: "L'altar grando in mezo la chiesa con quattro colonne, e di sopra uno capitello con jdolo, zoè Iove Ammone, in forma di Ariete, con un buco nella cuba, andava el fumo de li sacrificii suso". Il Gratarolo, altro storico, sulla fine del sec. XVI scriveva: «Ci è una chiesa intitolata Santa Maria di Benaco, che fu prima tempio di Giove; in lei poco fa era un altare (si capirà in seguito il perché di questa affermazione) che era sorretto da quattro colonne di serpentino, o che di serpentino pareano, su cui eravi una imagine, o idolo di Giove Ammone in forma di Ariete con un ricettacolo del fuoco de' sacrificii, opera non molto ben fatta (ricordiamo al lettore trattarsi di scultura etrusca) la quale non ha guari, ne fu levata dal reverendissimo vescovo di Brescia e nostro Domenico Bollani et indi fatta buttar in pezzi dal rev.mo Cardinal Borromeo, arcivescovo di Milano e Legato Apostolico». In effetti S. Carlo, visitando Toscolano dal 12 al 14 di agosto 1580, disponeva tra l'altro che venisse «tolta la sconveniente copertura di pietra sostenuta da colonne sotto la quale era inoltre la statua della B.V.M. ed il suo altare, né poi si celebri nel detto oratorio (chiesa) sotto pena della "sospensione a divinis"». Rimasero a ricordo dell'antico tempio le colonne «sopra delle quali - come scrive P. Antonio da Toscolano - ci stanno altre figurette gentilizie e queste colonne furono levate fuori dalla detta chiesa e collocate avanti la porta di essa sul sacrato o cimitero ed in luogo di quelle figurette pagane, sopra ci fu posta una croce di ferro indorata e ciò per opera e diligenza del M. R. P. Cristoforo di Toscolano, nostro cappuccino, mentre ivi disseminava la divina parola nella quaresima del 1654 e dette colonne si vedono anche al giorno d'oggi (1675) coll'accennata croce». Del primitivo santuario restano affreschi che portano la data del 1464. La devozione dei toscolanesi e degli altri devoti è testimoniata da parecchi fatti. Un manoscritto testimonia che il santuario era molto frequentato «dai popoli propinqui per i grandi stupendissimi miracoli». Anche il Faino nel sec. XVI testimonia la «maxima veneratione» di cui il santuario era circondato. Come ricorda Andrea De Rossi, nel tempio ebbero "sepoltura le personalità di Toscolano per lo più legate al mondo delle cartiere: le famiglie dei Tamagnini, Belloni, Turazza, Paganini, Grazioli, Bonetti, Lombardi, Andreoli e Sgraffignoli".


Il tempio, originariamente più corto di un terzo dell'attuale e con un solo altare nel centro, fu ampliato e abbellito, grazie alle offerte dei fedeli, arricchito di affreschi nel 1464 e con l'aggiunta dell'abside nel XVI secolo. Nel triennio 1829-1831, lo zelo religioso, accoppiato però a incompetenza artistica, indusse una donna povera e religiosa, come attesta una lapide che fino a pochi anni fa era collocata a destra dell'ingresso del Santuario, a raccogliere denaro per iniziare un'opera di restauro che deturpò il tempio, ricoprendone gli affreschi e le decorazioni di pregevole fattura con uno strato di calce e sovrastrutture barocche. Il sagrato fu sconvolto ed appianato e le colonne furono trasportate in testa alla gradinata, dalla quale si scende nel piazzale antistante il Santuario. Esse furono collocate sopra un piedestallo «nuovo quadrato», alto circa un metro, di pietra lavorata e portano ancora impresse le scannellature ov'erano infissi i «brani» di ferro che portavano la cuba o capitello. Durante i restauri, venne alla luce un mosaico della superficie di quattro metri quadrati, intessuto di pietruzze bianche, verdi, rosse, gialle, variegate, collocato innanzi all'ingresso, mentre al posto della porta laterale sinistra (le porte laterali furono aperte nel 1829) giacevano due sepolcri in grandi lastre di cotto, racchiudenti degli scheletri. Un atto solenne, il 9 settembre 1855, fu firmato dall'arciprete don Giovanni Seni e dai sacerdoti della parrocchia, davanti ai "Rappresentanti dei corpi morali del Comune": constatato che "Il Colera Asiatico devastatore, che invade da più mesi tanta parte d'Europa, arrestò il suo corso temuto ai confini di questo Comune illeso tuttora dal ferale miasma", faceva voto solenne "di erigere Statua decorosa in vivo rappresentante la Madre divina Maria al cui potente patrocinio ascrive un così segnalato privilegio". Nel mezzo di un terreno offerto nel 1852 da Santa Andreoli venne innalzato il monumento alla B. Vergine Immacolata, opera degli scultori fratelli Giov. Battista e Giovita Lombardi di Rezzato, i quali lavorarono in comune accordo con Luigi Poletti, autore dell'«Immacolata» già innalzata in Piazza di Spagna, a Roma. I solenni festeggiamenti svoltisi in occasione dell'inaugurazione del monumento durarono tre giorni: 7-8-9 novembre 1858; da allora ebbero inizio le illuminazioni delle case e delle strade che, ogni cinque anni, si ripetono in occasione della ricorrenza dell'8 settembre fissata dal voto del 1855. Il santuario subì nuove modifiche nel 1902: venne chiuso il rosone nel centro della facciata (oggi ripristinato) e furono aperte due finestre. Invocata con solenni funzioni durante la I guerra mondiale, la Madonna di Benaco fu al centro della devozione popolare anche nella II guerra, durante la quale venne formulato, l'8 settembre 1944, un solenne voto di preservazione dai pericoli incombenti, anche per la presenza in loco di ministeri e truppe della R.S.I. Nel frattempo, l'arciprete don Verzelletti interveniva con opere di miglioramento e con la sostituzione dell'antica statua della Madonna, sfasciatasi durante i restauri, con una nuova.


In adempimento del voto, nel 1945 il santuario fu sistemato e decorato. Nel 1946 il monumento dell'Immacolata del 1858 venne traslocato da Piazza dei Caduti nell'attuale posizione, davanti alla chiesa parrocchiale, al posto del monumento dei Caduti. Nuovi interventi vennero compiuti sotto la guida dell'arch. V. Armellini nell'anno mariano 1954. Si procedette allo scrostamento dell'abside, della volta e delle pareti del Santuario. Tale paziente lavoro di restauro, eseguito dalla ditta Manenti con rara competenza e abilità nel biennio 1958-59, mise alla luce e riportò al primitivo splendore una pregevole serie di affreschi del XV secolo, che oggi tutti possono ammirare. L'11 settembre dello stesso anno si svolse, preceduta da giorni di intensa preparazione spirituale, la cerimonia dell'incoronazione della Madonna di Benaco e la sua proclamazione a Regina del Garda. Lavori di copertura vennero, infine, compiuti nel 1987, sotto la guida dello stesso Armellini, ampliati poi ad un restauro più vasto su progetto dell'arch. Giuseppe Ceruti.


La facciata è a lesene e adorna di un elegante portale. L'interno, secondo Solitro e Fossati, "si distingue per l'adozione di una volta a botte e di due arcature laterali, cui bene si accompagna la decorazione dipinta a finti cassettoni e a candelabre. Gli affreschi orientano circa la datazione dell'architettura (pervenutaci del resto rimaneggiata, specie nel presbiterio)". Veneratissima è la statua della B.V. che porta in braccio il Bambino con un pesce in mano e che, con il braccio teso, regge lo scettro regale.




S. GIORGIO IN ROINA. Antica, posta, come scrive A. De Rossi, "sopra l'altura, fra il lago e la spianata delle Brede, un tempo palude, bonificata dai frati domenicani durante la loro permanenza a Toscolano. È stata eretta laddove in epoca romana si svolgevano i riti del culto di Ercole, che nella mitologia è raffigurato mentre affronta prove simili a quelle di S. Giorgio che combatte il drago malefico". Divenne poi parrocchia (v. Roina) fino al 1988, quando venne riassorbita nella parrocchia di Toscolano.




S. GIUSEPPE. Chiesa sussidiaria alla parrocchiale, costruita nel 1962, su disegno dell'architetto Vittorio Armellini. Si trova al centro del paese vecchio, su via Trento, ed è stata costruita per favorire la partecipazione alla Messa festiva da parte degli anziani e quella feriale anche da parte delle Suore, che hanno vicino un asilo e una Casa di soggiorno; inoltre, come punto di riferimento per la gioventù femminile, che in quel tempo aveva locali separati per le sue riunioni di Azione cattolica e per il catechismo. Infatti, sotto la chiesetta, ci sta un interrato per la ricreazione e, accanto, alcune aule per il catechismo e le riunioni. È ad aula unica, moderna, ricca di vetrate, in particolare quelle istoriate, che rappresentano una via Crucis su cartoni disegnati da Oscar Di Prata, messi in opera dalla vetreria F.lli Bontempi di Brescia.




SANTA MARIA DI SUPINA. Sorge in località Supina, cioè "sotto" o ai piedi della montagna e fino al 1988 rimase nell'ambito della parrocchia di S. Giorgio di Roina, poi abolita. La costruzione venne da qualcuno fatta risalire a secoli lontani e ampliata nei primi anni del sec. XIV; mentre, più verosimilmente, venne eseguita tra gli anni 1460-1490 e più tardi ampliata. Visitandola, il 21 settembre 1566, il vescovo Bollani la trova chiusa e che "si governa da sola". S. Carlo B., nel 1580, oltre ad ordinare che il presbiterio venisse chiuso da inferiate, ingiungeva che, entro tre giorni, venissero tolti i tre altari laterali. Sull'onda della visita carolina, i cartai Sgraffignoli di Pulciano disposero, nel 1581, 1590 legati per l'abbellimento del santuario, per cui negli anni fra il 1610 e il 1630 il soffitto fu impreziosito da 72 formelle in legno lungo l'intera navata. La devozione continuò nel tempo. Nel 1836, in riconoscenza per la liberazione dal colera che aveva fatto in realtà poche vittime, il santuario venne restaurato e arricchito di un nuovo pavimento. Un voto e nuovi interventi furono compiuti dopo la prima guerra mondiale. Cadde in stato di abbandono negli anni seguenti e tenuta aperta da alcune pie donne. Negli anni Ottanta del sec. XX, per interessamento del parroco di Roina e Mornaga, don Antonio Olivari, e dell'Associazione storico-archeologica della Riviera (ASAR), vennero attivati enti e persone che provvedessero ad un restauro. I lavori eseguiti vennero inaugurati nel luglio 1986 dal vescovo ausiliare mons. Olmi. Nel 1991, si procedette al ripristino degli affreschi e degli ex voto. Nel 1992, per la custodia del santuario e della casa annessa e per la loro valorizzazione, si è costituita un'associazione "Amici del santuario di Supina".


Semplice è la facciata, nella quale si apre un oculo tondo e un portale secentesco. Il campanile è pure del sec. XVII. L'unica navata è rotta da tre archi tardo romanici, che la dividono in tre campate. L'arco trionfale è a tutto sesto; l'abside, di impronta romanica, è scandita a vele dalla volta a crocera. In prossimità del presbiterio si aprono due cappelle laterali. Le pareti della navata sono decorate da telamoni nei quali sono stati identificati i dodici profeti minori, ai quali si alternano tele con i fatti della vita della B. Vergine. Sulla controfacciata sono dipinte figure di sirene. Altre otto figure di difficile identificazione, probabilmente di profeti e di sibille, sono dipinte nei pennacchi degli archi. Ai lati dell'arco trionfale sono state disegnati, nel 1983, a sinistra il Cristo e la B. Vergine e a destra i SS. Pietro e Paolo. Il soffitto è a formelle di legno dipinte a tempera con piccole figure mitologiche. L'altare maggiore è in legno con paliotto intagliato e dorato, con ai lati l'arcangelo Gabriele e la B.V. L'imponente ancona accoglie una statua lignea della B. Vergine, del '400, che, secondo Adriano Peroni, "sembra riattingere a remote formule romaniche", mentre il Bambino sembrerebbe aggiunto tempo dopo. Sono secenteschi gli stalli del coro, il Crocifisso ligneo che pende dall'arco trionfale; settecentesche le balaustre come la cantoria. Paliotti del seicento ornano le cappelle laterali.




MADONNA DEL VIANDANTE. Esiste in fregio alla Gardesana Occidentale, in posizione panoramica, in località Cecina e venne eretta, tra la fine del '700 e gli inizi dell'800, accanto al cimitero poi dismesso. Ne aveva promosso la costruzione Pellegrino Setti q. Giuseppe, il quale, il 30 ottobre 1828, rimetteva la proprietà del terreno sul quale sorgeva la chiesetta, con le chiavi e le elemosine della stessa, al Commissario di Gargnano. La chiesetta passò poi, verso la fine degli anni 30 del sec. XX, in proprietà dell'ANAS. Venne abbellita nel 1927 con un dipinto a tempera, del prof. Enrico Morelli, raffigurante la "Madonna orante" e dal titolo "Avemaria". Restaurata e affidata poi dall'ANAS al Comune di Toscolano-Maderno e alla Comunità Montana Alto Garda, venne benedetta il 25 giugno 1988 da mons. Olmi.




SANTELLE. A O dell'abitato di Mornaga c'è una santella dedicata a S. Carlo B.


CRISTO DEGLI ABISSI. Una statua di Cristo in pietra fu deposta, su iniziativa dei soci del Tritone Sub di Desenzano, nel novembre 2000, a 30 metri di profondità, nei pressi del porto di Toscolano.




CHIESE SCOMPARSE.


S. STEFANO poi S. Antonio abate. Esisteva nella parte alta della piazza Caduti, tradizionalmente ritenuta, secondo Silvan Cattaneo, la trasformazione di un tempio a Nettuno; secondo Donato Fossati a Saturno; venne dapprima dedicata a S. Stefano e, in seguito, a S. Antonio ab. Nel 1328 viene citata come "ecclesia Sancti Stephani posita in contrata Cortenolis", che il Fossati cita come S. Stefano in Corte Regia. Probabilmente fu anticamente diaconia della pieve. Era a tre navate, di forma quasi quadrata. Ne parla S. Carlo. Come sottolinea D. Fossati: "la qualità dei materiali di costruzione, la qualità e forma di quelli di cotto constatati nelle successive trasformazioni persuasero dell'origine romana; inoltre nel pavimento interno e sotto il portico antistante il tempio, portico demolito solo nel 1844, vennero alla luce lapidi romane, tra le quali la famosa a Marco Aurelio Dubitato e il cippo eretto da Lucio Settimio Severiano Felicione a Nettuno per la salute di Settimio Severiano, simile a quello (decapitato però del plinto) che anni fa trovavasi davanti all'antico sagrato presso il Duomo di Salò". Lo stesso D. Fossati soggiunge che: "Nell'estate del 1889, restaurandosi la chiesa di S. Antonio, già di S. Stefano, per adattarla a salone per adunanze pubbliche e per collocare sulla facciata le lapidi a Vittorio Emanuele e a Garibaldi (ora tolte colla demolizione del bel fabbricato) si scoperse una iscrizione ricordante che la muraglia settentrionale abbattuta nel 1133 per allungare lo sfondo, era tutta coperta di pitture ed emersero pure i caratteri prettamente romani del fabbricato specialmente nella muraglia della facciata, intarsiata da un doppio corso di mattonelle in cotto". Il complesso venne abbattuto negli anni '30 per edificare, al suo posto, l'albergo "Adria".




SS. FILIPPO E GIACOMO AI LUSETI. Venne fatta edificare nel sec. XVI dalla ricca famiglia di cartai Tamagnini, proprietaria di cartiere a Lume. Venne a lungo gestita dal parroco di Gaino e dal 1953 passò alla parrocchia di Toscolano. In completo abbandono nel 1990, la chiesetta e la casa annessa vennero ricostruite dall'associazione "Amici della chiesa di Luseti", promossa dagli scout e da volontari (alpini in prima fila) ed inaugurata il 28 settembre 1997. Nel maggio 2001 venne rubata la campana. La zona è diventata campo di scout. Dopo la conclusione dei lavori di restauro dell'altare dedicato ai SS. Filippo e Giacomo, nell'occasione del quale è stata scoperta la firma dell'autore Davit Reti, uno stuccatore di alto livello di Laino (Como), il 14 settembre 2003 è avvenuta l'inaugurazione del restauro stesso.




S. BENEDETTO. Eretta nella contrada Ponte (via Religione) dal monastero di Leno, il quale manteneva ancora il patronato nel 1658 e oltre, e vi mantenne un Rettore. Passata in commenda a favore di Gio Francesco Morosini, Patriarca di Venezia, fu da lui lasciata in abbandono, dandola poi in custodia agli eredi di Gio Battista Zuanelli di Toscolano, i quali la riattarono e mantennero a proprie spese sino a che ne divennero proprietari. Il dr. Zeffirino Zuanelli, morto in Padova e sepolto nella chiesa degli Eremitani, istituì una cappellania perpetua della sua famiglia, confermata dai successori nob. Gioan Pietro Zuanelli e contessa Lucrezia Papafava, coniugi morti senza figli nel 1866 e 1867. Successivamente divenne di proprietà delle suore della Sacra Famiglia e unita all'oratorio femminile. Alienati agli inizi degli anni '60 gli immobili, la piccola chiesa venne trasformata in abitazione privata.




S. DOMENICO. Eretta forse nel sec. XIII e poi riedificata nel complesso del convento detto "La Religione". È opinione di Donato Fossati che, sorta su un sacello a Bacco, fosse dedicata a S. Andrea. Volta verso il lago, era, a quanto scrive ancora il Fossati: "piccola, disadorna, con cinque altari dedicati a S. Domenico, S. Gio. Battista, S. Cristoforo, S. Antonio Abate, S. Gottardo; rifatta la chiesa, quello di S. Antonio passò a titolare della chiesetta di S. Stefano, e in seguito alla parrocchia di Gaino, quello di S. Gottardo venne tramutato in battistero per ordine di S. Carlo e la pala di S. Domenico dipinta dalla Brusasorci (B. Ricci) passò nel santuario della Madonna". Soppresso nel 1772 il convento, la chiesa, sconsacrata e chiusa, venne ridotta a magazzino.




S. NICOLA. Citata nei designamenti dell'episcopato Maggi.


S. MARIA MADDALENA. Minuscola chiesetta, sorge a Segrane. È da decenni in completo abbandono.


S. MARIA DELLA NEVE a Campiglio di Cima. Viene costruita nei primi anni del '600, dietro richiesta di autorizzazione di edificazione del 15 maggio 1602, trovandosi a cinque miglia dal paese ed abitandovi 36 anime. Era adorna di due tele di autori ignoti raffiguranti la Madonna della neve e S. Gaetano da Thiene ai piedi della Madonna. Venne restaurata da certo Zambelli, che fece voto di compiervi un pellegrinaggio al mese qualunque fossero le condizioni del tempo. Ogni anno il 5 agosto si celebrava una festa religiosa che vedeva la partecipazione di numerosa folla proveniente da varie parti della Riviera. In questa occasione si ritrovavano annualmente tagliaboschi, falciatori, mandriani e carbonai: ciò era motivo di generale allegria e divertimento all'ombra dei maestosi faggi, ma anche di affari e di nuovi contratti. La proprietà è poi passata all'Azienda Regionale delle Foreste, che, tramite l'opera volontaria degli alpini, ha ristrutturato sia la chiesetta che gli altri fabbricati adibendoli a rifugio alpino ed inaugurandoli l'1 ottobre 2000. In sostituzione dei due quadri scomparsi è stato posto un plastico, riproducente la Madonna, dell'artista Angiolino Aime di Salò.




ECONOMICAMENTE Toscolano ha vissuto dei suoi boschi, prati, campi coltivati e di una ricchezza di materie prime: legno, ferro e soprattutto acqua; questa, favorita soprattutto dal Toscolano, torrente o meglio fiume, per la sua continuità, ha permesso dal sec. XIII uno sviluppo industriale di grandi dimensioni, specialmente nel settore della carta (v. Toscolano, torrente). La forza dell'acqua del fiume nel 1899 venne potenziata dalla centrale elettrica di Covoli, costruita su progetto dell'ing. Giovanni Quarini.


Scontato che i primi abitanti siano vissuti di caccia e di pesca, in seguito svilupparono lo sfruttamento dei boschi e l'agricoltura, specialmente nella zona pianeggiante, con la coltivazione dei cereali, ampliatasi poi con quella degli agrumi, dell'olivo, ecc. L'allevamento del bestiame ha avuto sviluppi anche recenti. Nel marzo 1928 veniva eretta la Latteria sociale, fra i produttori di latte. Una nuova Latteria sociale, per raccogliere il latte e produrre formaggio, venne fondata nel 1950. In decadenza, nel maggio 1986 venne rimpolpata da un gruppo di giovani di Maderno, che, pur avendo mantenuto sulla carta la sede a Navazzo, in realtà fissarono il loro centro operativo a Toscolano, in via Trento. Dapprima si erano dedicati alla manutenzione del verde pubblico, poi ai cavalli. Abbastanza diffusa, ma quasi solo finalizzata all'uso familiare del vino, fu fino a pochi decenni fa la viticoltura. Per qualche secolo ebbe rilievo la coltivazione del lino, destinato a Salò per la produzione di refe. Essa scomparve verso la fine dell'800. Nel 1977 veniva avviata l'elicicoltura (allevamento di lumache), per la quale veniva trovato in Gaino un ambiente ideale per temperatura e tipo di terreno.


Si fa risalire ai tempi di Roma, ma anche prima, la coltivazione dell'olivo che, come ha sottolineato Piercarlo Belotti: "è rimasta la coltura più importante per la presenza di numerosi frantoi legati ai mulini delle seriole, di torcoli da olio sparsi anche a Montemaderno ed al Borgo. Alcuni anni fa a Maclino venne alla luce, durante la ristrutturazione di una casa, un'antica testimonianza di questa attività molitoria. Si trattava di una grossa pietra, a forma quasi rettangolare, lunga oltre tre metri, scolpita all'interno per macinare le olive. Sul lato più corto, verso il fondo, vi era una canaletta che serviva a far defluire il mosto oleoso in altri recipienti". Micidiale per l'olivo fu l'inverno 1788. Si susseguirono alterni tempi di sviluppo e di stasi. Nel 1877, con 2192 ettari coltivati a olivi, Toscolano era al quarto posto in Riviera. In seguito si andarono riducendo anche gli oleifici. Agli inizi del '900 al Ponte e alla Religione erano in funzione due frantoi: uno di proprietà Alessi, presso i locali dell'antico mulino comunale, e l'altro di proprietà Ciscato. Al "Porto de' frati", nella ex cartiera Visintini, il 14 settembre 1902, venne costituito in forma di cooperativa l'Oleificio Sociale benacense, che raccolse numerose adesioni tra gli operatori economici. Esso lavorava razionalmente il raccolto, utilizzava i cascami e commerciava il prodotto. Creò pure un vivaio di olivi per la diffusione delle migliori varietà (v. Oleificio sociale benacense).


Viene attribuita ai Religiosi Serviti l'importazione, nel sec. XIV nel loro convento di Maderno, della coltivazione dei limoni, che andò coinvolgendo fasce di popolazione sempre più numerose, impiegando, come sottolinea il Belotti, molta manodopera, richiesta «in ogni fase del ciclo produttivo e della commercializzazione: dalle continue e assidue cure colturali, alla manutenzione delle stesse limonaie e poi alla cernita e spedizione dei limoni verso le remote località danubiane e verso le grandi città dell'Alta Italia». Una battuta d'arresto si ebbe nel 1855 con il diffondersi della "gommosi", che causò una caduta verticale della produzione. La crisi venne superata, in parte, nel 1873, grazie all'intuizione di Francesco Elena, di usare cioè l'arancio amaro come portainnesto per i limoni. Barriere daziarie imposte negli stessi anni portarono tuttavia alla decadenza della produzione di agrumi, per cui le limonaie rimasero spogli scheletri testimoni di una produzione un tempo rigogliosa. Naturalmente andò declinando anche la produzione di "acqua di cedro", in sviluppo dalla metà del '700. Una fabbrica di acqua di cedro dei Fratelli Villa era tuttavia in funzione negli anni '30. Negli stessi anni venivano promossi, dalla Cattedra ambulante di agricoltura, corsi di frutticoltura, con decine di allievi. Nella seconda metà dell'800 si diffuse il commercio di foglie d'alloro. Chi ha scritto di Toscolano ha considerato come non rilevante la pesca, mentre alla fabbricazione di barche pochi artigiani si dedicarono. Il Cantiere del Garda, sorto in tempi recenti, chiuse negli anni '80.


Specialmente dal sec. XVII fiorì anche in Riviera e a Toscolano la coltivazione del gelso e la bachicoltura, che moltiplicò l'uso di fornelli per filare la seta e che assorbì una sempre più numerosa manodopera femminile. Con l'introduzione dell'energia elettrica la lavorazione manuale andò sempre più diminuendo per dar luogo all'industria. Nel 1897, per iniziativa del tedesco Otto Vezin, proveniente da Krefeld, nasceva, sulla strada per il porto, la tessitura "Tessile", che in breve assorbì un centinaio di lavoranti. Un setificio veniva promosso nel 1898 da F. Deuss, occupando 127 operai per la lavorazione di seta e cotone, assieme ad una tintoria e ad un laboratorio chimico. Allontanato il Vezin dall'Italia, agli inizi della I guerra mondiale, gli subentrarono G. B. Ciscato e N. Oliverio. Ritiratosi il Ciscato, rimase unico proprietario il secondo, che continuò fino agli anni '50. Nel frattempo nasceva a Toscolano una fabbrica di cravatte dei fratelli Locatelli.


Il diffondersi di vigneti e di limonaie creò un'esigenza di legname che diede notevole sviluppo alla selvicoltura, specie ai castagneti, che si diffusero particolarmente a Vesegna, alle Beole sulle pendici del monte Pizzocolo, alle Fiogarie ed alla Selva, alle spalle di Monte Castello. Il tracollo dell'olivicoltura e il limitarsi della viticoltura portarono ad un graduale abbandono dei boschi ed alla scomparsa di boscaioli e carbonai. Nel 1964 sorse lo stabilimento della ditta Fioravanti di Milano (dove già esisteva lo stabilimento della tessitura), addetta all'assemblaggio di componenti elettronici; questo, a sua volta, nel 1968, lasciò lo spazio ad un'impresa di Lumezzane produttrice di oggetti di rame e ottone, che pure finì entro non molti anni.


Viene fatta risalire, da qualcuno, agli Etruschi la lavorazione del ferro, che si sviluppò sotto Roma e continuò poi, ma ebbe ampio sviluppo specie dal secolo XV. Oltre all'acqua del fiume per i magli, servirono la legna e il carbone per le fucine; venne sfruttato per questo, nel territorio, un filone di carbon fossile. Ancora nel 1808 si focalizzò l'attenzione su una miniera di carbon fossile "nei monti di Toscolano" che avrebbe potuto chiamare gli speculatori ad utilissime intraprese. Il governo avrebbe dovuto contribuire a risollevare tale industria e a dare lavoro ai valligiani, somministrando "quelle istruzioni sugli avanzamenti delle scienze e delle scoperte, che sono di gran sussidio in simili operazioni". Ma non si ha notizia che il richiamo molto promettente abbia avuto seguito.


Sulla fine del sec. XVI erano parecchie le fucine e i magli, frammisti alle cartiere. "Sovente, come ha rilevato il Belotti, gli stessi cartai erano anche proprietari delle ferriere, da cui, senza sosta, venivano forgiati attrezzi per l'agricoltura (pale, vanghe, badili, forche), chiodi per l'edilizia e armi (bombarde e colubrine) per il potente esercito della Serenissima". Su tutti si distinsero gli Assandri di Gaino che, per la fedeltà e qualità dei prodotti destinati alla flotta veneziana, ricevettero non poche benemerenze e furono pubblicamente ringraziati e insigniti di titolo nobiliare nel 1690 dal doge Morosini. Costoro cedettero poi le loro fabbriche ai Bottura di Gardone, i quali, a loro volta, nel 1801 le passarono ai Visintini, con officine in località Religione. Ma vi furono anche gli Assandri, il cui cognome divenne poi Delay, una delle famiglie più ricche del luogo, che fecero, ancor prima che con la carta, la loro fortuna con la produzione di catene e ancore per la flotta veneziana. Attivo fu il maglio dei fratelli Zani, in località Quattro Ruote. Con le Ducali 10 e 11 febbraio 1689 - 3 febbraio e 11 dicembre 1690, il Doge Morosini Pelopponesiaco lodava e ringraziava Giulio Delay che aveva fabbricato tremila bombe, le quali, caricate sulla flotta salpata da Venezia il 24 maggio 1693, servirono a coronare di vittoria per l'ultima volta gli stendardi della Repubblica. In epoca napoleonica le ferriere, passate in proprietà dei Visintini, si ripresero, trasformate in chioderie, e, come scrive D. Fossati, «ebbero intensa attività e ingente traffico, tanto da occupare, soltanto in luogo, più di centocinquanta operai; il prodotto si smerciava tutto nel Veneto e nella Romagna, ma anche qui venne la decadenza». L'industria del ferro riprese nella seconda metà dell'800, quando era attiva la ditta Angelo Pagani, che fabbricava segherie a nastro di varie forme e da traforo, occupando 56 operai. Agli inizi del '900 esistevano piccole segherie delle ditte Ernesto Baumstark e Angelo Pagani, con lavorazioni fatte anche a domicilio. Entrata in crisi l'attività siderurgica e meccanica, si svilupparono altre iniziative industriali. Venivano inoltre fondati i laboratori Fioravanti per la produzione di trasformatori, avvolgimenti, bobine telefoniche, ecc. Nel 1975 la ditta occupava 120 dipendenti, ridotti però a 78 nel 1977.


Negli anni '50 del secolo XX sono in attività 11 imprese edili, un'industria chimica (Andrea Facchi), due molini, due officine meccaniche, 8 oleifici, una tessitura serica, due tipografie. Ma la più importante attività manifatturiera toscolanese fu, ed è ancora in parte, quella della carta. Introdotta, secondo alcuni, dagli Arabi in Spagna nel sec. XII e da qui in Liguria e Toscana; secondo altri importata dai Veneziani da Costantinopoli dopo la quarta crociata nel 1201, l'industria cartaria si propagò sin dall'inizio della seconda metà del sec. XIII a Toscolano e Nave. Il Grattarolo arriva al punto di far inventare la carta da un giovane che avrebbe scoperto come si potesse scrivere su certe vele di barche affondate nel lago e finite sulla battigia. È un fatto che la produzione della carta si andò intrecciando sempre più direttamente con la storia e la vita di Toscolano. Principale coefficiente fu la forza idraulica del fiume, mentre le materie prime furono panni vecchi, cotone di scarto, legno e lino per l'imbiancatura. La prima produzione e la costruzione di due piccole cartiere è stata attribuita anche ai Domenicani stanziatisi in località Religione verso la metà del secolo XIII. Quello che è sicuro è il fatto che nel 1381, sotto i Visconti, la produzione cartaria era già in piena attività. Donato Fossati cita infatti un documento di tale anno, del notaio Belloni di Gaino, nel quale si stabilivano minuziose e precise norme per la suddivisione dell'acqua del fiume e venivano menzionati «i fulli a papyro, qui appellantur fulli Bellinzani». L'ottima qualità della carta favorì molto la diffusione del prodotto, per cui nel 1562 esistevano una decina di imprese con numerosi tini da macero, mentre nel 1608 il provveditore veneto di Salò segnalava al Senato l'esistenza in Toscolano di ben 160 folli nei quali erano impiegati 500 "mercenari". Anche durante il '700, nonostante le difficoltà comportate dal declino economico e politico della Repubblica Veneta, le cartiere, da 29 nel 1720 salivano a 36 nel 1782. Nel 1789 si contavano 40 cartiere con alcune centinaia di addetti direttamente occupati ed altri numerosi che lavoravano nelle officine dell'indotto.


Scorrendo le pagine di D. Fossati appare una lunga serie di nomi ricorrenti nella storia del paese. Risalendo dalla foce del fiume, verso la valle, si incontravano: sul Promontorio e alla Religione: i Caravaggi, i Monselice, i Franceschini Bonaspetti, i Visintini, e le due piccole fabbriche dei Frati Domenicani operanti fino al XVIII secolo; al "Ponte vecchio": inizialmente i Bellintani e, quindi, un lungo elenco di famiglie tra cui i Bonfadini, i Benaglia, i Setti, i Grazioli e, nel secolo XVIII, gli Zuanelli, cui seguirono, infine, gli Andreoli; a "Maina di sotto": gli Assandri, i Veronese, gli Emmer, i Bianchi - Maffizzoli e infine i Donzelli; a "Quattro ruote" e "Lupo": gli Sgraffignoli che divennero proprietari anche delle Garde. La cartiera di Lupo passò agli Alberti e quindi ai Fossati; a Maina: i Calcinardi, poi i f.lli Andreoli e, ultimi, i Franceschini; a Caneto: Luigi Andreoli, gli Avanzini padre e figlio e, infine, i f.lli Simonelli di Toscolano. La cartiera dei Paganini, anch'essi padre e figlio, ambedue noti stampatori, passò di proprietà ai Fossati, agli Zuanelli e ad Andrea Maffizzoli; in contrada Gatto: gli eredi Girolamo Avanzini di Gaino fino al 1850; a Luseti: i Tamagnini di Toscolano, poi Gaudenzio Fossati fino al 1800 e, infine, i f.lli Maffizzoli; ai Covoli: i Vicario di Gaino dal XVI al XIX secolo.


La crisi economica del periodo napoleonico colpì duramente anche tale produzione, per cui, nel 1807, il Sabatti nel suo "Quadro Statistico del Dipartimento del Mella" contava a Maderno e a Toscolano 28 cartiere, mentre altre 11 erano dislocate in altri luoghi del bresciano. «Le cartiere non funzionavano tutto l'anno e davano, coi loro 68 tini, una produzione di circa 180.000 pesi di carta, di cui centocinquantamila destinati all'esportazione, per un importo complessivo di lire bresciane un milione e mezzo. Il Dipartimento forniva 103.500 pesi di stracci, contro un fabbisogno di 283.500, onde si spendevano ogni anno lire bresciane 370.000 per approvvigionarsene». Negli anni seguenti, venne registrata una netta ripresa, per cui al 1825 nella zona di Toscolano operavano 44 cartiere, con un totale di 76 tine, che davano lavoro a 498 uomini e 602 donne. La produzione annua raggiungeva le 130 mila risme di carta ordinaria, fina e sopraffina, per un valore di 1,3 milioni di lire, di cui un terzo calcolati come utile (Stato dell'industria 1833, p. 322). Nel 1836, con 74 tine, 21 cilindri e 760 addetti, la produzione raggiungeva le 156 mila risme, parte commercializzate nel Lombardo-Veneto, parte inviate a Trieste per essere spedite in Turchia, in Egitto e in America. Gli stracci provenivano dal Mantovano, dal Cremonese e dal Veneto. L'industria cartaria si andò poi di nuovo ridimensionando per cui nel 1850 a Toscolano funzionavano 25 cartiere sulle 35 del Bresciano.


Nella Esposizione Bresciana del 1857 sulle 27 cartiere di Toscolano emergevano già quelle di due imprenditori: Domenico Visentini e Andrea Maffizzoli (v. Maffizzoli o Maffezzoli, cartiere). E sono queste che predominano negli anni seguenti, mentre le più piccole si vanno riducendo a 15 nel 1867. Il successivo ingrandirsi è dovuto alla costruzione della strada della valle delle cartiere, avvenuta dal 1871 al 1880 e soprattutto all'introduzione, nel 1875, da parte dei fratelli Andrea e Giuseppe Maffizzoli, di una macchina continua. Alla cartiera, nel 1904, la ditta Andrea Maffizzoli affiancava una fabbrica di pasta di legno di tre batterie di sfibbratori, capaci di produrre dai 30 ai 35 quintali di pasta ciascuna con l'impiego complessivo di 750 cavalli dinamici. Poiché sono necessari tre quintali circa di legno per ogni quintale di pasta, così lo stabilimento è destinato a trasformare giornalmente 270 quintali di tronchi d'albero, da attingere ai pioppeti del Mincio, dell'Oglio e del Chiese. Nel 1914 esistevano ancora alcune cartiere, oltre a quelle Maffizzoli e dei Simonelli: quelle Riunite, degli Andreoli, che occupavano 390 operai. Nel 1937 i Maffizzoli cedettero le loro cartiere alla Società Cartiere Beniamino Donzelli, che, entrata in crisi fin dal 1973, le cedette alla fine nel 1989 al Gruppo Marchi di Vicenza.


La produzione cartaria portò con sé quella tipografica con il trevisano Gabriele di Pietro (v.), che da Venezia si trasferì a Messaga, ospite del cartaio Scalabrino Agnelli e nel 1478 vi stampò il "Donatus pro puerulis", un'altra dozzina di libri e altri volumi. Dal 1519 al 1538 arrivò a Toscolano Paganino Paganini (v.), il quale, con il figlio Alessandro, produsse una serie di varie prestigiose edizioni. La tipografia toscolanese assunse tale prestigio che Venezia, nel 1520, la esentò dai dazi di importazione. Scomparsa con i Paganini, ricomparve in tempi molto più recenti con la tipografia Arturo Giovanelli.


Paese sempre più industrializzato, Toscolano vide lo sviluppo del turismo più tardi che nella vicina Maderno e nella Riviera in genere. Infatti nel 1873 Enea Bignani si limita, nel suo "Giro intorno al lago di Garda", a citare la locanda del "Cavallino Bianco", particolarmente raccomandatagli dagli amici. Di essa scrive anche il letterato tedesco Paul Heyse, che, di stanza a Gardone Riviera, nel 1900 passa qualche tempo al Cavallino di Toscolano, essendogli stata presentata la locanda da un amico che la vantava per la pulizia e il modico prezzo. La locanda è ancora unica nel 1903, quando Filippo Micheletti nella sua Guida "Al Garda" la definisce "Un buon civile albergo, del Cavallo Bianco detto Candido". Mortificato del tutto nella guerra 1915-1918, il turismo rivela deboli segni di ripresa negli anni '20. Infatti nel 1926 le guide del Garda accennano all'esistenza di due pensioni: "Monte Baldo" e "Mafizzoli Frida"; mentre a Maderno esistono due pensioni e l'Hotel Milano. Ma ancora alla fine degli anni '20 e nel 1937 il "Cavallo Bianco" di Caterina Bendinoni è il solo citato, assieme a quattro "caffè", mentre a Maderno si registra già un brillante risveglio. Dopo una nuova pausa imposta dalla II guerra mondiale, che registra un suo pseudoturismo "coatto" per la presenza di sfollati, di funzionari di ministeri e di militari, un vero rilancio si verifica dagli anni '50.


Nel 1953 si costituì una Pro-Loco. Nell'elenco degli alberghi, fornito dalla Pro-Loco nel 1958, il numero di Hotel, pensioni, locande salì a otto contro i dieci di Maderno. Allo sviluppo del turismo contribuì il potenziamento dei trasporti su acqua e specialmente l'istituzione, nel 1959, del traghetto per autoveicoli comunicante con la sponda veronese di Torri del Benaco. Nel 1990 gli esercizi alberghieri a Toscolano sono tredici, come tredici sono quelli di Maderno. Già due anni dopo in tutto il comune gli alberghi sono 34, mentre coprono 180 mila mq i campeggi. Nel frattempo, come ha sottolineato il Belotti, «ampie porzioni del territorio cambiarono destinazione: agli antichi uliveti si sostituirono nuove costruzioni per il fine settimana, aperte solo pochi mesi all'anno. Scelte urbanistiche e amministrative che allora sembravano la soluzione dei mali dell'economia di Toscolano-Maderno, avviata sulla strada di un drastico ridimensionamento tanto delle cartiere quanto dell'industria tessile, lasciarono aperto un vivo dibattito sull'uso di questo singolare ambiente per conservarne integri gli aspetti più salienti e originali».


Il credito si presentò nel territorio con la Piccola Banca di S. Ercolano di Maderno e con l'agenzia del Credito Padano, che poi la Banca S. Paolo preleva nel 1929, allargando sempre di più la sua presenza e incidenza. L'agenzia aperta in via Caduti verrà poi trasferita nel gennaio 1981 in una nuova sede in via Statale.




PALAZZI, VILLE E CASE.


Tra le abitazioni notevoli di Toscolano, ancora almeno in parte visibili, sono i resti dell'antica casa canonica, che fu anche residenza o villa del vescovo marchese e della quale si può scorgere, presso il campanile, un modesto portalino rinascimentale sormontato da una bifora con gli archi a tutto sesto incorniciati da pietra. Il Sanudo scrive nel suo "Itinerario" che la casa era "bellissima et soave di Zedri et granati giardini molto excellenti", in grado in seguito di ospitare, come s'è visto, Isabella d'Este e i funzionari più in vista di Venezia. Fino al 1850 «la villa, di stile veneziano, era a pianta quadrata con due logge verso la chiesa aperte lungo la facciata, l'una al pianterreno, al superiore l'altra. Il lato settentrionale è occupato tuttora, come in antico, da una vasta sala sulla quale si scende in giardino e da qui alla riva del lago; numerose sale a volta, congiunte alla chiesa dalla loggia, tenevano tutto il piano terreno adiacente ad una corte il cui ingresso è costituito da un grandioso portale in pietra, con dipinto sulla fronte lo stemma episcopale». "Oggi, come ha scritto Fausto Lechi, non rimane più nulla, forse questo segno di bifora".


Quattrocentesca era anche, al Porto, una casa dei Tamagnini e Turazza, che ospitò i tipografi Paganini e fu poi trasformata.


Probabilmente costruito nel sec. XVI è palazzo Fioravanti, anticamente appartenente ai Tamagnini e ora divenuto un condominio, al porto, che il Lechi segnala come "bella costruzione imponente che ha come particolare interessante quelle mensoline sotto i davanzali delle finestre dei piani superiori ed il grandioso portale in pietra". La facciata è adorna di mascheroni e iscrizioni. L'interno è stato ornato con iscrizioni esortative. Il secondo piano è stato trasformato e del '500 resta il cornicione terminale.


Importante ed elegantissimo e certamente "uno dei più veneziani" del territorio Gardesano, indica Fausto Lechi, il palazzo Comincioli poi Comboni. Semplice e severa la facciata verso la strada: «con le finestre dei due piani poggianti sulla fascia marcapiano e con una leggera incorniciatura, col portale in pietra bugnata, altissimo, tale da sospingere il balcone al secondo piano; questo ha delle buone mensole in pietra lavorata e la ringhiera in ferro battuto. In alto il necessario cornicione a mensole. Sulla ghiera del portale uno stemma in pietra con motto, poco leggibile, e una data: 1770». Più ricca di elementi architettonici la facciata sul giardino, della quale F. Lechi rileva «un muro bugnato a pian terreno, un bel balcone con colonnine in pietra davanti a tre finestre del primo piano, timpani e balaustrini nelle finestre, lesene in stucco dal primo piano al bel cornicione a mensole e un piccolo frontone che chiude in alto la piacevole narrazione. Grande balaustra nel giardino quale invito alla terrazza sul lago». Decorate le sale e i saloncini del primo piano con fregi elegantissimi e ovali con figure mitiche ed episodi della Gerusalemme liberata o allegoriche (Giustizia, Pace, ecc.) e anche figurette del tempo, che Fausto Lechi avvicina all'opera dei fratelli Galliari, che, attivi tra il 1780-1790, decorarono il palazzo Bettoni di Bogliaco. Come scrive il Lechi: «Pare che il palazzo sia stato costruito dalla famiglia veneziana dei Samuelli. Passò poi a due sorelle straniere, le contesse Zakrescki polacche, quindi ai Fiorini di Gargnano; Luisa Fiorini, ultima della sua famiglia, sposò l'ing. Giulio Comboni e da lei ereditarono il palazzo i quattro figli: ing. Giuseppe, avv. Vincenzo, Caterina in Cecioni e Silvia in Corèn».


Seicentesco è il palazzo Delay poi Maffizzoli poi Canossi-Zani. Fausto Lechi lo dice interessante per la facciata. La porta centrale con cornice in pietra scura bugnata - egli scrive - «è fiancheggiata da due finestre con uguale cornice e poi da due bassi portici a tre luci e pilastri bugnati. Seguono poi ben quattro ordini di finestre alternati e cioè nel primo e terzo le finestre con leggera cornice bugnata sono di dimensioni normali, nel secondo e quarto (il solaio) sono schiacciate, rettangolari, ma anch'esse ugualmente incorniciate. Tra le finestre dell'ultimo piano, particolare elegantissimo, sotto lo sporto del tetto, corre tutta una decorazione pittorica di putti con festoni di fiori. A monte del palazzo, una scalinata porta a un lungo, caratteristico giardino di limoni. Da sotto il portico si apre un androne basso che porta alla scala di tre rampe tutta chiusa fra muri e, subito a sinistra, sul pianerottolo superiore, si entra nella grande sala magnificamente decorata, con le pareti che erano coperte da grandi e piccole tele del Celesti». Sono, scrivevano Mucchi e della Croce, una ventina di tele delle più diverse dimensioni, collegate in unità da un rincorrere di fastose cornici che servono a segnare i soprapporte, i sopraffinestre, le lunghe e strette divisioni tra i pannelli. Nella parte a sud, quella d'ingresso, da sinistra vi è «Tobiolo e l'Angelo» lunga e stretta fra lo spigolo e la finestra; sopra di questa «Agar nel deserto»; nella parete «La moglie di Putifarre» e «Giuditta»; sopra la porta «Salomone con le concubine». Nella parete a occidente (a sinistra di chi entra) vi è al centro il grande «Banchetto di Baldassare», che a sinistra ha una porta con sopra «Il roveto ardente», di fianco «Donne con strumenti musicali», a destra un'altra porta con sopra «Il sogno di Giacobbe» e a fianco ancora «Davide con la testa di Golia». Nella parete a N, di fronte all'ingresso, nella quale vi è il camino in pietra, l'attenzione è attratta dalla tela più vasta (e bellissima) del «Passaggio del Mar Rosso» sotto la quale vi sono quattro piccoli quadri: Adamo, Eva, Giaele e Sisara, Sansone e Dalila. Molto sciupata la tela che serviva a chiudere il camino e che rappresenta «Lot e le figlie». Dove sono le finestre che guardano il lago, nella parete orientale, tre tele, sopra le finestre, rappresentano «il sacrificio di Abramo», «il sacrificio di Jefte» e «Caino e Abele»; fra le finestre invece «il rapimento di Dina» e «Amane e Tamar»". I dipinti sono poi stati ceduti al Credito Agrario di Brescia, che li ha esposti nella sua sede centrale. Il soffitto è decorato a colonne, balaustre con tappeti, ed un arco con un cartellino indicante la data 1689. Al centro una Madonna con, a fianco, un angelo. Seguono stanze decorate con allegorie, con la figura mitica del dio Garda e altri affreschi che Fausto Lechi sembra identificare in opere di Sante Cattaneo. I sovrapporte, scrive il Lechi, "rappresentano le quattro stagioni dipinte con toni bruni non sgradevoli. Nell'ultima sala vi è tutta una decorazione molto elegante di stucco bianco e sulle porte i medaglioni portano degli ovali con bellissimi putti (ricordano quelli della sala celeste di palazzo Cigola in Brescia)". Il palazzo ospitò nel '700 anche una vera Galleria d'arte con tele di Leonardo (La Maddalena), Guido Reni, il Morone, i Campi, il Correggio.




PERSONAGGI.


Non pochi furono i personaggi che diedero lustro al nome di Toscolano. Fra essi ricordiamo, fra gli ecclesiastici e i religiosi: don Bartolomeo Canetti (sec. XVIII); p. Cristoforo da Toscolano (1601-1681), cappuccino predicatore; mons. Cristoforo Pilati (1532-1590); p. Camillo Sgraffignoli (p. Luigi Maria da Toscolano) (1734-1808); Gaetano Zuanelli, vescovo di Belluno.


MILITARI E PATRIOTI: il dott. Giovanni Calcinardi (sec. XIX); Alessandro Delay (sec. XVII); Domenico Delay (sec. XVII); Giovanni Pietro Grisetti (1779-1847); il gen. Filippo Gazzurelli (sec. XIX).


Coltivarono la MEDICINA: Andrea Graziolo (sec. XVI); Luigi Marchetti (1868-1933); Giov. Battista Salvadori (1854-1928).


LETTERATI, STORICI, INSEGNANTI furono il dottor Orazio Alberti (sec. XVIII); Pietro Alberti (sec. XVI); il prof. Don Bortolo Alberti (sec. XIX); frate Andrea di Toscolano; il can. Filippo Avanzino (sec. XVII), bibliotecario della città di Treviso; don Andrea Fossati (1744-1899); Andrea Graziolo (sec. XVI); Giuseppe Marchetti (1770-1830); Alessandro Pellegrini; dott. Camillo Sgraffignoli (sec. XVI); dott. Giuseppe Sgraffignoli (1740-1815); Alessandro Seguito (sec. XVIII); Bortolo Sansoni; prof. Pietro Zaniboni (sec. XIX); prof. Ferruccio Zaniboni; Andrea Fossati (1797-1857); Claudio Fossati (1823-1895); Donato Fossati (1870-1949).


Fra cultori di SCIENZE si ricordano don Giuseppe Avanzini (1753-1827), professore di matematica all'Università di Padova; don Cristoforo Pilati (1721-1805).


COLTIVARONO LA MUSICA: Bartolomeo Bertolazza (1772-1812?), maestro di mandolino; Cristoforo Benvenuti (organista); Giacomo Benvenuti (1885-1934), organista e direttore d'orchestra; Nando Benvenuti (1883-1964), valente pianista.


COLTIVARONO LA LEGGE: Pasino Gozio Boselli (sec. XIII), Claudio Fossati, Donato Fossati, ecc.


Fra i PITTORI: Andrea Fossati (1844-1919).


Fra i LAPICIDI sono da ricordare fra Giovanni Della Fornera (sec. XVI); Antonio de Amarsis, operoso in Trento (1564-1565).


IN CAMPO SPORTIVO si è particolarmente distinto Ugo Locatelli (1916-?), calciatore nel Brescia, nell'Ambrosiana e in Nazionale.




ARCIPRETI DELLA PARROCCHIA "Santi Apostoli Pietro e Paolo" (dal secolo XIII). Buongiovanni (1279); Antonio da Pulciano (1326); Michele da Brescia (1350); Giovanni Ogero (1371); Salvatore di Falco (1461-1479); Francesco Fossati di Lucca (1490-?); Angelo Garini (1516); Luca Teboni di Gargnano (1544-1546), vicario perpetuo del Vescovo di Brescia per Toscolano; Luca Grazioli di Gargnano (1546-1559), vicario perpetuo del Vescovo di Brescia per Toscolano.




ARCIPRETI PARROCI PLEBANI. Cristoforo Pilati di Gaino (1559-1591), primo arciprete parroco plebano di Toscolano; dott. Ludovico Avanzini di Toscolano (1591-1626); Giuseppe Ruffetti di Brescia (1626-1662); Gio. Antonio Giorgi di Gargnano (1662-1686); Bartolomeo Midani Castagna di Pozzolengo (1686-1697); Gaetano Giovanelli di Venezia (1697-1709); Pietro Zuanelli di Toscolano (1709-1745); G. Battista Antonioli di Toscolano (1745-1760); Bartolomeo Canetti di Toscolano (1760-1774); G. Battista Baruffaldi di Gargnano (1774-1783); Faustino Badinelli di Ceneda (1783-1813); Giuseppe Vedovelli di Torri d. B. (1813-1839); Giovanni Setti di Maderno (1839-1857); Giacomo Amolini di Capovalle (1857-1857); Pietro Grana di Salò (1857-1908); Giulio Samuelli di Gargnano (1908-1935); Emilio Verzeletti di Travagliato (1935-1955); Francesco Galeazzi di Verolanuova (1955-1966); Davide Pinardi di Leno (1966-1979); Luigi Salvetti di Sarezzo (1979-1982); Pietro Vaglia di Idro (1982-1998); Faustino Prandelli di Flero (dal 1998).