TEMÙ

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TEMÙ (in dial. Timü, in lat. Temoni)

Centro turistico e agricolo dell'alta Valcamonica. Sorge sulla riva destra dell'Oglio e lungo il torrente Fiumèclo, quasi al colmo della conca situata dirimpetto alla Val d'Avio. È a m. 1155 s.l.m., a 115 km da Brescia, 3 km da Pontedilegno, 15 km da Edolo. Frazioni: Pontagna, Villa Dalegno, Lecanù, Molina. Ha una superficie comunale di 43,06 kmq. La località costituisce la via di accesso al Pian di Neve, alle Cime dell'Adamello, di Plem e del Corno Baitone, Monticelli, Punta di Pietra Rossa. Temù è punto di partenza per i rifugi Garibaldi (m. 2550), Caduti dell'Adamello (m. 3200), Tonolini, al bivacco Spera.


ABITANTI (Temunesi, nomignolo cèch): 466 nel 1672; 316 nel 1716; 264 nel 1760; 260 nel 1777; 250 nel 1815; 339 nel 1843; 368 nel 1850; 441 nel 1886; 422 nel 1870; 382 nel 1908; 450 nel 1921. Abitanti del Comune (con Pontagna, Villa Dalegno): 1649 nel 1861; 1101 nel 1871; 1063 nel 1881; 1073 nel 1901; 1023 nel 1911; 1193 nel 1921; 1241 nel 1931; 1207 nel 1936; 1303 nel 1951; 1330 nel 1961; 1215 nel 1971; 1116 nel 1981; 1058 nel 1991; 1012 nel 2000.


Ricca è la formulazione etimologica rapportata dai più a lingue antichissime. Il "Dizionario corografico d'Italia" attribuisce il toponimo, assieme a quello di Mu, ad una lingua "perduta" probabilmente parlata dai camuni primitivi. Franco Bontempi, facendo riferimento a radici di lingue antichissime, ha pensato che il nome derivi da "te" per "dimora" e "mu" per "acqua" per cui dovrebbe indicare "sede delle acque" e perciò un antico ghiacciaio. È così chiamato sin dai primi esploratori dei luoghi. L'Olivieri, nel 1961, proponeva una derivazione da "timo" (in dial. locale timü) forse attraverso un "thimorium", oppure come riflesso di "timone" in senso figurato. Qualcuno ha scritto che deriverebbe da "de (da) Mu" dato che i pastori provenienti da Mu (e da Edolo) stanziavano nelle grandi malghe della Val d'Avio. Franco Bontempi ha ricavato, da supposizioni etimologiche (da un termine paleolitico "tehon"), induzioni e raffronti con altre località dell'alta Valle Camonica e sulla cultura alpina in genere, molte indicazioni sulla vita economica (pascoli, boschi, miniere, cave) e sui culti antichissimi. Tuttavia nessuna incisione rupestre è finora emersa, mentre una recente scoperta archeologica ha pur permesso di documentare segni di vita preistorica. Nel maggio 2000, infatti, in località Desèrt, a 1150 m. s.l.m. sulla sponda sinistra della valle, il geometra Giuseppe Ferrari scopriva strutture murarie di una casa alpina o baita attribuita all'Età del Ferro. Inoltre vi veniva trovato copioso vasellame specie boccali del tipo Breno. Le caratteristiche della casa hanno fatto pensare a stretti rapporti con il vicino Trentino.


Una leggenda narra che i temunesi fossero anticamente pagani e che le sacerdotesse abitassero in un bosco ancora chiamato Bergaccio (dal nome delle Berge o Bergiane, sacerdotesse del dio Bergimo). Il paese si chiamava allora Dalignana e un signore cinese venne a comperarlo, con tutti gli abitanti. Se alcuno si allontanava, non poteva più rientrare; se uno veniva nel paese per affari, non poteva più ritornare alla sua casa. Al di là della leggenda, come ha rilevato Edoardo Bressan, la nascita della comunità civile e religiosa ha rappresentato un punto d'arrivo di un lungo processo che affonda le sue radici nell'età altomedioevale dal periodo longobardo e franco che vede Temù seguire le vicende di altre comunità nell'ambito della terra "Dalaunia" o Dalegno, che compare già nella carta di donazione carolingia fatta nel 774 al Monastero di Tours dal quale sarebbe poi passato al vescovo di Brescia. Questi fu considerato fino ai tempi vicini "duca di Valcamonica" e a sua volta infeudò nel 1158 i Martinengo, non senza un'influenza, più tardi, dei Federici. Proprietà vi avrebbe avuto il monastero di S. Giulia. Le proprietà in Temù del monastero di Campiglio hanno fatto pensare, a Franco Bontempi, a stretti rapporti, oltre che economici, anche religiosi di Temù con il Trentino. Particolarmente dal sec. X anche Temù come Lecanù, Molina, ecc. prende, sempre nell'ambito di Dalegno consistenza come centro, scrive il Bressan, costituendo «il punto di passaggio obbligato per i pastori di Mu, quando dovevano recarsi alla grande malga dell'Avio (ancor oggi in territorio comunale di Edolo, di cui fa parte l'antica Mu). Ciò può forse spiegare la rapida affermazione di Temù proprio a partire, come pure vuole la sola tradizione locale, da queste baite di passaggio "dette de Mu e indi Temù". Le controversie tra Mu e Dalegno per regolare le modalità del transito e i relativi canoni sono attestate già per la fine del XIV secolo e gli inizi del successivo». Nel 1389 Lecanù è nominata con Villa e Puya quale frazione di Daliga e Pontagna. Nel 1414 consoli di tali frazioni, fra loro i Ballardini, sono presenti ad una Vicinia Generale di Dalegno. Si è poi supposto che Temù si sia sviluppato intorno ad un ospizio per i viandanti e per i bisognosi della zona, sorto forse sulla scia della predicazione di S. Bernardo da Mentone intitolato a S. Bartolomeo. Edoardo Bressan avalla l'ipotesi, per lui suggestiva, di un accostamento della tradizione sulle malghe de Mu con l'esistenza di un ricovero, sito magari a Lecanù - il centro con ogni verosimiglianza sviluppatosi prima, proprio per il trovarsi, a mezza strada, lungo la prima arteria di collegamento tra Vione e Villa - e che poi avrebbe trasferito il titolo alla chiesa di Temù, divenuta nel frattempo più importante. «Non a caso, sottolinea ancora Bressan, un documento del 1421, riferito all'investitura di decime e redditi vescovili, menziona, tra i due "sindaci" di Dalegno, un Giovanni Segalini di Temù, testimoniando la presenza di un paese che poteva ormai essere annoverato tra le principali località del vasto Comune di Dalegno». L'espressione a lungo presente "andare alla degagna" nel senso di prestare la propria opera obbligatoria gratuita per rimettere in sesto annualmente le strade, fa pensare all'esistenza di una decania (comunità di 10 persone o 10 famiglie) dalla quale vennero espresse poi vicinie che ressero per secoli sia Temù, come Lecanù e Molina specie per l'amministrazione e la regolamentazione dell'uso di terre comuni, (boschi, pascoli, e servizi ad essi inerenti) ma anche provvedendo al culto stesso, al mantenimento del sacerdote, all'istruzione primaria, ecc. Anche Lecanù e Molina, che pur per alcuni versi erano legati alla vicinia di Temù, conservarono una loro autonomia. La vicinia, retta da un console, reclutava numerosi incaricati per specifiche mansioni (reggenti, campari, soprastanti alle fabbriche, al fuoco, ai danni ecc.). Alla vicinia competeva la "fabbrica" di S. Alessandro, l'amministrazione di legati, il funzionamento della cappellania. Una curiosa leggenda locale vuole che Temù fosse stato esonerato dalle "decime" da parte di una regina venuta in visita nella valle ed alla quale solo il paese aveva fatto onore. A lungo, invece, continuò il contributo delle decime al vescovo di Brescia per cui ancora in pieno sec. XV un Martino Sigalini veniva da lui investito di beni in Temù, passati poi il 26 settembre 1465 al Comune di Dalegno.


Come scrive E. Bressan "solo dalla fine del Cinquecento si aprì per Temù un periodo di indubbia prosperità, contrassegnato da una pratica indipendenza da Dalegno, sia come si è visto in campo ecclesiastico, sia anche in campo civile, come fra l'altro dimostra il frammento di statuto temunese del medesimo periodo ricordato da Gabriele Rosa". Una divisione formale dei beni di Temù da Dalegno ebbe luogo l'1 settembre 1624, sviluppandosi e precisandosi, attraverso determinazioni di terreni e di pascoli, contestazioni e revisioni di confini, arbitrati, che continueranno almeno fino al 1790. Attori della vita economica, sociale e religiosa furono, almeno fino alla metà del '600, i Ballardini, i Segalini, i Fontane, i Poletti, i Motti, gli Zagni o Zani, i Baratti, i Valenti, ecc. In continua e serena vita montanara nel '400 e '500 rimase Temù, come gli altri paesi della Valle Camonica. Verso la fine del '600 e gli inizi del '700, anche Temù risentì della sempre più grave crisi di Venezia, tanto che il parroco doveva registrare un calo di popolazione nel 1716 da 390 a 310 abitanti fino a raggiungere nel 1770 i 260 abitanti. Al calo demografico si accompagnò un crescente impoverimento registrato dall'"Estimo mercantile" del 1777, dal quale si desume che "trafficanti, né artisti (cioè artigiani) non ve ne sono di sorte alcuna, ma tutti lavorano la terra" tranne un "rasicotto" (Francesco Segalini), un "molinaro" (Giov. Maria Ballardini), due notai (Pietro Antonio Ballardini e Marcantonio Pasina o Pasini) i quali però attendono "per lo più alla coltura della terra". Nel 1770 sono presenti tre "caligari", due "marangoni", un sarto ma "tutti con poco esercitio". Nel 1784 esistono 7 mulini ma "di quasi nessun esercitio". Alla sempre più grave crisi economica si aggiunsero alcune gravi calamità come l'alluvione del 1774 e il freddo e neve eccezionali dell'inverno 1784-1785 che registrarono però esempi di solidarietà.


In seguito alla calata delle armate francesi guidate da Napoleone in Italia il 14 luglio 1796, Temù conobbe la presenza di truppe ungheresi scese dal Tonale per fronteggiare una possibile invasione francese. Seguirono mesi di ansie aggravate anche da numerose razzie. A rendere più inquieti i temunesi sopravvenne la rivoluzione giacobina del 1797 che diede una scossa alle antiche istituzioni e segnò momenti sempre più difficili. Dopo l'occupazione francese e giacobina anche Temù organizzò, nel settembre 1797, la Guardia nazionale, riconfermata il 16 marzo 1798 da un rappresentante della Repubblica Cisalpina, subendo poi nei giorni seguenti "rubberie violente", Lecanù registrò una vittima per un'archibugiata; paventando nuovi scontri fra austriaci e francesi, molti temunesi si rifugiarono nella valle Avola. Con la sottomissione, peraltro non molto contrastata, come fu invece nelle altre valli bresciane, al Governo Provvisorio e poi alla prima Repubblica Cisalpina, Temù con la sua vicinia, soppressa poi nel 1801, venne sottoposto alla municipalità rivoluzionaria di Pontedilegno. Disagi vennero provocati da continui passaggi di truppe fra i quali particolarmente pesanti quelli di ussari a cavallo nel maggio del 1799. Al ritorno dei francesi nel luglio 1800, Temù ne subì di nuovo la presenza e registrò continui passaggi di truppe, acquartieramenti, requisizioni, razzie di bovini sui monti. Ai primi di maggio 1809 Temù fu coinvolta nella rivolta antifrancese portata in Valcamonica dagli insorti tirolesi di Andrea Hofer "il Barbone" ed incorse in una spietata rappresaglia compiuta l'11 maggio, giorno dell'Ascensione, più che dalle truppe francesi, dai gendarmi italiani che incendiarono case e stalle e fucilarono due uomini di Temù, Giovanni Antonio Balardini e il sindaco Giovanni Maria Balardini, accorsi per spegnere gli incendi e salvare il bestiame. Vennero incendiate baite a Premia, Vescasa, Cavaione e alla Fucina. A Lecanù furono incendiate otto o dieci case tutte di legno e nell'incendio perì una donna che non volle, o non fu in grado di dare "una mancia ai gendarmi". Requisizioni, estorsioni e rapine Temù subì nell'ottobre 1813, ad opera di compagnie di tirolesi e di banditi e renitenti alla leva o disertori. Ai gravi avvenimenti di guerra e di rivolta si aggiunse nel 1811, ma ancor più nel 1815-1817 una terribile carestia, provocata da una lunga siccità, mentre bande di disertori e di malfattori infestarono monti e paesi. A differenza di molti altri paesi (cronache del luogo attribuendo il merito a cure di medici locali), Temù non registrò vittime per il tifo petecchiale che ne mietè molte altrove.


Come ha sottolineato Edoardo Bressan "La prima metà dell'Ottocento rappresentò, per Temù come per tutta la Valle, un periodo di faticosa crescita, in cui ad un generale aumento demografico - la popolazione passava dalle 250 unità del 1815 alle 368 della metà del secolo- faceva riscontro la difficoltà di reperire adeguate risorse in loco. Lo sfruttamento delle pendici coltivabili era giunto al culmine, mentre la commercializzazione dell'agricoltura, largamente avviata nelle terre di pianura, penalizzava le piccole produzioni alpine; né potevano essere di compenso una povera zootecnia e nemmeno i canoni degli alpeggi (Caldea con Salimmo, Valsecca, Calvo, Coleazzo, Gaviola), che ad esempio, nel 1820, risultavano tutti affittati a Tommaso Cresseri per un decennio ad una somma di 168 lire, che avrebbe coperto appena il salario di un maestro. La parcellazione della proprietà terriera, la scarsità dei raccolti e il sovrappopolamento avviarono un processo di emigrazione che si accentuerà sempre più. Come sottolinea E. Bressan, "si può osservare come un tessuto permeato dai valori della tradizione potesse attutire alcune difficoltà attraverso un diffuso e spontaneo solidarismo..."


Un riordino amministrativo e burocratico compiuto dall'Austria, ridonò anche a Temù nel 1816 l'autonomia comunale. Seguì poi la costituzione di un consiglio comunale nominato dalla Congregazione provinciale, che finì con l'assorbire le funzioni della vicinia, che tuttavia non alterò la destinazione dei beni collettivi. Primo provvedimento fu l'adozione di un Regolamento per il fuoco con minime regole che in realtà non servirono del tutto. Nel 1820 venne data una sistemazione più pratica alle scuole elementari, affidate al parroco, ne fu istituita una riservata ai poveri, fu provveduta la condotta medica. I poveri continuarono ad essere assistiti dai legati per la distribuzione del sale, cui si aggiunse un legato Zani per infermi poveri. Nel 1834 da Temù e dai paesi circostanti parte la scalata industriale di Giovanni Andrea Gregorini di Vezza d'Oglio, ma l'economia non decolla che a distanza di decenni. Ricompare, invece, la minaccia degli incendi e la sera di Natale del 1851 il fuoco, da un fienile della piazza, si estende a tutte le quattro contrade, diventa indomabile e distrugge il paese. Restano salve quattro case sole: la casa nuova, la casa Poletti, quella di Giovanni Antonio Ballardini e la casa di sotto. Vi fu anche una vittima, tale Andrea Zani dei Gozi. Scarsa o quasi nulla la partecipazione ai moti risorgimentali, salvo la costituzione nel 1848 della Guardia nazionale formata da 48 effettivi. Lasciarono il segno, invece, gli avvenimenti del 1866 e specie la battaglia del 3 luglio fra forze garibaldine e austriache. I primi decenni di unità nazionale registrarono alcuni progressi. Sul piano economico si ebbe nel 1874 la nascita della fabbrica di birra Poletti e Carminati, mentre si andarono sviluppando la lavorazione del ferro e del legno. Intorno al 1877 veniva costituita una latteria sociale invernale. Andò migliorando anche la viabilità con la costruzione, nel 1883, del nuovo ponte delle Fucine, con la carrozzabile fino al paese e la nuova strada per Molina. Vennero inoltre costruite le fontane pubbliche. Nel 1884 venne costruita la casa comunale che ospitò oltre agli uffici comunali anche la posta, la casera, e le scuole elementari. Nel 1895 veniva avviata, per venire incontro ai disoccupati dei luoghi, la costruzione della strada Stadolina-Pontagna. Come rileva Edoardo Bressan, nonostante un innegabile progresso e un "miglioramento complessivo di salute" per cui Temù risultò indenne o quasi (inchieste del 1881 e del 1899), da casi di pellagra, di frenastenia, di pazzia epilettica ed alcoolica, di gozzo e di cretinismo", si impose, nella seconda metà dell' '800, una crescente corrente emigratoria, verso la pianura, il Trentino, la Svizzera, la Germania e l'oltre Oceano. Parentesi tragiche vennero da nuovi incendi: oltre a quello verificatosi nel 1880, che distrusse solo due case, a Molina, particolarmente devastante fu quello del febbraio del 1896. Il disastro vide mobilitate molte comunità e associazioni. Anche a Milano, per iniziativa del camuno Carlo Tedeschi e della società di M.S. tra i bresciani ivi residenti, si costituì un comitato di soccorso.


Un rilancio economico-sociale ebbe luogo particolarmente quando la borgata venne raggiunta (1898-1899) dalla strada nazionale, dallo sviluppo del turismo residenziale e dall'affermarsi dell'alpinismo come sport. Lo sfruttamento delle forze idrauliche ebbe inizio nel 1906 con la derivazione dei laghi d'Avio e con l'impianto di una "potentissima" centrale elettrica in località Boscas, prima di altre centrali costruite in seguito. Nel 1905 un lascito di Omobono Ballardini permetteva l'avvio della costruzione di un asilo infantile. A cura della società ELVA, nel 1908 arrivò in alcune case la corrente elettrica. Proprio nel 1900 le Guide turistiche della valle segnalano l'esistenza di un ufficio postale e di un bel locale per le scuole elementari erette da poco tempo. Il 6 febbraio 1906 scoppiò un nuovo incendio che, per fortuna, fu in buona parte circoscritto per l'utilizzazione di pompe idrauliche di Ponte di Legno e di Vezza d'Oglio, forse per la prima volta in azione. Nel 1910 vi esistevano quelle che la stampa definiva "buoni alberghi": la Trattoria alpina e la Trattoria del Leon d'oro. Le guide segnalavano inoltre trattorie, alloggi privati, vetture a nolo. Ad interrompere l'avviato progresso venne la guerra. Nel luglio 1910, con decreto n. 1028 del Comando della Direzione militare di Brescia, veniva dichiarata l'espropriazione e l'immediata occupazione dei terreni necessari per la costruzione delle opere di fortificazione nei territori di Vione e Temù. Veniva subito avviata la costruzione della strada militare del Coleazzo, si diede poi mano alla costruzione, da parte di militari del genio e di giovani del luogo, di trincee lungo il panettone sottostante la Cima Bleis di Somalbosco e alle Bocchette di Val Massa. Soprattutto in val d'Avio sorsero in brevissimo tempo strutture militari, strade, teleferiche per il trasporto di materiale, officine meccaniche, polveriere, infermerie, baracche per usi vari... Di particolare rilievo i lavori per costruire la strada che dalla Val d'Avio, attraverso le Malghe Caldea, di Mezzo e Lavedole, portava al rifugio Garibaldi, dove era stato allestito un campo militare di notevoli dimensioni. Venne inoltre eretta una chiesetta alla Madonna.


La guerra, scoppiata il 25 maggio 1915, vide la partenza per il fronte di numerosi giovani e la mobilitazione della popolazione, donne e anche giovanissimi compresi. Le opere di fortificazione e logistiche continuarono poi negli anni di guerra quali le strade per Mezzullo, Cavadolo e da Casola al Corno Marcio dove venne stabilita con cannoni e mitragliatrici una seconda linea del fronte. Verso la fine della guerra, alle Gere di Cavaione, verrà spianato il terreno per realizzare un piccolo campo di aviazione. Le opere di fortificazione costarono numerose vittime tutte giovani. Fra di esse, in una sola volta, 38 addetti a tali fortificazioni furono travolti l'8 marzo 1916 da una valanga mentre riposavano in baracche in località Caldea. Nonostante tutti i disagi subiti, Temù ebbe la fortuna, a differenza, per esempio, di Pontedilegno, di essere colpito solo da pochi colpi di artiglieria austriaca che tuttavia obbligarono alla costruzione di gallerie e rifugi. Retaggio di guerra rimasero per alcuni anni a Temù due cimiteri militari, uno in località Supì (v.) e un altro, a fianco della chiesa parrocchiale, dove oggi esiste un piccolo parco giochi. I resti dei caduti vennero trasferiti nel 1931 nell'Ossario del Tonale. Per ricordare i dodici caduti del paese, il 18 dicembre 1921 venne eretto un monumento. Gli ultimi mesi di guerra registrarono la diffusione della febbre "spagnola" che mietè sei vittime, e che vide attivi nell'opera d'assistenza il parroco don Giuseppe Donati e il sindaco Bortolo Ballardini.


Il dopo guerra registrò una diminuzione di disoccupati e di emigranti originata dai lavori di costruzione di dighe idroelettriche della Val d'Avio, del lago Benedetto, della centrale elettrica, ai piedi di monte Calvo, che costò tuttavia anche vittime di incidenti del lavoro. Con R.D. del 27 ottobre 1927 (n. 2078) vennero aggiunti a Temù i comuni limitrofi di Pontagna e Villa Dalegno. Da registrare l'uragano abbattutosi il 6 settembre 1930 su Temù e Vione. Il comune godette di buone amministrazioni, tanto da interpretare quella che "L'illustrazione Camuno-Sebina" dell'agosto 1933 presentò come la favola "del leone soccorso dal topo". Infatti nel 1933 il Comune era in grado, grazie all'intermediazione dei segretari comunali, di prestare a quello di Lumezzane, che aveva contratto un debito di 700mila lire con la fallita Banca di S. Filastrio, un milione di lire con un interesse del 6,50%. Oltre a ciò il Comune fu in grado di costruire un nuovo edificio scolastico a Villa Dalegno e di sviluppare il turismo. Nel dicembre del 1934, su iniziativa del podestà Marino Tantera e del segretario comunale dott. Mario Zanini, fu costituita l'associazione "ProTemù" con lo scopo di ampliare l'attrezzatura alberghiera in Alta Valle. Merito del segretario del fascio Sperandio Zani fu l'organizzazione, dal 1934, dell'assistenza invernale. Negli anni '30 risiede a Temù un Distaccamento della Milizia Nazionale Forestale con controlli anche a Pontedilegno e Vione. Mentre tra il 1937 e il 1940 veniva avviata la costruzione dalla diga al lago Benedetto, nel 1938 venivano apportate notevoli migliorie al patrimonio montano. Nello stesso anno, in cambio di un esonero ad una Società idroelettrica dal pagamento delle tasse comunali, il paese godette dell'illuminazione gratuita.


La II guerra mondiale che richiese a Temù 13 giovani vite, sepolte, la maggior parte, nelle steppe russe, registrò per il paese mesi di estrema tensione specie dal settembre 1943 all'aprile 1945. Particolarmente duri furono per Temù gli ultimi mesi di quel periodo. Nell'agosto 1944 gruppi di partigiani fecero saltare le tubature della centrale rendendola inutilizzabile fino a fine guerra. Dopo un periodo di respiro, nel settembre e parte di ottobre 1944, durante il quale il paese, con l'alta valle, rimase in mano alle forze partigiane delle Fiamme Verdi, Temù venne rioccupato dalle truppe tedesche che portarono con loro a Edolo alcuni ostaggi tra i quali il maestro elementare Zefferino Ballardini che il 13 novembre venne barbaramente ucciso nelle carceri di quel paese. Al contempo, favoriti dal col. Raffaele Menici, alcuni temunesi entrarono a far parte del battaglione della 540 Brigata Garibaldi, comandato da Firmo Ballardini pure di Temù. Commissario era Gino Serini. Contrasti tra Fiamme Verdi e Garibaldini portarono all'uccisione da parte dei tedeschi, il 17 novembre 1944, del col. Menici che era già stato colpito dalla deportazione della figlia e della nipote Idillia, sorella di Zeffirino Ballardini. L'uccisione avvenuta dopo un processo delle Fiamme Verdi per imputazione di tradimento, è ancora fra le pagine controverse della lotta resistenziale. Dopo un inverno difficile, nei giorni vicini alla liberazione, gruppi delle Squadre di Azione Partigiana (S.A.P.) presidiarono la centrale per impedire ai tedeschi di distruggerla. Continuamente percorso da truppe tedesche in ritirata, il paese fu liberato solo l'1 maggio 1945.


Le amministrazioni democratiche di indirizzo democristiano, avviarono fin dal 1945 opere d'abbellimento e rimodernamento del centro: venne migliorata e potenziata, con la posa di una nuova linea, la rete di illuminazione, furono istituite le due classi quinte, avviate opere di rimboschimento in consorzio con i comuni di Pontedilegno, Vione e Vezza d'Oglio, ampliati la fognatura e l'acquedotto. In sostegno all'occupazione, anche se con grave deterioramento dell'ambiente naturale, tra il 1949 e il 1959 veniva promossa la costruzione di una nuova diga al Pantano d'Avio che vide con altri lavori idroelettrici l'impiego di operai fino al numero di 2300. Dal 1952 vennero avviati: la costruzione di una nuova strada per il congiungimento alla via nazionale col centro di Temù, la sistemazione dei cimiteri, le fognature nuove ed acquedotti nelle frazioni. Nel 1952 veniva istituita di nuovo la "Proloco". Fra molte polemiche vennero avanzati progetti in Val d'Avio. Lo sviluppo turistico decollò decisamente dal 1963, quando una società milanese realizzava l'impianto di salita al Monte Calvo, l'hotel Val d'Avio e Lauro (poi trasformato in residence). Nell'agosto 1966 entrava in funzione, costruita dalla S.p.A. Val d'Avio, la seggiovia di Temù ai pascoli di Monte Calvo (m. 2023 s.l.m.) con ristorante e attrezzature sportive; fu costruito uno skilift dai pascoli fino alla vetta del monte (m. 2209 s.l.m.). Nel 1974 venne lanciata la proposta di un museo della Grande Guerra che venne realizzato nel 1977. Chiamato Museo della Guerra Bianca in Adamello, sorto con lo scopo di tener vivo il ricordo degli avvenimenti e dei protagonisti della I guerra mondiale delle valli che scendono dal massiccio Adamello-Presanella, si è prefisso di mostrare al visitatore gli aspetti, ora lontani, di quegli anni di guerra, a oltre 3000 m., attraverso le immagini e gli oggetti in esso gelosamente custoditi e di ricordare sempre le sofferenze di allora perchè rimangano perenne monito di pace. Il Museo, patrocinato dalla nota guida alpina Sperandio Zani, e promosso da Walter Belotti e Sergio Zani, dopo una prima provvisoria apertura nel 1977 ha trovato la sua definitiva collocazione nell'antica caséra (sotto le odierne scuole elementari) ed è stato ufficialmente riaperto al pubblico il 26 agosto 1984; da allora è gestito dall'Associazione Amici del Museo della Guerra Bianca in Adamello. Alla fine degli anni '70 veniva accelerato lo sviluppo turistico e il paese era in grado di offrire ai forestieri 350 posti letto. Dagli anni '80 venne ristrutturata e sviluppata la rete fognaria resa potabile l'acqua delle condutture, migliorata la rete viaria, ristrutturato l'ex asilo in alloggi protetti per anziani. Furono inoltre eseguite opere di pavimentazione, fu realizzata una vasca a val d'Avio, realizzato un parco in località Casera, ecc. Nel dicembre 1983 veniva inaugurato un edificio per la scuola elementare, una sala riunioni per il Comune e la biblioteca. Nuove minacce di alluvioni, che colpirono soprattutto le frazioni Lecanù e Molina vennero dal Fiumeclo nel luglio 1994.


ECCLESIASTICAMENTE appartenente alla pieve di Edolo, la comunità temunese entrò nell'ambito di Dalegno che ebbe il suo perno in S. Martino di Villa e più tardi in Ponte di Legno e che, alla fine del sec. XV ottenne un proprio fonte battesimale. Come si è accennato, il titolo di S. Bartolomeo della chiesa parrocchiale sembra dimostrare l'esistenza di un ospizio collocato sulla via del Tonale. A S. Martino di Villa appartennero poi le chiese di S. Alessandro e di S. Antonio e SS. Martiri. La vita religiosa delle contrade venne diretta in prevalenza dalla vicinia. Come risulta dagli Atti della visita di mons. Celeri (15 settembre 1578) la "fabbrica" stessa, cioè la manutenzione della chiesa di S. Bartolomeo, "spettava ai vicini" i quali nominavano ogni due anni, alla presenza del rettore di S. Martino di Villa, un incaricato per i beni immobili spettanti al beneficio, con due massari, responsabili anche della chiesa di Lecanù e dei cimiteri. Nella chiesa di S. Bartolomeo come a S. Alessandro si celebrava alcune volte la settimana. Pochi anni dopo, nel 1593, i "vicini" chiedevano al vescovo di potere meglio amministrare alcuni legati del pane. La vita religiosa si andò sviluppando particolarmente nei primi decenni del sec. XVII quando la chiesa venne ricostruita nelle linee attuali. Sempre più indipendente da Villa Dalegno, nel 1624 la vicinia chiedeva che al sacerdote cappellano fosse concesso: la celebrazione delle messe disposte dai legati, di tenere la dottrina cristiana, e di recitare "la benedizione nel cimitero". Negli anni seguenti vennero compiuti sempre più decisivi passi verso l'autonomia. Verso la metà del secolo la chiesa di S. Bartolomeo veniva praticamente ricostruita. Più antichi devono essere i fuochi che nella notte di S. Bartolomeo (24 agosto) rischiarano Temù, la valle e il monte. Essi vengono alimentati da cataste di rami di abete e di pino disseccati, mentre alle finestre delle case brillano corone di lumicini costituiti da gusci di lumache riempiti di olio. È questa un'illuminazione alquanto primitiva, di breve durata, ma dagli effetti meravigliosi. Nel 1661 in Temù veniva eretta la Confraternita di S. Antonio, che era aggregata all'Arciconfraternita ai frari di Venezia, e che veniva abbellita di notevoli opere d'arte lignea locale.


Con decreto vescovile del 16 dicembre 1667 la chiesa curaziale di S. Bartolomeo di Temù, veniva staccata dalla parrocchia di Villa, erigendola in parrocchia di libera collazione e il 21 aprile 1668 veniva emessa sentenza circa l'appartenenza alla parrocchia della chiesa di S. Alessandro. La vita della comunità religiosa ebbe subito notevole sviluppo con la fondazione, il 20 aprile 1668, della Confraternita del S. Rosario cui seguì, dietro suppliche reiterate, il 17 settembre 1672, quella del SS. Sacramento che ebbe la sua sede in uno degli ambienti costruiti sull'ala S della chiesa. Il 6 febbraio 1686 venne eretta la cappellania Ballardini che consentì la presenza in parrocchia di un secondo sacerdote mentre continuarono controversie con Villa Dalegno per la destinazione delle elemosine, e delle decime, diatribe superate solo nel 1739. La visita pastorale del 1692 registra l'esistenza della Confraternita delle Dottrine Cristiane. Al contempo la chiesa si arricchiva di opere di grande prestigio dovute a Domenico Ramus e ad altri artisti per lo più locali. Veniva istituito il servizio religioso festivo a Lecanù e Molina. Nel 1719 veniva eretta da Giovanni Pedrali una cappellania che permise di mantenere un coadiutore. In seguito, nel sec. XVIII la parrocchia visse e in modo più accentuato, la crisi generale della Valle. Una relazione del parroco del 1777, segnalata da E. Bressan ("Temù, un paese ed una storia") oltre che rimarcare la miseria in cui versavano le confraternite, riassume una lunga controversia fra la parrocchia stessa e la vicinia, che si era impegnata al suo mantenimento in cambio del servizio di culto e dell'istruzione ai fanciulli. Ma i vicini, ricordava il parroco, avevano accollato alla parrocchia un numero insostenibile di messe legatarie. L'onere si era fatto troppo pesante, a causa di varie vendite e soprattutto della confisca disposta nel 1772, in seguito alla nuova legge veneziana del 1767. Per questo veniva richiesta una riduzione di Messe legatarie e la vendita di beni. «Ciò che, come scrive E. Bressan, probabilmente restava inalterato e costituiva un sicuro punto di riferimento per le coscienze era la vita religiosa, con i suoi ritmi e le sue feste: oltre alle numerose solennità di precetto, a Temù si celebravano - la "verbale tradizione" asseriva che fossero state introdotte "per voto della comunità in tempo di peste" - quella di S. Antonio abate, di S. Antonio di Padova, di S. Rocco e di S. Alessandro». Nonostante la crisi, rimaneva fiorente la vita delle confraternite. Al 31 dicembre 1798 le iscritte alla Confraternita della Dottrina Cristiana erano 88. Una nuova cappellania provvedeva all'istruzione elementare.


Attivissimo fu il curato (dal 1799) e poi parroco dal 1845 don Bortolo Bertoletti (Vezza d'Oglio 1769 - Temù 1845) che fu, come scrive E. Bressan, "un vero punto di riferimento per la sua comunità soprattutto nei difficili anni napoleonici". Fu lui a chiedere l'erezione, nel marzo 1807, della Via Crucis. Come suggerisce l'iscrizione su di una lapide murata sulla porta laterale di destra, la chiesa, con l'altare maggiore (nel quale vennero poste le reliquie dei SS. Benedetto e Fermo) venne consacrata da mons. Verzeri il 24 agosto 1864. Sotto il lungo parrocchiato di don Martino Pasina (1846-1890) la parrocchia resistette con vigore alle prime crisi. In una relazione del 22 giugno 1885 per la visita pastorale di mons. Corna Pellegrini egli poteva scrivere che "pressochè tutti i parrocchiani" erano iscritti alle tre confraternite esistenti; che il 13 gennaio 1874 era stata eretta la Pia Unione del S. Cuore di Gesù, che erano state istituite: la Confraternita del Sacro Abitino del Carmine, del S. Cuore di Maria Ausiliatrice, di S. Luigi, delle figlie dell'Oratorio. Esisteva un legato per provvedere ogni anno alle "Missioni" per il popolo. Don Francesco Baudassi (1902-1909) prete zelante e predicatore apprezzato, svolse un'intensa azione sociale. Ma fu soprattutto don Severo Rossini, che resse la parrocchia dal 1918 al 1956, ad imprimere una forte nota pastorale. Austero, ma buono, guidò la parrocchia in una rapida trasformazione da paese contadino a centro turistico. A lui si devono solide iniziative per la formazione della gioventù maschile oltre che la fondazione, nel 1922, dell'asilo infantile che servì anche per la catechesi delle fanciulle e per le adunanze della gioventù femminile di Azione Cattolica. Don Giovanni Bazzana (1964-1979) oltre a donare esempi di grande umiltà e generosità, provvide al restauro della parrocchiale e all'erezione di una nuova ampia e funzionale casa canonica. Don Martino Sandrini (dal 1979) allargò, dal 1991, la sua attività parrocchiale anche a Villa Dalegno.


CHIESA PARROCCHIALE DI S. BARTOLOMEO. Probabilmente succedette ad una primitiva cappella legata all'ospizio. È ricordata la prima volta negli atti della visita pastorale del vescovo Bollani (1567) che ordina di dipingere la croce e di mantenere il solo altare maggiore. Nel 1573, anno della visita del Pilati, vi si celebrava una messa la settimana. Nel 1578 il Celeri la dice "consacrata e abbastanza ampia in proporzione al luogo con la navata coperta a volta e in parte "cum plodis lapideis"; vi era un campanile con due campane, ma non la sacrestia. Ha un matroneo e nel presbiterio si apre una finestra rotonda". Il cardinal Morosini, nel 1593, consiglia di coprire l'altare col pallio e il confessionale con la grata dai fori ampi come un cece. G. Maria Macario, nella sua visita del 1624, ordina di ripristinare il pavimento con pietre e selciato, di sistemare i confessionali e di eseguire i decreti apostolici. I vicini supplicano affinchè conceda la licenza al cappellano di celebrare le messe legatarie, di insegnare la dottrina cristiana e di recitare il "de profundis" con la croce e l'acqua santa sulle tombe. Nel 1646 alla visita di M. Morosini si menziona la sacrestia e si legge che i vicini sono responsabili dell'esazione del legato Pedrali. La chiesa venne poi ricostruita verso la metà del '600 e mirabilmente abbellita di opere lignee (soase, paliotti) di autore ignoto, secondo il Canevali, della bottega dello Zotti, secondo il Sina, dei Ramus e specialmente di Pietro, secondo il Vezzoli, mentre altri hanno avanzato il nome del Picini di Nona. Il Tognali ha documentato come sicuramente di Domenico Ramus sono le ancone dell'altare maggiore (1678), dell'altare della Madonna del Rosario (1688) ed altre opere "I Santi" (1691). Finite le sculture degli altari tra il 1686 e il 1688 vennero chiamati due artigiani: Antonio Polonioli, di Cimbergo e Giorgio Giorgi di Edolo, per la loro indoratura. Nel 1698 padre Gregario asserisce che Temù è "luogo di chiesa parrocchiale, vaga e di moderna struttura". Venne poi rimaneggiata, senza ritocchi alla struttura, nei sec. XVIII e XIX. Nel 1791-1792, pure in tempi di grave crisi economica, venivano chiamati i valtellinesi Antonio Pianta e il figlio Francesco per restaurare le opere lignee. Nel 1827 poi il vionese Tommaso Petroboni eseguiva il contorno dell'ancona dell'altare maggiore e nel 1847 al maestro artigiano Martino Balzarini di Canè, vennero commissionati i "cornicioni" dei due altari laterali e un nuovo pulpito. Tra il 1847-1851, prima da un Giov. B. Zampatti di Vezza d'Oglio, poi dal marmista Giuseppe Brunelli di Canè, venne rinnovato il pavimento. Nel 1927 vennero portate a termine opere di riparazione e di intonacatura esterna di tutto l'edificio e si abbellì la facciata con cornici, pitture, stucchi e ornati di buona dignità e morbidezza.


Nel maggio del 1947 la commissione diocesana per l'arte accordò il permesso di un nuovo restauro affidato al decoratore locale Vigilio Toloni. Vennero pulite e ritoccate le medaglie, tinteggiati gli stucchi, le comici e i riquadri; si aggiunsero decorazioni a finto stucco negli specchi con vari simboli, con l'indoratura nei filetti delle cornici e nel saltino che divide i capitelli dalle lesene, segnate con macchia artistica. Nel 1950 i fratelli Marengoni di Brescia eseguivano le vetrate istoriate. Nel 1968 veniva realizzato il nuovo pavimento in granito rosso di Sardegna. La facciata di linee semplici è riquadrata agli spigoli da due lesene accoppiate a capitelli ionici con fregi floreali e da altre due lesene che la scandiscono in tre parti. La sormonta, come scrive D.M. Tognali, «un timpano triangolare con al centro un cartiglio in stucco che porta la sigla D.O.M. La specchiatura centrale è illeggiadrita da una trifora caratteristica le cui aperture sono intervallate da colonnette che richiamano i motivi delle lesene; in basso sta il portale in marmo chiaro di Vezza, architravato, con lesene e capitelli ionici, che poggiati su alta zoccolatura, sostengono il timpano aperto al vertice. L'accesso principale è formato da sei pannelli di rame sbalzato del dalignese Maffeo Ferrari (1970), raffiguranti l'"Elezione" e il "Martirio" di S. Bartolomeo, la "Nascita", il "Battesimo", la "Morte" e la "Resurrezione" di Cristo. Le specchiature fra le lesene si adornano di tre grandi mosaici istoriati nel 1978 da don Mino Trombini, che rappresentano S. Alessandro, S. Bartolomeo e S. Antonio Abate e sostituiscono gli affreschi del pittore Mario Zappettini dipinti nel 1927, riproducenti S. Alessandro, S. Carlo e S. Giovanni Nepomuceno». Sul lato S si apre una porta laterale che dà su un portichetto e che è adornata con pannelli recanti simboli eucaristici scolpiti da Maffeo Ferrari. Sullo stesso lato S vennero aggiunti in tempi diversi, due corpi di fabbrica. Il più alto era adibito un tempo a cappella della confraternita del SS. Sacramento o dei Disciplini che sono raffigurati su una parete, inginocchiati davanti all'Ostensorio. Il corpo di fabbrica più basso è la sagrestia costruita nel 1764 dal capomastro comasco Felice D'Allio. Sul fianco NE si erge il campanile, in pietra a vista, con una bifora per lato ed archi in marmo con colonnette in marmo chiaro e coronata da merlature ghibelline. Il campanile è segnalato già nel 1578 con due campane; è arricchito da un legato disposto per il suono dell'Ave Maria. Il campanile venne ristrutturato, e forse alzato, nel 1673-1674. Il concerto di cinque campane venne fuso nel 1892-1893 dalla ditta Pruneri, di Grosio di Valtellina.


Come ha scritto D.M. Tognali, l'interno ad aula unica (m. 18,15x m. 10,70) e suddiviso in tre campate, "è abbastanza spazioso, è il frutto armonico sia della pratica artigianale sia della genuinità tecnico-architettonica". Le volte a botte, sono intervallate da archi trasversi in corrispondenza delle sottostanti lesene, le quali sostengono l'ampio cornicione sporgente che fa da supporto a piccoli archi a lunetta. I capitelli hanno sobria decorazione composita in stucco bianco e dorato di gusto tardo-barocco. La volta reca tre grandi affreschi raffiguranti la chiamata, il martirio e la glorificazione del patrono S. Bartolomeo. Entrando, sulla destra, si incontra sulla prima campata una tela di ignoto, raffigurante la Madonna del Rosario e i SS. Domenico e Caterina da Siena. Nella seconda campata, sulla porta laterale, è stata posta una tela ad olio di scuola veneta, proveniente da Ponte di Legno, raffigurante S. Michele Arcangelo con la bilancia della Giustizia e ai lati i SS. Rocco e Giovanni Evangelista. A lato della porta, una lapide con iscrizioni in latino ricorda la consacrazione della chiesa il 24 agosto 1864 da parte di mons. Verzeri. Segue l'altare della Madonna del S. Rosario con soasa datata 1689. Due colonne a fusti semplici, decorate con foglie, fiori, puttini, sostengono coi loro capitelli la trabeazione terminante in un timpano triangolare aperto al vertice. Due angeli musicanti s'adagiano sugli spioventi del timpano e nello spazio centrale domina l'Arcangelo S. Michele che tiene sotto i piedi un drago. La pala, firmata F.F. e datata A. 1882, raffigura la Madonna del Rosario, S. Caterina e S. Domenico attorniati dai quindici misteri del Rosario. Interessante il paliotto raffigurante la Natività di Gesù con figure di pastori nelle quali il Tognali vede un verismo "simoniano" echeggiante personaggi del luogo. Due cariatidi piegano il volto verso le statuette di S. Paolo e di S. Domenico collocate nelle nicchie. Completano la decorazione fregi, intrecci, motivi floreali, teste di angioletti. L'arco trionfale, appoggiato sui capitelli delle lesene angolari, separa la navata rettangolare dal presbiterio (m. 8,35 x m. 6,20), a cui si accede da un gradino. La copertura è formata da volta a botte terminante sul cornicione aggettato. In due nicchie frontali e in altre due aperte nella parete del presbiterio, sono sistemate statue moderne di santi. Alle pareti sono pure fissati due reliquiari del Seicento in legno dorato. Gli stalli del coro, costruiti nel 1937, sono dei Ferrari di Ponte di Legno. La volta del presbiterio è dominata da un grande affresco raffigurante la SS. Trinità, con gli Evangelisti ai quattro angoli e con relativi simboli. Particolarmente ammirata è l'ancona dell'altare maggior divisa in due ordini architettonici sovrapposti. Essa è dominata da angeli e santi con al centro del timpano il Padre Eterno fra spezzoni ricurvi. Il timpano è occupato dalla colomba dello Spirito Santo in ampia raggiera con ai lati due angeli. La trabeazione che sormonta le colonne esterne reca le statue di S. Bartolomeo (a sinistra) e S. Giovanni Nepomuceno (a destra). Sulle mensole esterne ai lati delle colonne si ergono le statue di S. Francesco d'Assisi (a sinistra) e di S. Antonio da Padova (a destra). Nella specchiatura della grande soasa barocca è conservata una pala di modeste dimensioni (cm. 200 x cm. 140) che raffigura una Pentecoste, ripresa "ad evidentiam" dal noto dipinto del Tiziano che è posta sul primo altare a sinistra della chiesa di S. Maria della Salute a Venezia e che il Vasari data al 1541, rifatta nel 1555. Attribuita a vari autori e al Giugno o alla sua scuola dall' Anelli, si deve a D. Tognali il rinvenimento del contratto del 5 giugno 1691 tra il notaio Bartolomeo Ballardini ed il pittore Giovanni Pinelli, un veneziano trapiantato in Valcamonica o di passaggio e dimorante in Valsaviore. Come ha sottolineato lo stesso Tognali: "Il rapporto delle figure tra di loro è un derivato della pittura di Venezia e sono pure tizianesche le scelte cromatiche nella loro netta e precisa intensità di rosso sangue, di verde erba e di blu scuro. Forse l'autore cerca di impiegare gli espedienti dal disegno (passaggi, fraseggi, procedimenti stilistici) con acquistato "fare" locale, scegliendo con sagacia le delicatezze più propriamente venete. La differenza sta proprio nell'evidenza espressiva del disegno e nella tonalità del colore". Molto semplice è il paliotto dell'altare con l'Agnus Dei fra i SS. Pietro e Paolo, qualche cherubino, quattro cariatidi e cornici ornate. Più complesso il tabernacolo a due ordini architettonici la cui base è ricca di sei colonnette tortili staccate, fra le quali stanno formelle con i bassorilievi raffiguranti "Gesù nell'orto", "Elia e l'Angelo", "Gli esploratori che tornano dalla Terra Santa con un grosso grappolo d'uva". Nella portella del tabernacolo, Ettore Calvelli ha scolpito nel 1962 la scena dei discepoli di Emmaus. L'ordine superiore del ciborio presenta un piccolo edificio, con una grande apertura centrale e piccole aperture laterali, contornato da una balconata. All'interno è raffigurata l'Ultima cena. Sovrasta un cupolino piatto a spicchi con sopra la croce. Scendendo lungo il lato di sinistra, si incontra una complessa tela del Cristo deposto; nella parte superiore della cornice sono i simboli della Passione e nella parte inferiore le Anime Purganti con l'Angelo liberatore e S. Gregorio papa. Segue, nella campata centrale, il grande organo costruito nel 1884 da Carlo Bossi e restaurato nel 1925 da Armando Maccarinelli. Infine, in una cappella poco fonda è posto l'altare di S. Antonio da Padova. La soasa è molto simile a quella del Rosario che gli sta di fronte: due colonne tortili, decorate da foglie, tralci e grappoli, sono sormontate dal timpano triangolare con due angeli musicanti e nel centro un angelo in piedi. Nella pala è effigiato S. Antonio con ai piedi S. Rocco e S. Giuseppe. Il paliotto è opera di Onorato Ferrari di Ponte (1930) e raffigura il miracolo dell'asino che si inginocchia al passaggio dell'Eucarestia; ai lati stanno due statuette e decorazioni con angioletti e cariatidi. In un angolo è sistemato il moderno fonte battesimale con vasca, con piedestallo in marmo bianco, in granito di Sardegna e coperchio con i sette simboli sacramentali scolpiti da Maffeo Ferrari. Le stazioni della Via Crucis scolpite nel 1985 sono opere lignee della bottega Sandrini di Pontedilegno. La sacrestia è affrescata: nella volta l'Ultima Cena, e agli angoli, in quattro medaglioni, le virtù: Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza dipinto il tutto dal 17 settembre all' 1 ottobre 1764 dal pittore comasco Paolo Corbellini, con l'aiuto del figlio Giovanni Battista. Nei depositi si trova una bella statua seicentesca in legno, della Madonna, offerta nel 1834 da Maria Menici ved. Massi. La statua di S. Luigi è opera di Tommaso Petroboni (1815). Lo stesso eseguì le cornici delle segrete di un altare, un confessionale (1835) e un trono della Madonna (1842).


S. ALESSANDRO. Sorge sull'antica strada Valleriana tra Vione e Lecanù, sulle falde del versante S del dosso Bergino. Franco Bontempi la ritiene eretta agli inizi del '600 d.C. quando la regina Teodolinda invitò a dedicare chiese ai santi martiri anaunensi. Tuttavia i documenti finora conosciuti sono più recenti. La relazione del parroco per la visita pastorale del 1716 afferma che questa chiesa è "la prima edificata in quelle parti, quando venne la dismembrazione della parrocchia di Temù da Vezza", mentre il cronista vionese Biancardi e Gregario Brunelli la vogliono addirittura costruita per ordine di Carlo Magno in ringraziamento dei suoi "felici successi contro sette barbare" e arricchita di indulgenze dai sette vescovi al suo seguito. Sembra invece, secondo storici locali, che sia stata eretta nel sec. XIII. Controversa è la proprietà della chiesa nelle sue origini. Controversa è anche la dedicazione se a S. Alessandro della legione tebea, venerato a Bergamo oppure a S. Alessandro ostiario che con il lettore Martirio e il diacono Sisinio vennero inviati da S. Ambrogio nell'Anaunia e vennero uccisi e bruciati da una folla di pagani il 29 maggio 379. Il Biancardi e il Favallini la vogliono nell'ambito di Vione, come confermano i documenti almeno fino al 1704. D.M. Tognali afferma che non c'è dubbio "che la chiesetta appartenesse a Vione per ragione di territorio, ma divenne più tardi di Dalegno per diritti di giurisdizione, senz'altro nel XIII secolo, quando per la crescita delle popolazioni nell'alto bacino dell'Oglio e il desiderio di smembramenti per comuni vantaggi, si formarono i territori comunali con i relativi confini" . Aggiunge che "al principio del XIII secolo, quando si pensa che sia avvenuta un'immane rovina che seppellì l'abitato di Vione, e la sua primitiva chiesa di S. Remigio era scomparsa o resa inservibile alla celebrazione del culto, mentre si aspetta a ricostruirla in un luogo più sicura, sorge a metà strada tra Vezza e Dalegno una chiesetta che possa servire i pochi abitanti di Vione, Stadolina, Canè, Molina e le case sparse di Tagna, distrutte poi da un'alluvione nel 1521". E ancora rimarca come Vione abbia mantenuto "sempre quella forte venerazione che conservano le popolazioni per le antiche chiese, e ancora la tradizione ci tramanda che quelli di Vione andavano in processione fino alla "Crosèta". Non si conosce il motivo per cui Vione abbia rinunciato alla chiesa. Il 22 giugno 1365 essa veniva unita a S. Martino e alla SS. Trinità di Dalegno pagando ogni anno alla Curia due libbre di cera.


Come appartenente a Villa Dalegno è citata nel 1562, dal Visitatore don Giacomo Pandolfi che la dice "campestre, di conveniente clausura" e soggiunge "ordinato l'altare di quanto fa bisogno, e sia tenuta serrata". Il vescovo Bollani nel 1567 la dichiara soggetta a Ponte di Legno e legata alla chiesa di S. Martino e sottolinea come vi si celebri "spessissimo". La tradizione popolare vuole che nella chiesetta di S. Alessandro abbia sostato S. Carlo (la strada della valle passava di lì) e che abbia lasciato su una pietra sporgente dal fianco della chiesa il segno del suo piede e dello zoccolo del cavallo. Vuole anche che il Santo, trovatosi di fronte ad una fontana stregata che sgorgava nei pressi, "ne levò ogni malia, e la rese salubre" e ad essa si dissetò. S. Carlo, negli Atti della visita apostolica del 1580, ordina che l'altare venga reso regolare e chiuso da cancelli di ferro. Inoltre, che venga otturata la finestra attraverso la quale si guarda in chiesa. Si imbianchino le pareti, si faccia il soffitto, si ripari il tetto. Non vi si celebri fino a quando tutto ciò non sia stato eseguito. Nel 1592 il vescovo Morosini ordina che non vi si celebri fino a quando non vengano adempiti gli ordini di S. Carlo, e in più che si rendan sicuri i cancelli appena posti. Nella sua relazione, in occasione di tale visita, il parroco scriveva che la chiesa aveva buonissime entrate di beni stabili "quali possedute dal Rev. Rettore di Villa, del che molto si lamenta tutta la comunità di Temù". Nel 1702, dagli Atti della visita pastorale, sappiamo che la chiesa è "mantenuta puramente per la elemosina", che doveva essere abbondante, giacchè subito si aggiunge che "ha buone entrate". Ma agli inizi del '700 la chiesa era in decadenza. Nel 1716 il Visitatore trova distrutto l'altare e il 4 settembre 1732 ordina che venga sospesa la chiesa stessa "fino a quando non venga restaurata, del cui restauro doveva rendere relazione il vicario foraneo". I restauri vennero senz'altro eseguiti. Nel 1777, infatti, sappiamo che è amministrata da sindaci eletti dal comune. Vi si canta messa e vespro solo il 26 agosto e qualche volta per pubblici bisogni. La spesa si paga dalla Comunità medesima. La chiesa ha un'entrata di L. 5. Nella sua relazione del 6 maggio 1807, il parroco la dice "quasi abbandonata dopo la venuta delle truppe francesi; allora era mantenuta dalla pietà dei fedeli". Gli Atti della visita del 1837 registrano che vi si canta la messa anche la prima domenica di settembre "per voto della Comune". Il parroco nel 1855 denuncia una "tenuissima entrata incorporata alla fabbriceria; mancano i mezzi per tenerla addobbata convenientemente. Nella prima domenica di settembre si reca il popolo processionalmente e si canta la Messa ad onor del santo e si torna colla processione cantando le litanie dei santi alla chiesa parrocchiale". Nel 1885 il parroco nella sua relazione annotava che la chiesa "per mancare di mezzi non si può mantenerla col debito decoro". Nonostante gli ordini emanati nella visita fatta in tale anno dal vescovo Corna Pellegrini e pur rimanendo l'obbligo al parroco di recarsi in processione la prima domenica di settembre con messa e panegirico del Santo, la chiesa subì un deciso, continuo degrado, fino a quando nel 1938-1939 grazie ad una munifica elargizione di Italo Tognali e all'offerta di legname da parte dell'amministrazione comunale, venne restaurata e arricchita di un altare in marmo, della pavimentazione del presbiterio ad opera di Luigi Brunelli di Canè, mentre Vittorio Trainini l'affrescava con scene della vita di S. Alessandro e restaurava la pala dell'altare. Una lapide ricorda il benefattore con la seguente iscrizione: "In onore di Dio Onnipotente e del Santo martire Alessandro fu restaurato ed abbellito il santuario cadente per vecchiezza in memoria del dottore Italo Tognali fu Battista nell'anno 1939".


La facciata è a capanna, con semplice porta e architrave in marmo bianco protetta da un baldacchino formato da travetti in legno coperti di lamiera. Più ornata è la lunetta posta in alto nel mezzo del timpano, mentre la chiesetta prende luce da una finestra a sinistra dell'entrata e da una posta sulla fiancata S. Si accede alla chiesa anche da una porta aperta sul lato S incorniciata da stipiti e architrave in marmo. Accanto ad essi si apre una finestra che illumina il presbiterio. Sul lato N si erge il tozzo campanile, rustico ma con connotazioni architettoniche lombardo-romaniche, con aggraziate bifore a colonnina centrale e cuspide a leggero pinnacolo. L'interno della navata è a soffitto a capanna con grossa capriata centrale che sostiene un assito dipinto a fasce di angioletti alternati a croce. Sull'arco trionfale a pieno centro, poggiante su lesene con piatti capitelli aggettati, che separa la navata dal presbiterio, si legge: "In lege Domini fuit voluntas eius die ac nocte". Quattro spicchi, limitati dai costoloni e dagli archi ornati da motivi floreali, formano la semplice volta a crociera del presbiterio. Una striscia centrale in cotto e due laterali in marmo e pietra scistosa compongono il rustico pavimento. L'altare è un misto di piastre di marmo bianco e policromo. Sulla parete di fondo, in centro ad un'edicola dipinta, è sistemata una tela di buona fattura, raffigurante il signifero Sant'Alessandro a cavallo, incorniciata da un leggero ornamento di legno dorato.


S. SEPOLCRO. Costruito nei primi anni del 1700, dopo che nell'ottobre 1701 venne superato un "contradditorio" fra don Pietro Giacomo Cattaneo e il rettore don Gregorio Ballardini da una parte e il console della vicinia Giovanni Moreschi dall'altra, circa la proprietà dell'orto attiguo, a N della canonica. Superata ogni divergenza, la chiesa sorse nello stesso luogo. Secondo una tradizione locale la chiesa era stata la cappella della frazione, quando fungeva ancora come parrocchiale la chiesa dei SS. Martiri tuttora esistente in frazione Molina. Il nome è derivato dal folto gruppo statuario raffigurante la Deposizione di Gesù nel Sepolcro. Nelle due nicchie di sinistra sono collocate le statue di Maria di Magdala e di S. Giovanni, in quelle di destra l'Addolorata e la Veronica; sul pavimento della grande nicchia della parete di fondo è deposto il Cristo morto e sulla parete è appeso un crocefisso di discreto valore, contornato da angioletti, che sostituisce, come sottolinea D.M. Tognali, un quadro di nostro Signore e un'anconetta dei Petroboni di Vione del 1815. Nel centro della volta a botte c'è l'affresco della Crocifissione del pittore Stefano Salvetti di Breno, eseguito nel 1910. La cappella venne restaurata in quell'anno ad opera di Luigi Maroni di Villa, che eseguì i lavori di stuccatura, e dal Salvetti stesso che restaurò le statue e provvide alle decorazioni; i fratelli Ferrari di Ponte costruirono l'altare che ora è stato rimosso. I lavori vennero benedetti il 12 dicembre 1910. Nuovi restauri vennero eseguiti grazie all'iniziativa del parroco don Bazzana e con un lascito di Matilde Menici.


LECANÙ - S. ANTONIO ABATE E SS. MARTIRI. Come scrive D.M. Tognali "s'eleva su uno spiazzo al culmine di un declivio prativo che dà sullo spumeggiante torrente Fiumèclo (vero fiume latte), che precipita dagli orridi antri della "Ganassa"; è in posizione dominante le due frazioni: Molina e Lecanù". Lo stesso Tognali la dice sorta al principio del XV secolo, su una cappella preesistente, del 1300. A distanza di tempo doveva essere ancora in buone condizioni, se il vescovo Bollani nella sua visita del 17 settembre 1567 si limita a ordinare cose da poco (candelabri, purificatoi, ecc.). Egli registra che vi si celebra e ordina che sia tenuta chiusa. Dagli Atti di don Cristoforo Pilati (1573) sappiamo che vi si celebra una volta la settimana e, talvolta, per devozione; il visitatore ordina che vengano eseguiti gli ordini del vescovo Bollani. Il Celeri, nella sua visita del 1678, la dice unita in tutto (diritti, penitenze) con la chiesa parrocchiale di S. Martino di Villa Dalegno. È consacrata e ha il cimitero nel quale vengono sepolti i morti di Lecanù. È tutta a volta, imbiancata e in più parti dipinta. Ha una loggia. Il pavimento è parte in legno e parte in pietra. Ha la porta principale nella facciata e una porticina sul lato sinistro. Ha due finestre munite di vetro. Vi è il campanile con la campana, ma manca la sagrestia. L'edificio, gli ornamenti, i paramenti, la cera sono di spettanza dei vicini. Vi si celebra messa solenne nel giorno di S. Antonio e durante l'anno per voto e devozione. L'altare è consacrato, ha un'icona ornata di statue dorate, che il visitatore ordina che venga inserita nel muro, così che la mensa dell'altare rimanga più larga e vi sia posto per il sopralzo per i candelabri. Ha una croce di ottone dorato, e un altare di legno (che devono essere dipinti), candelabri, tovaglie, ecc. Il visitatore ordina paramenti. S. Carlo nel 1580 comanda che venga chiuso l'altare maggiore con cancellata di ferro o almeno di legno, che si ponga l'acquasantiera, si faccia un pallio di seta, si provveda di una pianeta ecc. Il visitatore sottolinea che sono gli abitanti tenuti a fare ciò. Il vescovo Morosini nel 1592 trova che è stata posta la cancellata, e che è già stata incominciata, anzi, quasi finita, la sagrestia; ordina che non vi si celebri fino a quando non sono stati adempiuti gli ordini di S. Carlo e gli amministratori diano conto della amministrazione dei beni. Il parroco, in occasione della stessa visita, scriveva che la chiesa aveva "di entrate L. 4 e alcune pecore in società". Nella chiesetta si celebrava "ogni festa per tempo, a spese della contrada".


Gli ordini lungo il '600 sono quasi insignificanti, segno che la chiesa era ben tenuta. Nel 1646 si ricorda l'esistenza del cimitero. Una lapide posta a destra della porta maggiore ricorda un Francesco Zani benefattore della contrada e fondatore con testamento dell'1 febbraio 1704 di una Cappellania.


Al titolo di S. Antonio abate, agli inizi si aggiunse quello dei SS. Martiri, grazie al dono di reliquie insigni di S. Clemente e di S. Valentina e quelle ancora dei Santi martiri Alessandro, Benigno, Giacinto, Lorenzo, Patrizio e Concordio, tolte dalle catacombe di S. Callisto nel 1684, di proprietà della romana donna Antonia Cecci e passate in mano del temunese p. Benigno, minore osservante del convento di S. Bonaventura di Venezia e da lui donate il 16 aprile 1706. Nel 1713 lo stesso religioso donava anche le reliquie di S. Donato e di S. Diadora (Teodora). Dal 1716 si tennero particolari funzioni e tutte le reliquie furono collocate, con quelle di S. Antonio e S. Paolo, nei depositi del nuovo altare che la vicinia ordinò allo scultore Clemente Bucella di Vezza d'Oglio e il giorno solenne di commemorazione venne fissato nella seconda domenica di luglio. Nel 1764 veniva istituita la Cappellania per la messa nei giorni festivi, che venne poi ritenuta di giuspatronato pubblico. Dalla relazione parrocchiale del 1777 sappiamo che è "mantenuta dai vicini della contrada", che vi si celebra ogni festa e ogni venerdì. Su di essa ha il giuspatronato "casa Zani, ora a Cerveno". Il parroco aggiunse: "In questo paese vi è l'uso antico di non render mai conti, e gelosamente si conserva". La Cappellania ha un reddito di L. 354. Alla messa festiva e a quella del venerdì si aggiunge la messa del lunedì. La relazione del parroco registra un altro motivo di devozione. Egli scrive che "trovandosi [...] alcune reliquie, si espongono alla pubblica venerazione nella seconda domenica di Luglio, ove il popolo si reca processionalmente e si canta la Messa ed il Vespro. Lo stesso si fa il giorno del santo il 17 gennaio". Ancora nel 1885 nella sua relazione per la visita, il Vescovo Corna Pellegrini accertava la presenza in S. Antonio di una Cappellania di rendite e di reliquie con autentiche. Fu restaurata, come suggerisce una data incisa, nell'architrave, nel 1743. Nel 1866 il marmista Giuseppe Brunelli da Canè poneva un nuovo pavimento. Importanti i restauri eseguiti nel 1925, per voto di guerra, dal pittore e decoratore brenese Giulio Rodenghi aiutato da Antonio Salvetti, per sottoscrizione degli abitanti delle frazioni Lecanù e Molina.


D.M. Tognali lo definisce "piccolo gioiello architettonico artisticamente interessante". Semplice la facciata, scandita da lesene poggianti su piedistalli di granito, da un portale semplice, sormontato da una finestra trifora contornata da un affresco. Sul fianco si aprono due finestre che danno luce alla chiesa e si appoggiano la sagrestia e un ripostiglio aggiunti nel '600. Scrive D.M. Tognali: "L'interno si compone di un'unica navata rettangolare (m. 12 x m. 7,30) ritmata in tre campate omogenee segnate da lesene lisce i cui capitelli sostengono i cornicioni laterali, sui quali terminano le coperture della volta a botte, intervallate da due archi trasversi a tutto centro, poggianti sui capitelli. Sulla prima e terza campata della parete di destra si aprono due finestre. Sul lato di destra sorge l'altare della Madonna eretto nel 1862 da Martino Balzarini di Canè. L'altare non ha nulla di notevole, ma la nicchia contiene un capolavoro di arte lignea popolare di ignoto maestro altoatesino del sec. XVI raffigurante la Madonna assisa come regina, con la testa cinta da una corona di stile gotico che le dona un aspetto singolarmente dignitoso. Con la mano destra Ella tiene ritto Gesù Bambino intento a leggere sul libro che la Madonna tiene aperto sulla sua mano. Sullo sfondo due angioletti si piegano verso la B. Vergine. Nel presbiterio, come scrive D. M. Tognali, c'è una pregevole cancellata in ferro battuto rettangolare. Vi si accede per mezzo di due gradini di marmo. La cancellata è infissa nelle due lesene laterali i cui capitelli danno appoggio al grande arco trionfale decorato nei rosoni con emblemi di martiri e sul quale sta scritto: "Vere languores nostros ipse tulit et dolores nostros ipse portavit, o Rex martirum salve". Dall'architrave dell'arco pende un Crocefisso di legno affiancato da due statue di santi secentesche, di buona fattura. Il soffitto è a volta a botte; sotto il cornicione aggettato si apre una lunetta. In due nicchie ricavate nelle lesene sono collocate le statue di S. Antonio e S. Paolo. Come sottolinea il Tognali: "Il complesso altare-soasa è formato da capolavori che testimoniano l'importanza dell'arte lignea fiorita in valle tra il Sei e il Settecento. Il frontespizio dell'altare, che mostra una lieve concavità, ha la parte centrale più alta, sormontata da una cimasa formata da due spezzoni curvi sui quali sono posate due statuette di martiri che affiancano la Vergine, posta al centro; nel pannello centrale, di forma ovale, che occupa quasi tutta la facciata, è raffigurato in bassorilievo il martirio di papa Clemente I. Due coppie di cariatidi separano i depositi laterali delle reliquie nelle cui nicchie sono esposte le statuette dei martiri; si innalzano al centro, tra la parte più alta e le volute angolari, altre due statuette. Animano il complesso architettonico cariatidi, putti e angioletti. L'artista, come ha indicato D.M. Tognali dopo le sue diligenti ricerche nel "Libro della chiesa" alla data 5 novembre 1721, fu Domenico Bucella di Vezza d'Oglio, allievo di Domenico Ramus. Il tutto venne poi indorato grazie alle disposizioni testamentarie di Pietro Zani del 1750. Il Paliotto dell'altare, della fine del Seicento, di cuoio impresso, bulinato e dipinto bizzarramente con fiori, presenta al centro la Madonna col Bambino, seduta sulle nubi, con ai fianchi S. Paolo e S. Antonio. Della fine del '600 è anche la pala. Essa raffigura la Madonna che impugna lo scettro con la mano destra e con il braccio sinistro sostiene il Bambino che ha tra le mani il mondo; due angioletti sostengono il diadema posto sulla testa della Vergine ed una teoria di visi di angeli le fanno corona tra le nubi. Ai suoi piedi, S. Giovanni Battista e S. Antonio; nello sfondo un paesaggio. Il quadro è incorniciato da una soasa lignea, uscita dalla bottega dei Ramus, ricca di colonne tortili decorate a viticci e sovrastata dal Padre Eterno e dalla colomba, affiancati da due coppie di angeli. Ai lati delle colombe, su due mensole, sono le statue di S. Francesco e di S. Antonio di Padova. D. M. Tognali ha individuato anche gli indoratori della fine del '700 e cioè il Pianta e Angelo Soardi. Sulla destra del presbiterio si apre la sagrestia, dove sono conservati un bel Crocifisso cinquecentesco, e due interessanti ex voto raffiguranti la Madonna col Bambino, affiancata dai SS. Alessandro, Gregorio, Antonio, Rocco, Lucia e Apollonia offerti l'uno da Giacomo Antonio Poletti e datato 3 ottobre 1742 e l'altro da Giacomo Tomasetti e datato 1739. Settecentesco è il campanile eretto sull'angolo E della chiesa. Rovinato da un fulmine il 7 luglio 1726 venne ricostruito dal 1735 al 1744. Ha due campane, una più antica, l'altra fusa nel 1933.


S. GIROLAMO nella SELVA DI BERGACCIO. La relazione del parroco per la visita pastorale del 1855 la dice di don Martino Tommasi di Canè e soggiunge: "Ma per mancanza di sacerdoti che potrebbero esser chiamati a celebrare in detta chiesa, è andata in decadenza ed è vicina alla totale demolizione".


ECONOMIA. Fino ai primi decenni del sec. XX si fondava sui pascoli e boschi e perciò sull'allevamento bovino e la pastorizia. Attivissima un tempo la produzione di burro considerato il migliore della Valcamonica. Per una produzione più organizzata nel 1877 era già attiva una Latteria sociale invernale. Una piccola parte del territorio produceva segale, frumento e orzo. Sfruttato il legname di vasti boschi. Molto apprezzato il miele; quello prodotto da Luigi Bettoni vinse nel 2000 il premio "Apedoro". Temù era considerato un tempo centro per la lavorazione del ferro in fucine attive fino alla fine dell' '800, quando tale attività scomparve definitivamente. La citata fabbrica di birra Poletti e Carminati rimase unica per decenni nella valle. Attivo particolarmente fino a pochi decenni fa l'allevamento del bestiame con relativa produzione di burro. In sviluppo anche la pesca nei torrenti; per incrementarla veniva, creato dallo Stabilimento Ittiogenico di Brescia, un incubatoio che, nel 1936, lavorava 60 mila uova di trota. Vincente a partire dalla fine del sec. XIX, ma accentuato sempre più nel sec. XX, il comparto turistico che ha trasformato radicalmente l'economia locale.


PARROCI: Antonio Gelmi (18 gennaio 1668); Stefano Clementi (3 luglio 1684); Gregorio Balardini (16 luglio 1692); Domenico Togni (1 luglio 1745); Domenico Menici (26 settembre 1773); Bartolomeo Bertoletti (17 ottobre 1802); Martino Pasina (2 luglio 1849); Pietro Rizzi (4 dicembre 1890); Francesco Baudassi (25 luglio 1902); Giuseppe Donati (6 luglio 1909); Severino Rossini (14 luglio 1915); Giovanni Albertelli (vic. econ. 1963); Giovanni Bazzana (1 maggio 1964); Martino Sandrini (26 settembre 1979).


SINDACI, PODESTÀ, COMMISSARI PREFETTIZI: Francesco Tognali (dal 1860 al settembre 1861); Giovan Antonio Zani (dal settembre 1861 al 1863); Giacomo Ballardini (nel 1864); Antonio Tantera (nel 1865); Antonio Testini (dal 1866 al 1870); Giovan Antonio Zani (dal 1871 al 1872); Giovan Antonio Ballardini (nel 1873); Martino Tantera (dal 1874 al 1875); Bortolo Menici (dal 1876 al 1882); Giovanni Tantera (nel 1883); Giacomo Citroni (dal 1884 al 1899); Giacomo Tantera (dal 1900 al 1904); Domenico Menici (dal 1905 al 1914); Bortolo Ballardini (dal 1915 al 4 novembre 1921); Domenico Menici (dal 5 novembre 1921 all'aprile 1924); Michele Morsero, commissario prefettizio (nel 1924); Domenico Menici (dal 1925 al 1926); Francesco Farisoglio, podestà (dal maggio 1926 al 17 settembre 1930); Marino Tantera, commissario prefettizio (dal 18 settembre 1930 al 13 novembre 1931); Marino Tantera, podestà (dal 14 novembre 1931 al 28 dicembre 1935); Lorenzo Ballardini, commissario prefettizio (dal 29 dicembre 1935 al 23 luglio 1936); Lorenzo Ballardini, podestà (dal 24 luglio 1936 al 12 aprile 1939); Franz Ferrante, commissario prefettizio (dal 13 aprile 1939 al 15 aprile 1939); Fausto Canossi, commissario prefettizio (dal 16 aprile 1939 al 16 novembre 1939); Fausto Canossi, podestà (dal 17 novembre 1939 al 23 novembre 1944); Giovanni Asticher, commissario prefettizio (dal 24 novembre 1944 al 6 aprile 1946); Giovanni Asticher, sindaco (dal 7 aprile 1946 all'11 dicembre 1948); Matteo Bazzoli (dal 12 dicembre 1948 al 2 giugno 1951); Ugo Ballardini (dal 3 giugno 1951 al 2 giugno 1956); Ugo Ballardini (dal 3 giugno 1956 al 21 dicembre 1960); Matteo Bazzoli (dal 22 dicembre 1960 al 7 dicembre 1964); Matteo Bazzoli (dall'8 dicembre 1964 al 28 maggio 1970); Matteo Bazzoli, commissario prefettizio (dal 29 maggio 1970 al 5 dicembre 1970); Matteo Bazzoli (dal 6 dicembre 1970 al 10 luglio 1975); Vigilio Toloni (dall'1 luglio 1975 al 27 giugno 1980); Francesco Ballerini (dal 28 giugno 1980 al 13 giugno 1985); Matteo Bazzoli (dal 14 giugno 1985 al 5 maggio 1990); Pietro Luigi Maculotti (dal 6 maggio 1990 al 22 aprile 1995); Maria Giovanna Battistel (dal 23 aprile 1995 al 12 giugno 1999); Corrado Tomasi (dal 13 giugno 1999).