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SERLE (in dial. Serle, in lat. Serlarum)

Centro agricolo nel territorio pedemontano bresciano di quello che viene chiamato il Piemonte di Brescia, a E di Brescia e a NO di Nuvolento. Si estende su di un altopiano alla testata della Valletta percorsa dal rio Spinera, tributario di sinistra del rio di Giove. La sede del municipio è a m. 495 s.l.m. a 20 km. da Brescia. Ha una sup. com. 17,96 kmq.


Comuni limitrofi: Vallio Terme, Paitone, Nuvolento, Nuvolera, Botticino, Nave, Caino. Numerose le frazioni e caseggiati. Salendo da Nuvolento si incontra dapprima Berana (m. 375, km. 1,58 dal centro), indi Biciocca con depositi di carbone vegetale e Manzaniga, con la cappella della Madonna di Caravaggio. La strada sale poi al cuore del paese; a destra Bornidolo (km. 0,50), Magrena (km. 0,65) con notevoli case contadine. A sinistra Casella (km. 0.24) e Chiesa, m. 505, sede del municipio e della chiesa parrocchiale. Poco oltre Sorsolo (m. 462, km. 0,48) allungato su un crinale, e Flina. La strada principale tocca poi Salvandine, m. 567 (km. 1) e Gazzolo e a sinistra le poche case di Gurale (m. 599, km. 1,32). Più avanti Ronco (m. 594, km. 3,00) ed al bivio successivo prendendo a sinistra (per S. Gallo e Botticino) Cocca (m. 656, km. 4,00) e, più distante, Castello (m. 656, km. 7). Tornati al bivio e riprendendo la strada comunale si sale a Villa (m. 673, km. 5,00) la frazione più elevata. Una diramazione a destra porta a Tesio Sopra e Sotto, (km. 5,00) da dove si diparte una strada asfaltata che scende a Gavardo. Da Villa si può salire al colle di S. Bartolomeo, m. 933, ove sono i resti del monastero benedettino di San Pietro in Monte. A NO del centro si estende il vasto altipiano di Cariadeghe mentre a NE quello di Tesio. Tutto il territorio è di natura carsica.




ABITANTI (Serlesi, Serlì, Serlini, nomignolo "sensa creanse"): 580 nel 1493; 800 nel 1566; 950 nel 1580; 1800 nel 1610; 600 nel 1648; 1164 nel 1727; 1046 nel 1775; 1009 nel 1791; 1203 nel 1819; 1406 nel 1835; 1560 nel 1848; 1810 nel 1858; 1718 nel 1861; 1925 nel 1868; 1881 nel 1871; 2000 nel 1875; 1923 nel 1881; 2040 nel 1887; 2200 nel 1898; 2139 nel 1901; 2298 nel 1908;2320 nel 1911; 2357 nel 1921; 2460 nel 1926; 2497 nel 1936; 2450 nel 1949; 2772 nel 1951; 2300 nel 1963; 2779 nel 1971; 2824 nel 1981; 2817 nel 1991; 2846 nel 1997.




Il toponimo deriva, secondo alcuni studiosi, dal latino serule, diminutivo di serra = sega, o anche solo rilievo, monte ma soprattutto schiena o fianco di monte, che indica con molta evidenza la conformazione montuosa e altalenante del territorio sul quale si adagiano il centro e le frazioni. Secondo Paolo Guerrini deriva da "serule" = doline. Secondo l'Olivieri potrebbe anche derivare dalla voce lat. "cerulae" o "serulae": "piccoli cerri". Il Bottazzi dice il nome di origine ligure e lo mette in relazione con il monte Serles a S di Innsbruck e monte Braies (nel Trentino). È Sarle nel 1041, Serlis o de Serlis nel 1175, 1253 ecc.


La più evidente caratteristica fisica del territorio è nei fenomeni di carsismo che si manifestano sotto forma di doline e di grotte con punte di densità molto elevata, 250-300 doline per km., addirittura superiore al Carso triestino. Ha la sua maggiore manifestazione della formazione liassica e del calcare di Zu (Retici - medio inf.). L'altopiano si estende, ad un'altitudine tra i 600 e i 1169 m., da Gavardo fino alla conca di Botticino, delimitato a N dalla valle di Caino e dal torrente Vrenda. Caratteristiche le grotte, dette anche büs o omber, contate fino a 50, fra le quali alcune di grande interesse. Sono celebri el büs del Degondo sul monte Salem, el büs del zel dove anche d'estate si può trovare del ghiaccio, el büs del Budrio, el büs della Mandria (dove secondo una leggenda precipitò un brigante cui il terribile capo aveva mozzato le mani con un colpo d'ascia per aver svelato informazioni sulla banda), el büs del lat, el büs de la Carbonela, "l'Omber en banda al büs del zel". Le grotte dagli anni '30 del secolo XX vennero visitate e studiate dal Gruppo grotte di Brescia che nel 1976 scopri la più grande grotta bresciana lunga oltre duecento metri che si snoda in una serie di pozzi, corridoi, canyon sotterranei. Nel Büs del Zel 1967 Villani, Crescini e Sereni trovarono resti di un "ursus speleus". Le grotte accolgono una microfauna di notevolissimo interesse tra cui alcune specie endemiche ed esclusive. Assai significativa, dal punto di vista vegetazionale, è la presenza dell'Agrifoglio o Alloro Spinoso (Ilex Aquifolium L.,specie di flora spontanea protetta) e del Faggio (Fagus Sylvatica L.) che troviamo in esemplari di notevoli dimensioni, veri monumenti naturali. Sono stati evidenziati in ricerche recenti ben 150 "grandi alberi" comprendenti oltre i faggi, aceri, betulle, carpini, frassini, ciliegi, cerri, roverelle. Il sottobosco è fitto di splendide felci. Nelle radure si trova un folto tappeto di brugo con ginepri sparsi. Dappertutto nidificano uccelli silvani, non rari, ma graziosi e canterini. Di una certa consistenza il materiale preistorico trovato nel territorio. Sull'altopiano di Cariadeghe vennero nel 1967-1968 rinvenuti oggetti di industria litica, riferibile a quattro stazioni, due delle quali databili al Paleolitico medio e al Mesolitico. Al limite NE dell'altopiano di Cariadeghe, sopra il fienile Rossino, in più saggi di scavo compiuti nel 1970, 1979, 1980, 1986 venne scoperta da P. Biagi e G. Marchello una stazione del Mesolitico (transizione tra i complessi a triangoli e quelli a trapezi), con resti di strutture in situ, un pozzetto con buca di palo. Dell'insediamento, forse a carattere stagionale, vennero recuperati bulini semplici, grattatoi e altri strumenti vari. Circa venti elementi in selce dei quali due, una punta e un raschiatoio, ritoccati; sono databili al Paleolitico medio e vennero trovati (1979, 1980 ecc.) presso la Cascina Buco del Latte.


L'altopiano di Serle era attraversato fin da epoche preistoriche da sentieri e vie che congiungevano la città di Brescia con la Valsabbia attraverso il colle di S. Eusebio o più direttamente attraverso Botticino e S. Eufemia. Una di esse rasentava il monte Orsino o di S. Bartolomeo e nel 1176 viene registrata la via detta di S. Pietro che scesa dal monastero prosegue per Gavardo. Su Gavardo tra l'altro gravitò Serle, anche quando il comune di Brescia cercò di potenziare il mercato urbano. Pochi decenni fa venne trovata una pietra miliare con l'indicazione del Colle di S. Eusebio. Nel 1959 Gaetano Panazza trovava presso la chiesa di S. Bartolomeo una epigrafe su lastra in medolo con iscrizione votiva ad Ercole, che pur riferendosi ad una divinità romana richiamava una analoga divinità celtica. Il testo dell'iscrizione, ricostituito, sciolte le abbreviazioni, e integrate le parti mancanti, suona così: "HERCULI / L. CLODIUS / SECUNDUS / IUSSU. V. S.". Cioè: L. Clodio Secondo per ordine sciolse il suo voto a Ercole. È da notare che la gens Clodia, cui apparteneva il dedicante, era molto diffusa nel Bresciano, come provano le iscrizioni trovate, alcune delle quali anche a Nuvolento e a Vobarno, non lontano cioè da Serle. La lapide, in medolo (m. 0,21 x 0,24) forse potrebbe indicare che anteriormente al monastero longobardo vi fosse una sacello pagano. A questo potrebbero far pensare i bei conci squadrati in pietra che parrebbero romani, murati nei contrafforti della chiesa nel lato sud. Strutture di una fornace romana per mattoni del secolo I d.C. venero trovate nel 1957 e 1971 sull'altopiano di Cariadeghe presso la cascina Meder. Sebbene il Panazza dubiti che si riferiscano ad una fornace del monastero, embrici romani si trovano oggi nel Museo archeologico di Gavardo. Ai primi tempi del Cristianesimo appartiene la leggenda di S. Silvino, vescovo di Brescia (425-450), che qui si sarebbe rifugiato in periodo di persecuzione e vi sarebbe morto. Ancora nel 1816 si accennava ad una spelonca di S. Silvino. G. Panazza credette di trovare una prova della fondazione longobarda del monastero in un frammento di un angolo di capitello da lui senza dubbio datato al sec. VIII. Esclusa tale datazione delle origini del monastero potrebbe trattarsi anche solo in via di ipotesi di quella basilica S. Petri, alla quale si accenna nei primi documenti del monastero e posta, forse, al centro di un vasto possedimento del demanio longobardo come indicherebbe il titolo, ed eretta sul monte che ne prenderà il nome sovrastante una vasta zona di selve, di prati, con la presenza di cave di marmo, passata poi in proprietà del vescovo di Brescia e ai suoi feudatari. A Serle ebbero proprietà feudali i Confalonieri assieme al "Compagnatico" per la riscossione del dazio alle porte di Brescia, i Dalla Torre, i Paitoni, e specialmente i Lavellongo e forse i Rozzoni o Ronzoni. Ma nell'XI sec. il vescovo Olderico donava gran parte delle sue terre in Serle come in altre terre contermini al Monastero di S. Pietro che egli stesso aveva costruito e costituito sul Monte di S. Pietro o Orsino. Prima che sorga il monastero nel territorio nel sec. XI si sono disseminate ville (una frazione, oggi di Villa di Sopra, la villa de Casal e Villa de Magrina o Magrena) e sortes o casalia (cioè poderi familiari). In Casale, ad esempio, scrive Aldo A. Settia "è da riconoscere uno di quei poderi familiari talora chiamati sortes o casalia, che compaiono nel corso del sec. XI disseminati nel territorio e che «in seguito allo sviluppo demografico» diventano piccoli centri abitati, cioè appunto ville. Così deve essere stato anche per il casale di Magrena dove abitava nel 1175 il converso di S. Pietro in Monte Alberto Contus, e per la villa superior di Serle, patria nel 1200 di Giovanni detto Spinel. Vivono in questi anni, a leggere i documenti del monastero, sull'altopiano di Serle persone in maggioranza di legge romana, assieme a prestazione "launechild" termine di impronta, secondo A. Padoa Schioppa, longobarda. E già nel secolo XII si intravvedono personaggi e famiglie che continueranno nei secoli. Fra questi fin dal 1130 circa un Laffranco Boifava oltre ai Bucci o Busi, ai Gandolfini, agli Stermi, agli Zucchi, agli Spinelli, agli Albertoni, ecc.


La nascita del comune e della parrocchia di Serle viene fatta risalire al 19 maggio 1138 quando, davanti a numerosi ed importanti personaggi, l'arciprete di S. Stefano di Nuvolento, oltre che a varie decime, rinuncia a tre cappelle: San Nicola, in Nuvolento, Sant'Andrea, appena fuori dal castello, e a santa Maria sul monte di Serle, come rinuncia ad ogni diritto e ragione sugli uomini di Serle e sul monte di Serle. Inoltre può l'arciprete di Nuvolento costruire a Serle una chiesa. Gli uomini di Serle però dovranno recarsi alla pieve di Nuvolento solo per il battesimo; mentre per la confessione e per le esequie dipenderanno o dalla pieve o dal monastero, con libera scelta, senza che né l'abate né l'arciprete possano o debbano interferire. Come rileva Giovanni Vezzoli, nel corso dello stesso sec. XII, e dei successivi XIII e XIV, il Comune, che ormai è costituito nei suoi organi: i "consoli", il "massaro", i "vicini", cioè i capifamiglia che costituiscono la "vicinia", ossia l'assemblea che nomina i rappresentanti del comune, ha anche un suo edificio; infatti alcuni documenti vengono redatti dal notaio, nella casa oppure nella "piazza del Comune e degli uomini di Serle". Negli anni che seguirono il paese nonostante fosse appartato dalle strade più frequentate viene coinvolto in avvenimenti di un certo rilievo. Ciò avvenne nel 1158, 1161, 1166, come ricordano documenti del monastero che rammentando i "tempi dei Boemi" e i "tempi dei tedeschi" quando le truppe di Federico I giunsero a mettere in pericolo Serle e il monastero. Ricordati nei documenti del Monastero i terremoti del 1117, 1142 e del 1147 che produssero "molte rovine". Particolarmente dal sec. XI il comune viene più volte coinvolto talora singolarmente, a volte con altri comuni (o con il monastero) in controversie e liti giudiziarie specie per il monte Dragone. Nel 1186 vecchissimi abitanti del posto, attesteranno, contro i diritti vantati dall'abate, di avere una loro curia oppure, in via alternativa, di appartenere all'antica corte regia di Botticino di cui permane un certo ricordo grazie agli "arimanni" in essa residenti, divenuti dipendenti dei signori di Lavellongo. Di rincalzo e perentoriamente il sindaco della "universitas" di Serle in data 4 maggio 1189 affermava davanti al console di Giustizia Lanfranco di Capodiponte che Serle ha il suo castello, la sua chiesa e i suoi consoli e non appartiene a Botticino. Comunque alla vicinia e ai vicini, al Comune e al Consiglio, ai consoli e ai sindaci si riferiscono numerosi documenti del monastero (1175, 1176, 1186, 1189 ecc.). Le liti riprendono anche più tardi come nel maggio 1204 quando tra l'abate Alberto e il sindaco di Serle Rigolando, interviene una transazione, per la quale il Comune provvederà a custodire il bosco del monte Dragone di proprietà del monastero: solo i vicini - cioè i capi famiglia originari di Serle - potranno falciare il fieno, e nessun altro. Transazione rimessa in discussione in seguito. L'ultimo cenno infatti della vicenda del Monte Dragone si ha in una pergamena del 3 aprile 1300, nella quale si conclude una transazione tra l'abate del monastero don Ogerio e Giovanni Bonera, Graziando Alvernio e Pietro Saltarini consoli e Giovanni Marchesi massaro del Comune di Serle. Viene stabilita una tassa per il monte Dragone e per altre località che erano un tempo proprietà del Monastero. La lunga, secolare contesa, si conclude con la vittoria del Comune. La transazione è conclusa "nella piazza del Comune e degli uomini di Serle" e può avere, anche per il luogo stesso, un suo senso particolare. Nel frattempo si è aperta un'altra controversia. Nel 1295 i consoli di Serle, con quelli di Mazzano e Nuvolento sono incaricati di designare i confini dei possessi del monastero nella terra di Mazzano. Altra controversia ha luogo per il monte Poris, tra il monastero, il comune di Serle e il comune di Flina da una parte e dall'altra il comune di Nuvolento. La controversia si svolge nel 1287 e richiede a un certo punto l'intervento di Leonardo da Grezzano, giudice e assistente del podestà di Brescia.


Nuove questioni, circa l'allodio, cioè la terra libera da ogni vincolo feudale, sorse nel 1297, quando l'abate Ogerio e i suoi monaci, scelgono il monaco Annio, affinché a suo volta scelga uomini che stabiliscano i confini tra l'allodio monastico, il comune di Serle e le singole persone di Serle. Attraverso atti successivi e nel marzo dello stesso anno, il monastero da una parte e l'università, cioè il comune e i vicini di Serle, trattano l'argomento, finché, riuniti in Santa Maria di Serle - la chiesa monastica - il monaco Zanino e i deputati del Comune di Serle nominano don Giovanni, l'abate di Sant'Eufemia di Brescia, con altri monaci e laici come arbitri per definire i confini dell'allodio del monastero e di quello del Comune di Serle. Finalmente il 25 marzo del 1297, gli arbitri, eletti dal Monastero e dal comune di Serle, giungono a conclusione e definiscono i confini dell'allodio conteso. Delle controversie fra il Monastero e il comune di Serle si interessò nel 1306 anche il vescovo Berardo Maggi. Il 14 novembre, come riferisce Gabriele Archetti, veniva convocato nella piazza del comune di Serle la vicinia generale del comune, rappresentata da oltre un centinaio di capifamiglia indicati per nome, nella quale vennero eletti come sindaci e procuratori della comunità il notaio Graziolo de Marzeniga e Lombardino Segne per tutte le controversie, presenti e future, con il cenobio di San Pietro in Monte Orsino, che a sua volta aveva incaricato a rappresentarlo il monaco don Aimerico. Veniva, quindi, deciso di ricorrere all'arbitrato del vescovo Berardo al quale, nella causa in corso «occasione moncium et nemorum in terra e territorio de Serlis», veniva riconosciuta piena autorità di decidere. Il che fece stabilendo confini precisi fra beni del Monastero e quelli del comune con un atto di compromesso accettato dalle parti ma poi ancora contestato per cui nel 1307 dovettero intervenire anche i magistrati del Comune Cittadino che finirono con il condannare gli uomini e il comune di Serle. Curiose tuttavia sono le affermazioni di un testimone, Amedeo di Botticino e di altri testimoni di aver sentito due sgherri di Furone, Mesa e il Mantovano mentre bruciavano l'archivio gridare ai serlesi che erano liberi. Ma intanto altri eventi meno controllabili sovrastavano anche l'aprico comune potendo, come osserva Giovanni Vezzoli, l'altopiano di Serle e Serle servire di comodo passaggio e di utile rifugio alle truppe e masnade delle fazioni guerresche di quei secoli. Nel 1311 Serle è infatti un avamposto fortificato di Brescia, nella guerra all'imperatore Enrico VII. Nel 1373 nel castello di Serle trovano rifugio dopo la sconfitta loro inflitta a Gavardo dal capitano di ventura Giovanni Hakwood, inglese, (l'Acuto), le truppe viscontee, senza venire più oltre disturbate. Nel 1383 sempre sui monti di Serle, intorno al Castello ha luogo un duro scontro fra Giovanni Castiglione, condottiero delle truppe viscontee e Giovanni Ronzone o Rozzoni secondo qualcuno triumplino secondo altri di provenienza bergamasca e secondo altri ancora discendente di una famiglia feudataria del monastero, messosi a capo di circa duemila guelfi e valligiani dei quali un centinaio caddero intorno a Serle. Il Castiglione si mise a devastare e incendiare vari luoghi a Serle. Andò poi a trincerarsi sopra Nozza da dove lo stanò il Ronzone. Nel 1391 aggirati dall'esercito veneto condotto dall'Acuto e colti in una imboscata i resti dell'esercito visconteo, usciti dalla strage che ne seguì, si rifugiarono nella zona di Serle. Nell'estate del 1397 sull'altopiano di Serle finirono in fuga i Viscontei, che furono sconfitti dall'inglese che li trasse in un'imboscata, quando tentarono di aggirarlo con il guado al ponte di Nove del Chiese. Certamente, questi finirono al convento di San Pietro, né furono ospiti tranquilli. Come suggerisce il Vezzoli "forse erano annidati quassù nel 1401 i Guelfi della Valle Sabbia, quando trattavano con la città di Firenze - timorosa che la Signoria Viscontea la sopraffacesse - perché Roberto di Germania venisse a Brescia e la liberasse dal Visconti. E forse, Roberto, sceso in Italia per il Sarca e la valle del Chiese, passò su questo altipiano per calare in Valle Trompia, dov'era atteso dalle forze del Lodrone e di Francesco da Carrara. Lo guidavano i Guelfi valsabbini. Dopo la vittoria di Gian Galeazzo Visconti il 24 ottobre 1401 sotto le mura di Brescia, parecchi guelfi si ritirarono presso il monastero di S. Pietro al Monte e raccolti e riorganizzati da Giovanni Rozzoni, che il Cocchetti chiama "il Garibaldi di quei tempi", che resistette sostenuto da truppe valsabbine per due anni a Giovanni Linelli di Castiglione, mandatagli contro dal duca di Milano e ciò fino a quando, morto nel settembre il Visconti, il Rozzoni discese dalla montagna con i suoi per liberare Brescia dai viscontei salvo ritornare poi, fallita l'impresa, probabilmente al monastero di Serle fino al 5 novembre 1403, quando venne definitivamente sloggiato. Nel 1439, mentre Brescia, che si è liberata sul finire dell'anno del feroce assedio di Niccolò Piccinino e si dibatte nelle ristrettezze della fame e della peste, il castello di Serle viene occupato dalle truppe viscontee durante un'incursione di Taliano del Friuli che, con terrore dei cittadini, ha mandato le sue avanguardie sino a S. Eufemia. Taliano si ritira poi per correre su Maderno e Serle e viene dato alle fiamme «i cui bagliori gettarono i cittadini nella costernazione». Pochi altri avvenimenti si conoscono della vita del paese negli anni che seguirono. Anche Serle dovette fornire truppe alla Repubblica veneta fra le quali si notano nella battaglia di Lepanto (1571) quattro suoi cittadini e cioè Giovanni Antonio Bodei, Simone Raineri, Bernardino Franzoni e Giovanni Guatti o Guatta.


Mentre continueranno fino al '700 le questioni fra il Comune e i nuovi proprietari dei beni del Monastero, il Comune si andava sempre più organizzando con statuti che non conosciamo e nel 1571 con ordinanze per l'amministrazione della Comunità emanate dal capitano Daniele Foscarino. Con il tramonto del Monastero Serle aveva acquistato una sua fiera indipendenza a volte avvalorata da un quasi invincibile isolamento. Difatti quando il Da Lezze compilò nel 1610 il suo Catastico era in grado di sottolineare che «nemmeno un palmo di terra apparteneva a nobili bresciani: tutto era posseduto o dal Comune o dai suoi 1800 abitanti, fra i quali primeggiavano per possessi i Ragnoni (Ragnoli), i Budeni (Bodei), i Ronchi, i Chiodi, i Raineri e i Manferdini. Il Comune era retto da 12 consiglieri con un massaro ed un nodaro eletti a Bossoli et Balotte. Aveva un reddito di circa mille lire che ritraeva dai boschi e da un molino sulla seriola Abate cavata dal fiume Navilio».


Pur continuando "questioni", tra il comune e i nuovi proprietari dei beni nel Monastero, circa l'uso delle acque della Seriola o del Mulino a Nuvolento con le madri Agostiniane di santa Maria degli Angeli, o di confini e di siepi in Cariadeghe con i Canonici di San Giovanni Evangelista di Brescia, pesavano ora di più delle guerre le epidemie fra le quali terribili quelle del 1577, detta di S. Carlo, e del 1630. La peste di quest'ultimo anno decimò la popolazione tanto da ridurre i suoi abitanti da 1800 quanti erano nel 1610 a 600 nel 1648. Nel frattempo nasceva il Monte delle biade; nascevano alcuni legati fra i quali notevole quello del mercante bresciano Girolamo Tonolini del 1648. Si può ritenere che dato l'isolamento e la difficoltà di accesso, Serle sia stato per lo più risparmiato se non spesso almeno alcune volte da frequentazioni di truppe e anche da pestilenze. Forse queste condizioni favorirono lo sviluppo urbanistico. Il Vezzoli segnala esempi di case che tra la fine del secolo XV e il corso del XVI furono o costruite o rifatte: presentano infatti, anche nel carattere per lo più rustico, forme e strutture che si possono far risalire a questo tempo. Fu ricostruita la chiesa di Santa Maria: infatti nella visita pastorale del 1566 si dice che è «costruita di nuovo», com'è evidente dalle forme architettoniche.


Alle crisi economiche del sec. XVIII cercarono di sopperire, come già scritto, il Monte di pietà e alcuni legati fra i quali quello disposto con testamento del 6 febbraio 1648 dal "magnifico" Girolamo Tonolini il quale, oltre a legati per messe ed altro, lasciava alla Municipalità di Serle terreni con la condizione che il Venerdì Santo venissero distribuiti ad ogni abitante un pane e una candela. Tradizione che si ripete ancora ogni anno. Di guerra si parla solo di quelle lontane d'Oriente salvo che nell'ottobre 1704 quando l'armata imperiale di Eugenio di Savoia pone il campo a Villanuova e a Prevalle, e nel dicembre quando si colloca fra Caino e Nave. Anche Serle subisce danni seri, tanto da spingere il parroco a scusarsi nel 1711 di non aver potuto mettere mano all'ampliamento della chiesa parrocchiale a causa delle «armate straniere». Scomparsa la peste ecco giungere altre improvvise malattie di uomini e di animali. Endemico il flagello della siccità seguita da relative funzioni sacre, processioni e voti pubblici.


Ma erano momenti di crisi di non lunga durata, giacché il comune e la popolazione erano in grado di far fronte anche alle non rare carestie e ai rovesci climatici. Del resto il comune non imponeva tasse anzi pagava a Venezia anche quelle dei Serlesi. Gran cura poneva la Comunità di Serle per mantenere in buone condizioni strade, che dovevano essere «resolade», cioè selciate. I fiduciari delle contrade badavano perché i contradaioli a loro spese facessero in ciò il loro dovere, specie dopo l'inverno o dopo temporali violenti. Nonostante la crisi generale che percorse tutto il secolo XVIII Serle inaugurava nel 1748 la nuova chiesa parrocchiale che venne arricchita nei decenni seguenti di magnifici altari. C'era bisogno però di maggior ordine e nel 1765, in data 10 marzo, il capitano e il vice podestà Pietro Vettor Pisani emanava per Serle precise regole. Non si hanno notizie di una partecipazione dei Serlesi alle vicende della Rivoluzione bresciana del 1797 e dell'epoca napoleonica se non per quelle che riguardano il brigantaggio che andò accentuandosi in seguito alle coscrizioni obbligatorie napoleoniche, ad opera specialmente di disertori e di renitenti alla leva e che infestarono la Valsabbia e Serle. Nel 1809 quattro di questi banditi, due dei quali di Provaglio, uno di Teglie e l'ultimo del vicino Goglione, oggi Prevalle, salirono a Serle dove scontratisi coi militi francesi fecero fuoco sopra di essi, uccidendone due; ma furono ben presto catturati, uno morì per ferite e gli altri tre furono ghigliottinati sul piazzale della parrocchia. Anche sotto il governo austriaco Serle rimase rifugio di briganti i quali nel 1839 dopo aver aggredito un convoglio austriaco respinsero a fucilate i gendarmi. Negli stessi anni venne edificato il municipio. Le linee neoclassiche lo avvicinano molto al Municipio di Rezzato, opera di R. Vantini.


L'avversione all'Austria prese piede anche tra la popolazione e trovò animatori di indipendenza e di ribellione al dominio straniero nel curato don Pietro Boifava, nel parroco Don Pietro Baronio, nel medico dott. Pietro Marinoni, nel farmacista Antonio Rossi che aveva casa a Serle, nei suoi figli Ovidio e Pilade e in altri ancora. Ma fu soprattutto don Boifava a riunire intorno a sé un forte e nutrito gruppo di serlesi pronti a tutto e un crescente numero di disertori dell'esercito austriaco che a Serle avevano trovato un sicuro rifugio. Scoppiata il 18 marzo 1848 la Rivoluzione, don Boifava, assieme all'altro curato don Giovanni Ligarotti, troppo dimenticato dalla storiografia ufficiale, organizzò la Guardia Nazionale ed un corpo di fieri montanari che da lui guidati la notte del 22 marzo scesero a Rezzato e riuscirono a catturare una colonna di 200 croati compresi sette ufficiali e vari carriaggi di munizioni. Il giorno dopo il contingente guidato da don Boifava catturava tra Desenzano e Padenghe una colonna di austriaci in ritirata da Cremona. Dopo aver raccolto nuovi volontari a Salò, Gargnano e Desenzano e molti altri a Serle ed averli incorporati nei Corpi Franchi, il contingente serlese, perlustrò i territori di Bagolino, Idro, Storo, Tione combattendo il 13 aprile animosamente a Castel Toblino. Da parte sua il parroco don Baronio, appena cacciati gli austriaci si era affrettato, "l'anima infiammata per l'Italia" di inviare al Governo Provvisorio un Memoriale nel quale proponeva innanzitutto di unire il Veneto alla Lombardia, collocandone la capitale a Castiglione delle Stiviere, equidistante da Venezia e da Milano e "onusta di glorie gonzaghesche" lasciando però che tutto si decidesse a Roma, "sotto gli auspici del gran Pio". Inoltre esponeva un piano di coscrizione militare nel quale avrebbe voluto compresi tutti i cittadini dei 12 ai 60 anni. L'8 maggio don Baronio benediva la bandiera nazionale, con una cerimonia solenne e affollata, registi i curati don Boifava a don Giovanni Ligarotti dei quali, in qualità di capi della Guardia Nazionale, in una relazione al Governo Provvisorio lo stesso don Boifava scriveva: "il Rev. Don Pietro Boifava, già conosciuto nelle sue spedizioni del marzo e aprile scorsi, per suo valore e il rev. Giovanni Ligarotti, ambi veri patrioti e che oltre ad essere ottimi sacerdoti diedero anche prova di esperti capitani". Tornato a Brescia con i suoi uomini e messili al sicuro, il Boifava rifugiatosi dapprima ad Avano di Pezzaze presso don G.B. Maffini, raggiunse la Svizzera. Ritornato poi qualche tempo dopo si adoperò a raccogliere a Serle e nei dintorni i suoi uomini. In collaborazione con il Comitato di orientamento monarchico-sabaudo, guidato dal dottor Bartolomeo Gualla che lo stimava "mille miglia al di sopra del teatrale Garibaldi", don Boifava dedicò tutte le sue energie a raccogliere e addestrare a Serle forze per future insurrezioni e battaglie. Già nel dicembre 1848 il dott. Gualla era in grado di informare il suo corrispondente a Torino, l'avv. Cazzago, che don Boifava stava facendo una buona raccolta di "sacchi" cioè di giovani del "buon paese" di Serle da arruolare. Nella lettera poi del 10 gennaio del 1849 il Gualla informava ancora il Cazzago che Serle era un nido di 38 disertori di un reggimento austriaco, l'Haugwitz, da parecchio tempo ivi rintanati. Indicati alla gendarmeria "da una spia questa venne bastonata a morte; un gendarme ucciso, gli altri messi in fuga". Ad essi il Gualla provvide i mezzi per farli scortare fino a Lugano, prima che arrivassero forze imponenti. È tanto prezioso don Boifava alla causa che lo stesso Gualla si reca a Serle per accordi stretti. Il 1° marzo stesso Gualla poi scriveva: «A Serle ho un bello e bravo corpetto (Evviva Boifava curato) vi è alla testa il prete medesimo, va aumentando tutti i giorni». Aumentando anche i disertori dell'esercito austriaco era ancora don Boifava ad organizzarli in una vasta zona da Serle a Tignale sistemandone molti a Serle. Rifornitosi di polvere e capsule nella fabbrica di Antonio Franzini di Gardone V.T. dopo aver svaligiato due convogli militari si accampava sui Ronchi a S. Fiorano, ai Medaglioni e al S. Gottardo. Il 23 marzo gli veniva affidato assieme ad altri prigionieri il capitano austriaco Pomo. Il 26 marzo scendeva a S. Eufemia per respingere gli austriaci, ritirarsi sulle alture, per accamparsi alla Bornata e poi sotto la Maddalena e difendere il suo quartiere al S. Gottardo. Anche contro il soverchiante numero di truppe austriache, le forze di don Boifava riuscirono, prima di ritirarsi per Costalunga e Mompiano verso Collebeato, a disperdere una colonna di tirolesi. Ormai convinto che la partita era perduta dalle colline di Urago d'Oglio dovette assistere alla fine della resistenza. Distribuiti tre giorni di paga don Boifava licenziava il contingente dei serlesi e si rifugiava per tre mesi in Svizzera. Sospetti e perquisizioni si susseguirono negli anni che seguirono, specie nei riguardi di don Baronio e don Boifava. Spietato è il giudizio che la polizia austriaca dava in una relazione all'Imperial Regio Delegato in data 17 maggio 1849 sulla situazione di Serle trasmettendo un: "Elenco degli abitanti di Serle di pessima condotta che oltre ad essere concorsi sui Ronchi diretti dal noto curato Pietro Boifava durante la sollevazione recente di Brescia, sono sospetti di essere dediti alle aggressioni che di tratto in tratto succedono sulle strade di Nave, Caino e di Gavardo, mantenendosi nell'ozio e nella crapula e cooperando impunemente perché non si presentino i disertori di quel comune né i coscritti chiamati a supplirli nella leva attuale. Inoltre tentano di tratto in tratto delle invasioni nelle case di Serle e da quei facoltosi con lettere minatorie procurano di estorquere danaro. Insomma è una feccia scioperata che munita d'armi non fa che compromettere la sicurezza pubblica e privata. Energiche misure per tentarne l'arresto il paese lo reclama, 3 drappelli numerosi per sorprendere il paese di nottetempo nelle direzioni di Nave, Botticino Mattina e Nuvolento". Naturalmente, come commenta G. Vezzoli, la prima parte riguardante l'aiuto e l'incitamento ai renitenti alla leva è la ragione vera delle accuse di grassazioni e estorsioni, contenute nella seconda parte.


La situazione a Serle rimase tesa e pesante per anni. Nel febbraio 1851 venivano fucilati un nipote del prete, Pietro Boifava, e un certo Sotero Bresciani, trovatello dell'ospedale abitante a Ronco. Il 15 luglio 1851 dopo essere già stata carcerata a S. Urbano di Brescia veniva licenziata dal Comune la levatrice Maria Regali della Pedrocca accusata di tenere rapporti con disertori e briganti. In data 29 gennaio 1859 veniva segnalato dalla polizia, come pericoloso, un Boifava Giovanni, di Serle, studente a Padova, con altri due studenti bresciani, Bedussi Leopoldo di Cellatica e Mingotti Angelo di Gussago. Non si accenna più, invece, ad una attività politica o insurrezionale di don Boifava. È facile che dopo la sconfitta subita e il passaggio di mano delle questioni politiche alle grandi e piccole potenze europee egli si sia sempre più rinchiuso, come Serle del resto, in un isolamento di sdegnosa indipendenza di idee e di azione. Si capirebbe con ciò il giudizio di Carlo Cocchetti che scrive di Serle come di una piccola San Marino e quello della Guida Alpina del 1870 nella quale si legge: "Serle. Questo piccolo alpestre villaggio, posto al sommo di un erto monte, domina dal l'alto le sottoposte terre. I suoi abitanti esercitano la pastorizia e l'agricoltura; fieri e terribili alpigiani, pieni di cuore e d'ardire, non amano che alcuno s'immischi dei fatti loro ed in un certo modo godono di una specie di indipendenza ad essi assicurata dalla stessa natura del luogo e dall'indole e costumi della popolazione. Sui monti di Serle si mantennero per più mesi sicuri e pronti al combattere i disertori dei reggimenti italiani in servizio dell'Austria, negli anni 1848-49. E non solo a tempi nostri, ma anche nei secoli scorsi fu lassù vivo e prepotente l'amore della patria e dell'indipendenza; il resistere è natura in quel popolo". Alla Liberazione della Lombardia, don Boifava diventava sindaco di Serle (1860-1862) e vi tornò (1865-1870) ricoprendo la carica di Consigliere. Dei periodi di tali cariche non sono rimaste carte e ma solo firme burocratiche. Uno dei suoi più espliciti pronunciamenti fu la firma all'appello di p. Passaglia perché il Papa rinunciasse al potere temporale. Per il resto sembrò come sindaco, ma anche assieme alla popolazione, prendere le distanze dalla dominante politica del momento. Infatti in data 24 maggio 1866 il Consiglio Comunale di Serle, accampando "strettezze economiche in cui versa lo stato economico" rifiuta di aderire (otto voti contro due) a farsi socio dell'Associazione italiana di soccorso per i feriti e malati militari in tempo di guerra promuovendo soltanto la costituzione di un comitato femminile che provveda alla biancheria. Nella stessa seduta viene bocciata la concessione di un sussidio ai combattenti che si avessero a distinguersi "nelle prossime battaglie per l'unità della patria". L'8 novembre 1869, la Giunta con dieci voti contro due, respinge la proposta di contribuire al monumento ad Arnaldo da Brescia. Per il resto, come sottolinea il Vezzoli, l'amministrazione manifesta particolare diligenza: sono rinnovati contratti e aste per pascoli e boschi; e migliorati; vi si nota una cura assidua per le strade, sia per quelle che uniscono tra loro e con il centro le frazioni, sia per quelle che scendono al piano. Cura particolare si nota anche per il personale e per l'istruzione; l'amministrazione si dà da fare per tenere in ordine gli edifici, di trovarne per le scuole nelle frazioni più disagiate. Anche degli arredi si occupa questa amministrazione, per non dire poi dell'attenzione nel retribuire adeguatamente gli insegnanti, a seguirne i programmi, anche con la scelta di persone adeguate come ispettori delle scuole. Vi sono poi cose di ordinaria amministrazione nella quale non mancano novità, come nel 1881 la fondazione, su iniziativa del sindaco Ovidio Rossi, della banda musicale. L'assenza della maggioranza della popolazione finì con l'affidare la vita politica ed amministrativa ad una minoranza liberale e radicale di sinistra di cui fu esponente l'ing. Ovidio Rossi che aveva combattuto giovanetto con don Boifava. Essa si appropria anche della figura di don Boifava. Infatti del tutto laica fu la cerimonia dell'8 ottobre 1882 quando con un discorso dell'ex duumviro mazziniano e massone Carlo Cassola, venne inaugurata sotto il portico del Municipio una lapide con l'iscrizione: «PIETRO BOIFAVA Sacerdote Soldato negli anni MDCCCXLVIII - MDCCCXLIX con un manipolo di forti contese alle falangi austriache il suolo della patria. I reduci delle Patria Battaglie e Veterani di Brescia questo ricordo posero. 8 ottobre 1882». Ancora nel novembre 1899 nelle elezioni politiche su 70 votanti, 33 voti andarono al liberale di sinistra Ugo da Como e solo 3 al liberale moderato Papa. Tentativi di risveglio sociale andarono fallendo, come abortì il tentativo del parroco don Loda di promuovere una Società Cattolica di Mutuo Soccorso. Figura del laicismo liberale fu quella di Bernardo Zanetti (Serle 1855-1920), nipote per madre di don Boifava, maestro, agricoltore a Ronco, liberale democratico che per protesta contro la proibizione ai cattolici di partecipare alla vita pubblica un anno prima di morire fece incidere su una lapide: "Zanetti Bernardo - Maestro - lavoratore - liberale - anticlericale - stimato dai giusti - amato dagli onesti". 


La I guerra mondiale costò la vita a numerosi serlesi. Il dopoguerra vede delinearsi i classici schieramenti politico sindacali del tempo. Fra i contadini prevalse la lega rossa affiliata alla Camera del Lavoro, mentre si era costituita una sezione muratori aderente alla Federazione Edilizia Provinciale di indirizzo cattolico. Solamente nel 1923-1924, anche se si ricordava una carrareccia del 1908 promossa dal cav. Arnaldo Mazzoleni, veniva realizzata una vera anche se approssimativa strada Nuvolento-Serle. Il fascismo non si distinse per particolare violenza e si adattò presto alla quieta vita della popolazione senza momenti particolarmente critici. La quiete di Serle facilitò le prime presenze turistiche specialmente familiari in locande e nei primi alberghi. Il nome di Serle poi compariva sempre più nelle cronache per l'esplorazione naturalistica e particolarmente delle grotte.


Il peso della II guerra mondiale, che costò ancora vittime, si fece sentire direttamente dopo l'8 settembre 1943 quando l'altipiano serlese divenne rifugio di prigionieri di guerra alleati fuggiti dai campi di concentramento, di sbandati e di renitenti alla leva della R.S.I. e che trovavano aiuto nella popolazione. Con capisaldi in Cariadeghe e a Tesio presso la Villa Allocchio si formarono gruppi di partigiani ai quali diedero un valido sostegno il curato don Guerrino Franzoni, e, a Tesio, Stefano Allocchio, Piero Tonni e la moglie. Il gruppo di Serle si andò rafforzando nell'estate 1944. Momenti assai tesi si ebbero quando cinque paracadutisti inglesi vennero nascosti dal curato don Guerrino Franzoni dietro l'organo della chiesa, un tedesco cadde in uno scontro a fuoco, 48 tedeschi, quasi tutti ufficiali vennero catturati e disarmanti da 15 uomini armati. Nell'autunno 1944 prese forma un gruppo di partigiani, sostenuti dal curato don Guerrino Franzoni. Vi venne nascosta anche una radio ricetrasmittente. Audace il colpo di mano di un gruppo di serlesi nel 1944, per riprendersi la campana maggiore detta "S. Pietro" che era stata tolta dalla torre per fonderla in cannoni. Saputo che era stata portata all'aeroporto di Ghedi alcuni serlesi raggiunsero nottetempo la base aerea, ne ubriacarono le sentinelle, caricarono il loro cimelio su un carro trainato dai buoi che colmarono di fieno; poi si avvicinarono verso Serle e sotterrarono sotto il foraggio la campana che ricomparve nel campanile per salutare la Liberazione. I primi mesi del 1945 il gruppo partigiano delle Fiamme Verdi si andò organizzando sempre più mentre in Cariadeghe venne lanciato, con una ricetrasmittente, un operatore che si rivelò poi per un sacerdote capace di preparare futuri lanci di armi e materiale.


La prima amministrazione democratica dovete affrontare i più disparati e difficili problemi da quelli stradali a quelli dell'approvvigionamento idrico, a quello edilizio. Con coraggio fu avviata la costruzione della strada Castello di Serle-Botticino; completata e migliorata la strada Villa-Colme, istituito un servizio trisettimanale Serle - Brescia. Vennero inoltre sistemati il cimitero, riordinati gli edifici scolastici. Soprattutto venne affrontato il problema idrico, di capitale importanza. Agli inizi degli anni '50 del secolo XX venne scavato sotto il monte Olivo un tunnel di m. 1830 a 700 m. s.l.m. tra Serle e Vallio per raggiungere una sorgente che si trova sul versante N nel comune di Vallio dove venne realizzato l'acquedotto di Serle che durò fino ai 1967 e che nel 1992 si progettò di ristrutturare per trasformarlo in un parco naturale sotterraneo. Verso la fine degli anni '50 venne avviata la asfaltatura della strada Nuvolera - Serle e vennero costruiti due edifici scolastici uno in Serle e l'altro per le frazioni Ronco e Villa. Nel 1956 veniva completata dopo anni la strada Castello San Gallo-Botticino. Risultato assolutamente inadeguato l'acquedotto precedente, negli anni 1967-1968 veniva realizzato un nuovo acquedotto portando l'acqua potabile dal pozzo Nebbia di Nuvolera (m. 171 s.l.m.) al paese con salto di 500 m. con 40 km. di tubature e 40 pompe per le diverse diramazioni. Negli stessi anni veniva costruita in località Canae longhe - Cornel in Cariadeghe una base militare dell'Esercito Italiano. Nel 1967-68 gli alpini incominciarono la costruzione della strada per S. Bartolomeo inaugurata l'8 settembre 1968 poi sistemata nel 1973 dagli operai della ditta IBA sotto la guida del geom. Giancarlo Zanola e nel 1984 dedicata all'alpino Giuseppe Vignola. Anche i fondi della sezione locale si prestarono alla difesa e alla valorizzazione dei boschi. Nel 1971 venivano avviati i lavori di restauro del complesso di S. Bartolomeo e nel 1972 si provvide alla messa in opera di un bosco in località Belfiore e sulle pendici del monte Orsino. Nello stesso anno veniva avviata la costruzione di un ampio rifugio. Notevoli sforzi vennero compiuti dagli anni '70 del secolo XX per far conoscere le ricchezze naturali del territorio con opuscoli specialmente sull'altopiano di Cariadeghe e dal 1974 con la "rampegada ecologica". Passi avanti ha fatto anche il turismo sia estivo sia quello domenicale, anche se i celebri spiedi sono andati in parte scomparendo. Viabilità, acquedotto esteso negli anni '70 alle frazioni, la cura dei cimiteri di Serle e di Castello tennero impegnate le amministrazioni comunali, avvantaggiatesi nel 1974 della vendita della legna dei boschi. Sempre negli anni '70 venivano costruite le scuole medie. Nel 1983 veniva avviato un campo sportivo a Villa. Nel 1987 veniva istituita fra molte polemiche e resistenze una Riserva naturale dell'altopiano di Cariadeghe comprendente una zona di quasi 500 ettari delimitata a N dalla valle di Caino e dal torrente Vrenda, ad O dalla Valle Salena e dalla Conca di Botticino, e a S e SE dalla pianura pedemontana a quote intermedie di 600-1700 m. s.l.m. Nel 1993 la riserva diventava monumento naturale confermata nel 1996 in ambito europeo. Nel settembre 1989 veniva completata la rete di distribuzione del metano e il 14 ottobre seguente veniva approvato il Piano regolatore generale. Nel 1989 veniva finanziato il riordino dell'archivio comunale. Nel 1992 veniva aperta la fonte Luana e veniva deciso l'acquisto della casa di don Boifava. Nel 1994 veniva lanciato il progetto formativo «conoscere per aiutare» e veniva iniziata la creazione di alloggi per extracomunitari e avviata la progettazione della palestra. Parcheggi hanno reso negli ultimi anni più praticabili le frazioni e l'altopiano di Cariadeghe, mentre nel 1995 venne sistemata l'area del laghetto Ruchi, popolato da una colonia di anfibi e sempre pieno d'acqua. Nell'agosto 1995 veniva inaugurata illuminazione nel villaggio Rie. Nel 1996 per allargare la strada venne sacrificato il vecchio Mulino. Dal 1995 partivano i restauri della casa di Don Boifava, la definitiva realizzazione della nuova palestra e in località Castagneto venne predisposta un'area di 15 mila mq. per le attività artigianali specie nel settore tessile. Nel 1995 veniva aperto un ambulatorio per analisi e prelievi. Dal 1996 veniva avviato lo studio per lo sviluppo di un piano urbanistico a revisione del Piano regolatore del 1989, mentre veniva approntato il progetto esecutivo della nuova strada Nuvolento-Serle ed approvato un nuovo statuto per la gestione della Riserva di Cariadeghe. Contemporaneamente veniva avviato un progetto di case popolari, venivano accorpate le scuole elementari di Castello e del Centro alle scuole elementari di Ronco, veniva ristrutturato il Cimitero. Per il funzionamento dell'acquedotto nel gennaio 1996 veniva siglato un accordo con l'ASM di Brescia. Nel 1997 venivano avviati i lavori di riassestamento delle strade Botticino-Serle mentre l'ex albergo Stella Alpina veniva destinato a Centro diurno e sportivo. Il 26 settembre 1998 s'inaugurava la nuova palestra Comunale e si realizzava la sistemazione della scalinata della chiesa. Venivano avviati nuovi restauri a S. Bartolomeo; nel maggio veniva presentato il I volume delle Carte del Monastero, operazione curata per iniziativa della Fondazione Civiltà Bresciana, del Comune di Serle e di altri comuni, Provincia e Comunità di Valsabbia, dell'Università di Pavia, realizzato poi nel 2000. Il 18 marzo 2000 veniva dato il via alla Pro-Loco.


Negli ultimi decenni prendevano sempre più piede associazioni combattentistiche, culturali e di indole sociale e sportiva. La sezione degli Alpini si rendeva benemerita per le opere intorno al monte Orsino. Paolo Sorsoli dava vita da parte sua ad una filodrammatica. Nel maggio 1979 la sezione Fanti erigeva il sacello ricordo dei caduti di tutte le guerre; mentre poco dopo veniva inaugurato presso il recinto del Cimitero un cippo ai caduti del lavoro e a particolare ricordo dei morti per silicosi di cui Serle, dopo la Valcamonica, registra un triste primato. L'8 maggio 1994 veniva organizzato dalla sezione A.N.P. (Associazione Nazionale Paracadutisti) il primo raduno nazionale paracadutisti e inaugurata davanti alla Casa del Fante, un'ara di medolo, un monumento a forma di ara romana per ricordare i morti a Meloria del 1971 e in Somalia (1993). Il I maggio 1996 veniva inaugurata in frazione Castello il monumento ai morti in cava, opera dello scultore del luogo Paolo Festa.


Singolare nel 1979 la creazione del Nido degli Scapoli, realizzato a Salvandine. Attivo negli anni '80 il Gruppo folkloristico "El Zuff', che ha organizzato per cinque anni la Festa dell'ospite, della durata di una settimana, la "Festa de premaera", in costume locale, e, con la parrocchia, il presepio vivente, la Via Crucis vivente ed il Carnevale. Attivo anche il "Gruppo dei baldi" amanti della natura e della montagna. Attivi sul piano sportivo il Velo club, il Motoclub sorto nel 1984 con pista per motocross a Cocca e nel 1996 sede del campionato italiano di minicross Trofeo Marinoni. Tra le manifestazioni più riuscite è il Palio delle contrade organizzato dalla polisportiva locale, di concerto con l'oratorio, nel periodo tra i mesi di giugno e luglio. Riunisce, in un ambiente sereno e festoso, gli abitanti delle diciassette frazioni sparse sul vasto territorio serlese; riscopre certi "giochi" o sport tradizionali che fanno parte di un folclore locale troppo a lungo trascurato e, infine, è richiamo per i forestieri. Questa significativa manifestazione ha inizio la settimana precedente la festa di S. Pietro e ha visto primeggiare negli anni scorsi le contrade di Castello, di Villa, di Salvandine e di Magrena. L'appuntamento era presso lo spiazzo antistante Villa Brivio, oggi presso l'oratorio S.D.Savio, per vedere i concorrenti delle varie frazioni cimentarsi in "gare sportive", che oltre alle classiche prevedono quelle tradizionali: la porca, i ciancoi, el circol, corsa coi trampoi, corsa col sercol, rampegada, la müra, la caalina. Dal 1998 l'Associazione Commercianti-Artigiani ha organizzato a fine giugno concerti di musica leggera; dal 2001 sono organizzati dalla Pro Loco. Nel 1999 veniva avviata la manifestazione Serlestate; riprendeva anche la Via Crucis vivente che ogni anno si sviluppa in frazioni diverse, con più di 250 figuranti, e che richiama numerosi fedeli e turisti. Nel 2001 viene inaugurato il Bocciodromo presso il Centro Sportivo di via Muradelli.




MONASTERO DI S. PIETRO IN MONTE. Paolo Guerrini ha pensato addirittura che il celebre monastero sia sorto sui resti di una primitiva fondazione Eusebiana dei sec. V-VI, in contatto con la città attraverso la porticula S. Eusebii della quale si vedono ancora i resti a E del Castello di Brescia. Diversi autori sono proclivi a far risalire le origini del monastero a fondazione longobarda (sec. VIII). Decaduto poi nel sec. X sarebbe risorto sul principio dell'XI. Il Malvezzi afferma apoditticamente l'origine longobarda del Monastero, fondato da Desiderio assieme all'altro monastero di S. Pietro in Monte di Civate. A questa asserzione aderirono sia pure con alcuni dubbi Paolo Guerrini, basandosi su una errata lettura di un documento pubblicato dall'Odorici e del Codex Diplomaticus Longobardiae che scambiarono "abet" con "abate" e anche dalla contiguità dei beni del monastero a quelli di S. Giulia e di Leno. A tale affermazione aderì anche G. Panazza non fuorviato da documenti letti male. Sia Francesco Fiorentini sia Giov. Ludovico Luchi fissarono la data al sec. XI costringendo il Guerrini ad ammettere una ricostruzione del monastero da parte del vescovo Olderico I (1031-1053). Una lettura critica fatta da Ettore Cau ed Ezio Barbieri dei documenti conservati nell'Archivio Segreto Vaticano ed editi nel 2000 dalla Fondazione Civiltà Bresciana nel volume "Le Carte del monastero di S. Pietro in Monte di Serle (Brescia) 1039-1200" hanno avallato le affermazioni del Fiorentini del Luchi ed appurato come sottolinea Aldo A. Settia come le prime donazioni pervenute, dall'aprile del 1039 al marzo 1040, si limitino a parlare dell'ecclesia di S. Pietro "costituita nel luogo detto Monte" accennando ai "preti e chierici" che "ora e in seguito potranno essere ivi ordinati". Sin dal febbraio del 1041, tuttavia, pur continuando a usare i vocaboli basilica o ecclesia, si prospetta la possibilità che vi sia eletto un abate cui sottoporre dei monaci anche se Pietro continuerà a essere indicato costantemente come "chiesa" sino al giugno di quell'anno. "L'inclinazione a favore di una istituzione monastica, scrive il Settia, dovette delinearsi in modo più deciso proprio nello stesso mese allorché le donazioni cominciano a essere indirizzate, salvo qualche eccezione, non più alla "chiesa", ma al "monastero" di S. Pietro in Monte. La decisione di fondare un monastero risulta ormai maturata nel gennaio del 1042 quando si impone definitivamente la denominazione di monasterium". "Sembrerebbe dunque, in conclusione, aggiunge il Settia, che i fondatori di S. Pietro in Monte (dietro ai quali si intravede la costante presenza del vescovo di Brescia Olderico) siano partiti con l'intenzione di fondare una chiesa officiata da un clero plurimo vivente presso di essa a vita comune, cioè propriamente una canonica regolare riformata, cui ben si attaglia l'uso di termini come ecclesia e officiales; l'iniziativa, pur consona ai fermenti innovatori che già da tempo correvano in Italia, dovette tuttavia apparire prematura inducendo a ripiegare, come alternativa, su una comunità monastica delle più tradizionali. La voga delle canoniche regolari riformate prenderà piede a Brescia, come del resto nell'Italia settentrionale, soltanto negli ultimi decenni del sec. XI, ma rimane non poco significativo che l'idea innovatrice fosse sorta nella mente del vescovo Olderico già oltre trent'anni prima". Nessuno nega nel monastero, a differenza di quelli di S. Giulia e di Leno, una fondazione vescovile come conferma il forte fitto in cera (5 libbre) e in denaro (5 libbre) che era obbligato ancora a pagare nei primi anni del secolo XIII al vescovo.


Nell'ottobre 1043 compare con Paterico il primo abate e insieme con lui, un monaco "de ordine eiusdem monasterii"; da allora in poi la natura dell'ente non sarà più posta in discussione benchè il titolo di "ecclesia" torni ancora una volta ad affacciarsi (occasionalmente e senza alcuna apparente giustificazione) a oltre un secolo di distanza, nel 1176 si ha inoltre notizia di un "canonica" di S. Pietro in Monte e un documento del 1193 risulta sottoscritto, fra altri, da un "Tebaldus Sancti Petri in Monte clericus". Il luogo è indicato nei documenti come "Mons S. Petri"; solo in pochi documenti compare il Monte Ausum, o Ursum toponimo che sembra utilizzato per indicare tutto l'altipiano delle Cariadeghe mentre solamente posteriore la denominazione di Monte Orsino. A volte si tratta addirittura di un solo olivo, a volte di pochi, o poche tavole di terra e veri latifondi, intere curtis o latifondi sparsi un po' dovunque, come a Volciano (1039), Nuvolento, Toscolano (1040,1041), Maderno (1041), Gargnano, Berzo, Darfo, Artogne, Esine, Borno, in Vallecamonica (1041), Botticino (1042), Mazzano (1043), Casaglia, Lograto, Mazzano (1056), Calino (1058), Gavardo, Arsana (1081), ecc. Come ha rilevato P. Guerini quelli che vanno almeno dal 1036 al 1058 sono "piuttosto restituzioni che donazioni, atti di libertà fittizia ma di rinuncia forzata a vastissimi latifondi o di male acquisto o usurpati in precedenza al monastero medesimo dalle famiglie e dagli antenati dei donatori, mentre i vescovi non fanno che permutare beni o unire al monastero chiese e cappelle rurali ben provvedute di prebende e di entrate". È da rilevarsi il fatto che le principali donazioni a Nuvolento, a Maderno, a Gargnano, sono in gran parte di ecclesiastici alle quali si aggiungono quelle di grandi latifondisti come Oprando q. Giovanni de loco Muzo che risiedeva a Nuvolento, dove s'incontrano anche più tardi i suoi discendenti sotto il cognome Prandi e Prandoni, feudatari anch'essi del monastero di Serle, potenti e talvolta anche prepotenti. Una delle più massicce donazioni viene da Arderico q. Alberto de foris civitatis Brixia, abitante all'Arco vecchio, forse parente del vescovo Olderico. Egli, nel 1036, pro mercede animae suae e per quelle di Olderico vescovo, e di Attone o Azzone, abate del monastero di S. Eufemia, dona al monastero case e fondi, vigne, castagneti e prati a Berzo, dentro e fuori il castello, e vastissimi pascoli montani nello stesso territorio di Berzo. Nel febbraio 1041 lo stesso Arderico "pro remissione delictorum suorum et domini Olderici episcopi sanctae brixianae ecclesiae et omnium fidelium" dona alla basilica di S. Pietro in Monte, 1) a Nuvolento una corte con le sue case masserizie e i fondi Cadalina, Molina, Parminiana, Pospesio, Marguzzo, Serle, Folina o Camolina, Zudicina, Lusignana, collocate di sopra e di sotto del fiume Rodone, con un molino, cioè 110 jugeri di campi, prati e vigne, 100 jugeri di pascoli, 900 jugeri di selve e boschi, confinanti a mattina con la pieve di Gavardo, col monte aursum (Arso od Orsino), a sera col Riofreddo, a monte coi territori di Caino e Vallio, fino alla croce sopra il monte di Nave; 2) a Bagnolo le due possessioni di Aguzzane e del Cornale; 3) a Maderno una casa con oliveti a Càmpora, a Sale e Crocicolle; 4) a Milzano un fondo di tavole 250 col castello ivi edificato". Seguono poi, con rapida successione, donazione di un prete Ambrogio di Ghedi beni in Mazzano, di un altro prete, Oprando di Giovanni.


Ma le donazioni più importanti sono quelle che provengono dai vescovi della diocesi di Brescia. Il vescovo Olderico, che già nel 1040 aveva compiuto una infeudazione livellaria di beni a Roina di Toscolano per la "ecclesia S. Petri" e forse aveva già dato al monastero altri censi di frumento, olio e formaggio nella pieve di Maderno, nell'ottobre del 1043 compiva coll'Abate Paterio una importantissima permuta di latifondi. Il vescovo cedeva al monastero la corte di Casaglio presso Torbole (142 jugeri), tutto quanto possedeva a Travagliato, Danaco (forse Navate) e Lograto (altro centinaio di jugeri), alcuni fondi a Mazzano, i fondi Berrana e Camolina e Serle, e dal monastero riceveva in contraccambio il castello di Casalmoro con la cappella costruita entro il castello, con le case e i fondi relativi, duecento jugeri di fondi ad Acquafredda, il castello di Carpenedolo, con cinquanta jugeri. Lo stesso vescovo Olderico otteneva al monastero del Monte Orsino il diploma imperiale di Enrico III, datato a Goslar il 18 maggio 1053, col quale l'imperatore sanzionava tutte le elargizioni del munifico vescovo bresciano a favore di quel monastero "quod vulgari lingua dicitur Mons S. Petri" e che egli aveva "constructum pro remedio animae suae nostraque salute". Nell'agosto dello stesso anno (1053) Papa Leone IX conferma a Olderico, vescovo di Brescia e protettore del monastero benedettino di S. Pietro in Monte Ursino, il patrimonio già in precedenza confermato da Enrico III imperatore, garantendo inoltre allo stesso cenobio i beni che comunque possedeva e che avrebbe potuto in futuro acquisire per concessione di pontefici, per largizione di re e principi e per le offerte che i fedeli "vorranno donare al fine di ottenere annualmente la remissione dei propri peccati nelle forme previste dalla constitutio dell'arcivescovado di Milano e degli altri vescovi suffraganei". Largo con il monastero fu il vescovo Adelmanno (che il 3 luglio 1058 donava la chiesa di S. Pietro in Calino e forse con altre), deciso ad appoggiarsi al monachesimo diocesano anziché alle abbazie indipendenti come S. Giulia e Leno, per realizzare la sua intensa opera di riforma. Un nuovo privilegio papale è del 31 agosto 1132 quando Innocenzo II conferma a Giovanni de Burnado, abate del monastero di S. Pietro in Monte Ursino, tutto il patrimonio accumulato in favore del monastero da Olderico vescovo di Brescia e già confermato da Enrico III. Altrettanto benefico fu il vescovo Raimondo che il 15 aprile 1157 cedette al monastero di Monte Orsino la vasta tenuta vescovile di Vallio, nella pieve di Gavardo, con la Rocca di Bernacco, costituendo in quella corte una assoluta signoria del monastero e ancora tutta la terra che aveva in Agnosine, confermando successivamente al monastero la giurisdizione sulla chiesa e sul clero di S. Michele a Drugolo, nella pieve di Bedizzole, la decima vescovile sui novali di tutto il territorio di Serle. Alla fine del sec. XII, il monastero possedeva beni a Serle, Nuvolera, Nuvolento, Goglione (Prevalle), Gavardo, Paitone, Mazzano, Virle, Calvagese, Bedizzole, Vallio, Toscolano, Maderno, Vobarno, Nave, Monticelli d'Oglio, Poncarale, Colere, Calino, Colombaro, Timoline. Notevole l'estensione di proprietà in tutto l'altipiano ondulato che fiancheggia le sponde del fiume Chiese da Gavardo a Calcinato, e poi fino a Pozzolengo. Ma il monastero aveva proprietà anche a Vicenza. Di rilievo la donazione della Rocca di Bernacco e dei beni sopra il lago d'Idro cioè, tutto il cosiddetto Pian d'Oneda, nel comune di Bagolino e nella pieve trentina di Condino, la chiesa e l'ospizio di S. Giacomo de Casellis nello stesso Pian d'Oneda, ed è molto probabile che anche le due chiese della pieve d'Idro e di Anfo, sullo stesso lago d'Idro, ambedue dedicate a S. Pietro, siano state erette dal monastero su propri beni allodiali.


Pochissimi sono i dati che i documenti offrono circa la vita interna, religiosa culturale del monastero. Doveva esserci un "martirologio", come era a santa Giulia, se nel 1143 nella casa di san Nicola di Nuvolento, Widone, figlio del fu Oddone Gandolfi di Brescia, investe l'abate Benedetto del monastero di san Pietro al Monte di decime a Nuvolento per rimedio dell'anima sua e dei suoi genitori e figli, infatti alla loro morte - quando dies amisissent, quando avessero finito i giorni cioè il tempo della vita - i nomi dei suoi devono essere iscritti nel martirologio di san Pietro e devono essere ricordati nelle sacre, preghiere. Il termine usato è "marteloio" che il Guerini - come è evidente interpreta martirologio, cioè il libro in cui vanno segnati i nomi dei defunti -benefattori specialmente - per i quali la comunità è tenuta a pregare. E dovevano esservi tra gli arredi lampade d'argento, almeno nel numero di sette, quante è detto che i monaci volevano provvedere con le elemosine raccolte mediante indulgenze concesse dal vescovo di Trento, Federico Wanga, tra il 1207 e il 1218, anche nel territorio trentino, come ne fa fede la bolla indulgenziale di quel vescovo. Quanto all'edificio, come rileva il Settia "I documenti in nostro possesso poco riescono a dirci sulla consistenza e struttura degli edifici monastici. Un teste nel 1189 allude bensì al tempo in cui "fuit monasterium hedificatum", ma si tratta di un riferimento generico che, nella realtà, nulla rivela né sul tempo né tanto meno sulla forma del complesso edilizio. Di esso, com'era facile aspettarsi, faceva parte almeno dal 1118 un chiostro nel quale venivano talora rogati documenti. Una testimonianza del 1184 ricorda la "loggia dell'abate sopra le scale", dove i funzionari esterni del monastero venivano investiti dei loro incarichi, ad essa si accedeva mediante la stessa rampa che portava alla chiesa, abbastanza ampia per accogliere i partecipanti a un placito (cioè un'assise giudiziaria) che si era là tenuto nel 1175. L'abate nel 1194 disponeva di una sua camera che è forse tutt'uno con la cella menzionata l'anno dopo; esisteva poi un "secretarium predicti monasterii", specie di segreteria-archivio dove pure si redigevano documenti. Non dovevano mancare ambienti per ospitarvi i pellegrini, dei quali fa espressa menzione la bolla citata dal Vescovo di Trento, più i magazzini per i prodotti dei molti beni terrieri che il cenobio possedeva in molti luoghi, stalle, più una grande cisterna per raccogliervi l'acqua piovana - cisterna che ancora sussiste, dato che l'edificio, collocato sulla vetta d'un monte senz'acqua, non poteva godere di sorgenti, cisterna per la quale dovevano, prevalentemente, essere usate le elemosine raccolte con la bolla sopraddetta. Nel 1258-1259 il monastero venne forse colpito duramente da Ezzelino da Romano. Il fatto, non escluso da studiosi come Ettore Cau, è però riferito da documenti del Monastero stesso che affermano anche la distruzione dell'archivio esclusa dal Cau. E nemmeno il monastero venne distrutto tanto che nelle costituzioni sinodali del Vescovo Federico Maggi, del 1309, cioè in periodo di decadenza, è detto che doveva ospitare un abate prete, otto monaci, preti, più, naturalmente, tutto il resto del personale addetto. Doveva avere, come risulta da una pergamena, oltre alla chiesa di san Pietro, anche una chiesa di santa Maria. Ma i monaci dovevano vivere più frequentemente in posti più sicuri e comodi. Case del monastero esistevano a Flina dove esistono ancora i segni di esse. Inoltre abitazione i monaci avevano a Nuvolento e specialmente all'Arsana dove esistono ancora porticati, loggiati del sec. XIII-XIV e affreschi riproducenti anche monaci. Comunque nei primi decenni del sec. XIV il monastero in monte Orsino veniva sempre più abbandonato mentre i monaci si trasferivano nella casa monastica, sita nel castrum di Nuvolento. Almeno dal 1337 più nessun documento viene firmato in San Pietro in Monte. Del resto, come ha sottolineato Paolo Guerrini, la estesa giurisdizione economica del monastero, oltre che dal testo degli atti compiuti dall'Abate e dal capitolo, si comprende subito anche dall'indicazione del luogo dove gli atti medesimi vengono compiuti. Sono difatti frequenti queste indicazioni: in monasterio, in claustro monasterii, in secretario monasterii, in confessione ecclesie S. Petri, in Villa de Serlis, in castro de Serlis, in Villa de Vallibus, in castro de Vallibus, in Villa de Boyacho, in plebe Materno, in platea comunis de Buticiolis, in domo S. Nicolai de Nuvolento, ante regias plebis de Nuvolento, in Brescia in curte D. Abatis s. Petri presso porta Matolfa, cioè nelle vicinanze della chiesa di S. Brigida, che sarà più tardi unita al monastero e diventerà la residenza permanente dell'unico Abate. Nella necessità, poi, di avere una dimora in Brescia per l'espletamento di tutte le pratiche relative alla conduzione del monastero l'abate Giacomo faceva istanza al vescovo di Brescia Lambertino e al capitolo della Cattedrale, che concedevano il 15 novembre 1347 la chiesa di S. Brigida "con tutti i diritti spirituali e temporali" ma anche con l'obbligo di provvedere al servizio pastorale dei fedeli.


Il 24 dicembre 1381 il vescovo Nicolò sanzionava definitivamente il passaggio della chiesa e dei suoi beni sotto la giurisdizione del monastero, dato che i monaci avevano già abbandonato il monastero di Serle e via via abbandonava anche la casa di Nuvolento, sia per l'incomodità del luogo sia per il pericolo di banditi e di scorrerie di eserciti, ma anche per una decadenza ormai avanzata della vita monastica. Col documento del 6 settembre 1435, Papa Eugenio IV affidava all'abate di Leno il mandato di sancire l'unione tra S. Brigida e il cenobio di Serle. Oramai i monaci di S. Pietro vivevano presso la chiesa cittadina da più di vent'anni. Pochi anni dopo le "litterae" di Eugenio IV, il monastero veniva soppresso e inglobato nella canonica cittadina di S. Pietro in Oliveto, mentre il cenobio di S. Pietro in Monte Orsino andò sempre più declinando anche per le ricordate violente guerriglie intorno alle sue mura fra Giovanni Rozzoni e il visconte Giovanni da Castiglione. Sul monte di Serle, come scrive il Guerrini, dei monaci non c'era più nessuno; restava soltanto l'Abbate, ma di nome, poiché era, più che amministratore, saccheggiatore e depredatore dei residui redditi della Badia agonizzante, divenuta una prebenda da assegnarsi in godimento alla famiglia più intrigante e più potente, a compenso o a contraccambio di favori politici.


Nel 1446, poi, cessata completamente ogni vita religiosa sul monte quanto restava dei beni del monastero venne assegnato alla congregazione dei canonici Agostiniani di San Giorgio in Alga di Venezia, che da non molto avevano ricevuto a Brescia il vetusto monastero di san Pietro in Oliveto. Con i beni superstiti passarono al monastero bresciano anche tutti i documenti del ricco archivi di san Pietro in Monte. Nel 1668, trovandosi la Repubblica di Venezia in gravissime difficoltà per proseguire la guerra contro i Turchi, che ancora incombevano sul Mediterraneo e sull'Europa, il Papa Clemente IX soppresse i canonici di san Giorgio in Alga, e perciò anche quelli di san Pietro in Oliveto, con altri ordini religiosi, affinché dalla vendita dei loro beni Venezia potesse cavare i mezzi per continuare la sua lotta contro i nemici del Cristianesimo. Molti documenti registrano contrasti di interessi e di giurisdizione con pievi e comuni. Ma è anche da rilevare che in alcuni luoghi (come Nuvolera, Nuvolento, Prevalle, Vallio, ecc.) un ruolo preminente nella costituzione della parrocchia stabilita e solidificata si ebbe con beni del monastero stesso. Sulle rovine dell'antico cenobio i canonici di San Giorgio in Alga, quando raccolsero l'eredità molto scarsa dei due titoli, S. Pietro in Monte e S. Pietro in Oliveto, fecero restaurare a qualche modo, e forse anzi fondarono ex-novo la piccola basilica e l'annesso unico e piccolo chiostro per avere lassù, a mille metri, una casa di soggiorno estivo per i Canonici e per i novizi. Sul monte i monaci portarono invece il culto di S. Maria Maddalena, per cui lo stesso Guerrini ha rilevato "rapporti molto evidenti fra la antica cappella dedicata alla santa in S. Pietro in Castello e la cappella della Maddalena nella chiesa del Monte Orsino, dove pure sull'architrave si legge il motto evangelico bonum opus operata est in me". Nel 1658 il Faino scriveva che del chiostro primitivo non rimaneva più traccia alcuna e che rimaneva solo la chiesa di S. Pietro, detta in monte Orsino, alla quale venne poi cambiato il titolo in S. Bartolomeo. Nel 1816 il visitatore accenna ad una spelonca di S. Silvino che egli fece restaurare e chiudere. Nel 1908 il pittore Francesco Rovetta rimetteva alla luce un bell'affresco del '500 coperto da un altro bruttissimo. Gli alpini di Serle, come si è ricordato, sul finire degli anni '60 e nei primi anni '70, realizzarono la strada, ripopolarono il bosco e approntarono un rifugio. Un restauro molto solido venne eseguito nel 1972 anche con il contributo di Papa Paolo VI a ricordo del fratello dott. Francesco. I lavori vennero inaugurati il 1° luglio 1973. Nel 1997 venne costituito un Comitato pro San Bartolomeo. Da ricordare l'ultimo custode, Pietro Zanetti, morto verso gli anni '80. Come ha scritto Giovanni Vezzoli: "Dai pochi ambienti oggi superstiti accanto e sotto la chiesa, non è affatto possibile farsi un'idea dell'area occupata dal convento, né delle sue strutture: le rovine degli uomini e del tempo ne hanno, almeno in superficie, distrutto ogni traccia. Si è detto almeno in superficie, perchè, sotto le attuali costruzioni e anche tutt'intorno si notano aperture di gallerie e di cunicoli che senza dubbio danno accesso ad ambienti sotterranei, dei quali si ignora tutto, ma che potrebbero, scavati e studiati a dovere, da persone competenti, fornire le notizie che ci mancano circa l'origine e la vita del monastero. La stessa superficie pianeggiante tutto intorno alla Chiesa lascia affiorare tracce più che evidenti di strutture murarie, robuste ed estese. Chi poi dalla spianata terminale scende lungo la costa, tra le piante ed i cespugli del bosco circostante, trova una larga maceria di pietre variamente ammucchiate, che segna un largo giro tutt'intorno alla vetta e che potrebbe essere il resto della cinta del monastero, o crollata o fatta crollare nel corso dei molti secoli". Recentissimi (2001) scavi archeologici, progettati e diretti dalla Soprintendenza Archeologica, hanno portato alla luce, al di sotto del S. Bartolomeo quattrocentesco, ampi tratti delle imponenti sostruzioni della chiesa monasteriale romanica.




GLI ABATI, in base agli accertamenti di Ettore Cau, sono: Paterico (1043); Giovanni I (1047-1058); Lanfranco (1086-1095); Anonimo (fine sec. XI-inizi sec. XII); Pietro (anni 10-20 sec. XII - 1130 circa); Anonimo (1131-1132); Giovanni II di Bornato (1132-1143); Benedetto (1144-1170 circa); Alberto de Cenatho (1171-1219).




ECCLESIASTICAMENTE Serle appartiene alla pieve di Nuvolento. Una tradizione o leggenda vuole che la prima evangelizzazione sia stata portata dal vescovo di Brescia S. Silvino (425-450), che qui si sarebbe rifugiato per sfuggire alla persecuzione dei barbari e che vi sarebbe anche morto. Ancora agli inizi dell'800 si mostrava sul Monte Orsino la spelonca di S. Silvino. Una comunità ecclesiale e assieme civile vera e propria prese consistenza, come si è accennato, assieme al comune, nel sec. XII. Anche per la presenza del Monastero, Serle andò sempre più staccandosi dalla pieve matrice fino a costituirsi in parrocchia autonoma, salva all'obbligo di ritirare gli oli santi dalla pieve stessa. La decadenza e poi la scomparsa del Monastero resero ancora più stretto il collegamento fra dimensione religiosa e civile così che spetta agli uomini e ai consoli del comune scegliere il parroco e stabilire le spese del culto. Gli atti della visita di S. Carlo del 1580 oltre a varie e solite vive prescrizioni per i vasi sacri, per i paramenti secondo i colori liturgici, per il tabernacolo, per il battistero, per la provvista d'un confessionale idoneo in luogo idoneo, che si eriga in forma canonica la confraternita del Santissimo Sacramento, che prima esisteva di fatto soltanto, dispongono, - anche qui evidentemente in forma canonicamente e giuridicamente valida, - che il popolo cioè il Comune, a sue spese, mantenga un sacerdote "idoneo, che porti sempre l'abito clericale e la tonsura e serva alla chiesa". Del sacerdote allora in funzione dice che è legittimo e di cultura e preparazione "tollerabili". Ordina che il cimitero sia pulito dai rovi e dai virgulti. Nel 1601 esiste già il Monte di Pietà o delle biade. Il venerdì Santo vien distribuito pane a tutti i fedeli; si delibera che non vi vengano portati i bambini; per evitare disturbi e fastidi; per questi si sopperisca con congrua offerta. Nelle due visite del 1625 e del 1633 vien constatato che i decreti di san Carlo non sono stati eseguiti che in minima parte; risulta anzi una notevole tra scuratezza nell'ordine e nella pulizia degli edifici, dei paramenti e degli arredi, insufficienti o in cattive condizioni. Anzi risulta, dai provvedimenti presi, che l'area cimiteriale di santa Maria era aperta agli animali, cavalli compresi, che forse vi venivano mandati a pascolare. Nei primi decenni alla confraternita del SS. Sacramento si accompagna quella del Rosario, ambedue amministrate abbastanza bene. Nella visita del vescovo Bollani (1565) la parrocchia è unita alla chiesa di S. Pietro in Vincoli, mentre S. Maria è ancora di proprietà di S. Pietro in Oliveto al quale appartiene anche la Chiesa di S. Pietro in Monte ed è officiata da un sacerdote che gode di un beneficio. Il clima religioso è abbastanza buono. L'Eucarestia è conservata con una certa cura. Vi erano la Chiesa di S. Pietro ufficiata dal Curato salariato dal Comune con ducati 100 all'anno; poco discosto la Madonna dove si dice qualche volta la Messa; e l'altra chiesa di S. Bartolomeo, coll'immancabile eremita, sull'omonimo monte di ragione dei Padri di S. Pietro in Oliveto di Brescia. In migliori condizioni è la parrocchia nella seconda metà del '600. Nel 1661 infatti il vescovo Marino Giorgi, nota un arricchimento della suppellettile (fra la quale rileva la presenza di paliotti di cuoio dorato), il buon reddito. In più aumentano i legati e cresce il numero dei sacerdoti. Tra i legati hanno particolare rilievo quello del "magnifico" Gerolamo Tonolini, che nel già ricordato testamento del 1648, stabiliva la celebrazione di messe, l'erezione di un altare al santo del suo nome in S. Maria e la dispensa di una candela e del pane il Venerdì Santo ad ogni abitante, tradizione che è stata sempre mantenuta e tuttora continua. Nel 1661 per la prima volta il titolo di S. Bartolomeo sostituisce sul Monte Orsino quello di S. Pietro.


Come scrive il Vezzoli: le visite del 1673, del 1684, del 1702, dei Vescovi Zorzi, Gradenigo e Dolfin, oltre ai vari decreti per provvedimenti e suggerimenti per il culto, provvedimenti che fanno notare purtroppo una tal quale trascuratezza complessiva, pongono in rilievo che il Comune presenta e la vicinia elegge il Curato, che è a carico del Comune, che, oltre ai vari oneri per le spese di culto, deve anche provvedere a molte celebrazioni di Messe. Le visite indagano con minuta diligenza sull'origine delle varie confraternite e sul fondamento dei vari legati di Messe, senza che riesca chiaro su quali fondamenti canonici si reggano, salva la presenza dei fondi e redditi a ciò destinati. Delle costituzioni di S. Carlo si è perduta ogni traccia. Altrettanta minuzia si riscontra nel controllo dei redditi e del loro impiego. Di alcuni legati invece vengono riscontrate le origini attraverso i testamenti conservati negli archivi delle Confraternite. Nel 1673 mancano, non esistono inconfessi salvo alcuni pochi "per negligenza" ma anche per aver avuto ammazzato il padre o un parente, o per discordia e inimicizia. Trascurato risulta il cimitero che seguita ad aver bisogno di recinzione, di ripianamento del terreno. Manca pure della Croce. I sacerdoti, oltre al curato, sono ormai 5, necessari per soddisfare al numero vistoso degli oneri di messe sia del Comune, sia dei vari legati delle Confraternite, sia delle dotazioni degli altari delle Chiese. Nel 1711, il 4 aprile il cardinale Giovanni Badoer visitò Serle, di persona, l'unico vescovo che non abbia mandato canonici vicari. Di notevole interesse le notizie che si possono desumere. Per l'altare dei Martiri, nella parrocchiale, impone di rifare la pala, in modo che il luogo principale sia tenuto dai Martiri e non dal tiranno. Stabilisce che siano velate alcune figure del Giudizio universale, gran lunettone sulla facciata interna della Chiesa dell'Annunziata. Il Querini richiederà lo stesso intervento nel 1729. La confraternita del Rosario aveva diploma d'aggregazione, proprio del 1711. Né mancava quella del Santissimo. Già dai vescovi visitatori del '600 erano state denunciate le critiche condizioni della vecchia parrocchia di S. Pietro. Caratteristiche nel '600-'700 le processioni del Venerdì Santo. Notevole quella del 1719 "con gli instromenti della Passione di Nostro Signore". Il marmorario Palazzi di Rezzato, nel 1716, costruiva il portale della parrocchia e lavorava agli altari delle Confraternite. Nel gennaio del 1717, avute in dono da un cappuccino delle reliquie della Santa Croce, il consiglio speciale dà incarico a un assessore, - si direbbe oggi - perchè si rechi a Brescia ad accertarne l'autenticità. Qualcuno aveva messo innanzi dei dubbi. Ad autenticità accertata, viene ordinato un "ostensorio" d'argento e oro e si stampano sonetti a spese del comune, per così insigni reliquie. Tra i predicatori e confessori più presenti sono i Cappuccini.


Riguardo alla parrocchia però, il discorso più grosso e più impegnativo riguarda la Chiesa Parrocchiale. Già S. Carlo, circa 150 anni prima, in pensiero per l'angustia e lo stato rovinoso dell'edificio, non aveva domandato che s'aggiustasse, ma che si rifacesse nuovo e adatto alla popolazione cresciuta. Se n'era fatto un gran parlare, ma i dissensi, le annate scarse, gli eserciti di passaggio di anni prima, a dir del parroco nella visita del cardinale Badoer del 1711, avevano fatto differire ogni conclusione fattiva. O era stato solo una pietosa invenzione del parroco per scusare con i suoi parrocchiani anche se stesso di fronte al Vescovo? Adesso, al 16 aprile 1719, anche perchè deve venire a Serle il Vescovo, monsignor Barbarigo, bisogna spicciarsi e risolvere qualcosa di utile e di concreto. Se ne discute in una serie di sei riunioni di consigli, speciale e generale, dal 16 aprile al 10 maggio del 1719. Il Vescovo è venuto, ha preso le misure del terreno circostante alle due chiese, la Parrocchiale vecchia e S. Maria per informarsi delle necessità, per una soluzione efficace. Due sono, sostanzialmente, le soluzioni prospettate: o ampliare o meglio rifare più grande, con orientamento diverso la chiesa vecchia o trasferire la Parrocchia a S. Maria, che così com'è non basterebbe e dovrebbe essa pure esser allargata (avevano pensato all'area cemeteriale?). Ambedue le soluzioni comportano acquisto di terreni adiacenti. L'ampliamento della parrocchia vecchia includerebbe anche la Casa del Comune, per il quale occorrerebbe trovare altra casa. Con voti 70 affermativi e 38 negativi, nella seduta del 10 maggio la generai vicinia decide di rimettersi alle decisioni del Vescovo. Vengono pure nominati quattro deputati con l'ordine di attuare le decisioni del Vescovo, con ampia facoltà di acquistare e permutare fondi, case, terreni, secondo che comporterà l'eseguire quanto avrà scelto il Vescovo.


Però, dal 10 maggio in là, per tutto il 1719, non si fa parola più dei quattro deputati nè del loro operare. La parrocchiale nuova, però, e la casa del Comune costruita nuova, un po' dopo la chiesa, attestano, anche se i documenti non vi sono, - il registro dei verbali si chiude con le varie elezioni per il 1720, nella seduta del 31 dicembre 1719 - e mancano i registri successivi. Nonostante le traversie e anche una crescente crisi economica Serle costruì su disegno del Corbellini nel 1748 una nuova magnifica chiesa che arricchì, per iniziativa della confraternita o del Comune dal 1750 al 1790 di grandiosi e ricchi altari. Nel 1816 i sacerdoti presenti sono nove, due i chierici fra i quali Pietro Boifava. Soddisfacente la partecipazione alla Dottrina cristiana, buono lo stato degli edifici della chiesa, meno quelle delle suppellettili. Per alcuni anni dal 1840 al 1845 la parrocchia fu turbata da divergenze fra il parroco don Amabile Mabellini e il curato don Pietro Boifava accusato questo di essere di carattere violento, di insubordinazione, e di sobillare la popolazione contro il primo, al quale a sua volta veniva imputato di "essere attaccato all'interesse". Una accesa discussione che il Regio Commissario affermava sfociata "con via di fatto", ciò che si appurò essere falso. Controverso il parrocchiato di don Amabile contestato per il suo carattere autoritario. Una inchiesta del vicario foraneo di Nuvolento, nel 1840, in seguito a lettera anonima, appurò la buona condotta di don Boifava al quale veniva dato atto che non aveva mai fomentato discordia con il parroco. Del resto lo stesso don Boifava andava dimostrando nel 1842 zelo come supplente del cappellano a Castello di Serle. Apprensioni da parte del Commissariato distrettuale venivano manifestate nel maggio - luglio 1845 alla Deputazione comunale circa il parroco don Mabellini e don Boifava tanto da convincerli a rinunciare alla loro carica. Ciò che fece il parroco, sostituito da don Pietro Baronio, mentre don Boifava rimaneva a Serle. Lodato dapprima dalle autorità politiche come "degnissimo" Don Baronio si dimostrò un avversario deciso dell'Austria.


Agli inizi del secolo nasce la Compagnia di S. Luigi. L'8 gennaio 1912 si inaugura l'oratorio maschile. Nel 1973 veniva elettrificato il concerto delle campane. Con decreto vescovile del 14 marzo 1947 diveniva parrocchia autonoma la chiesa curaziale di S. Gaetano nella frazione di Castello di Serle. Nel 1994-1995 il parroco don Giuseppe Tassi promuoveva il restauro della parrocchiale, lavori benedetti dal vescovo mons. Foresti il 25 giugno 1995. Nel 1998 rinasceva con il nuovo nome di "l'eco de l'omber" il coro parrocchiale, diretto da Maria Maddelana Goffi e subito presente a gare provinciali. Numerose le vocazioni specialmente religiose (specie nelle famiglie Bodei, Sorsoli, Ragnoli, ecc.) tanto da far registrare la presenza contemporanea di diversi sacerdoti.




NUOVA PARROCCHIALE. Dedicata a S.Pietro in vincoli. Eretta, come si è detto, dal 1711 al 1747 vi appaiono, come scrive Giovanni Cappelletti ("Storia di Brescia"), i motivi tipici del Corbellini. La facciata a due piani con l'architrave a triglifi richiama Orzivecchi, mentre gli sguanci di raccordo, il portalino vistoso e le semplici nicchie ricordano Coccaglio. Anche l'interno presenta gli sguanci come a Coccaglio, mentre le nicchie tra lesene vengono corniciate più vistosamente. Gli stessi elementi ritroviamo nella parrocchiale di Virle Treponti (1724-1760) che ripete alla lettera l'interno di Serle e le è contemporanea. L'interno è scandito da sei statue, quattro Virtù cardinali, S. Michele arcangelo e l'Angelo Custode. Il volto in medaglioni contornato di stucchi porta episodi della B.V. e di S. Pietro. Il primo altare a destra entrando è dedicato a S. Silvino. Ha un bel paliotto in marmo, mentre la pala del '700 raffigura la Madonna in trono con il Bambino e intorno i SS. Silvino, Antonio di Padova e S. Francesco di Sales, conserva reliquie di molti Santi. Il secondo altare dedicato alla Madonna del Rosario raccoglie in una grande soasa marmorea una statua della Madonna di recente fattura. La soasa è contornata dai misteri del Rosario di Paolo Bossini (1770) che Giovanni Vezzoli dice "di discreta fattura". L'altare in marmo è di Francesco Bombastone di Rezzato. Nell'ovale in marmo nero presenta un bel vaso di fiori intarsiato. L'altare maggiore, come scrive Giovanni Vezzoli, di marmo, elegante fattura barocca, presenta un ricco paliotto intarsiato con ornati di marmi policromi. Al centro, entro un elisse adagiata, è raffigurata con finissimo intarsio di marmi, pietre dure e madreperla l'Ultima cena. Sulle facce dei due pilastrini, destra è raffigurata, con intarsio ugualmente fine e prezioso, la Tiara con le sacre Chiavi, a sinistra il gallo e le catene spezzate. La pala raffigura la liberazione di S. Pietro dalla prigione e viene da S. Guerini attribuita a Francesco Lorenzi. Scendendo sul lato di sinistra si incontra l'altare della confraternita del SS. Sacramento costruito, come scrive il Vezzoli, con contratto firmato il 1° aprile 1752, in compiuta analogia con quello del S. Rosario, dai marmorari Francesco Bombastone e Giacomo Puegnago da Rezzato. La colomba dello Spirito Santo è opera di Ghelfino Callegari. Vi abbondano i marmi, specie il diaspro di Sicilia. La pala raffigurante l'Ultima Cena che il Vezzoli propende ad assegnare a Sante Cattaneo sarebbe invece per Sandro Guerini di Francesco Lorenzi. Opera di marmorari rezzatesi degli inizi del sec. XVIII è anche l'ultimo altare sulla sinistra prima dell'uscita, arricchito, come scrive il Vezzoli, di un paliotto di finissimi intarsi di fiori entro marmo grigio chiaro, mentre nei gradoni i motivi ornamentali sono inseriti con bella variazione entro marmo nero. Nella nicchia c'è Cristo Crocifisso con la Vergine, san Giovanni e la Maddalena. Le statue lignee sono di gusto un po' enfatico e barocco di grandezza naturale. Appartengono a una maniera di scultura pietistica del primo settecento, per la quale è difficile individuare la mano. La tela (216x216 cm) raffigurante la cena nella casa del fariseo e la Maddalena, dipinta nel 1764, è stata attribuita da Antonio Massarelli a Gaetano Gandolfi (1734-1802). Lo stesso Massarelli ha voluto individuare nel muscoloso portatore d'acqua il pittore e nella Maddalena la moglie sua. Anche la sagrestia conserva pregevoli quadri del '600 e '700 fra i quali, degni di nota, tre tele ovali, rappresentanti: San Pietro che cammina sulle acque, Gesù lava i piedi a san Pietro e san Pietro che con san Giovanni Ev. guarisce lo storpio alla porta del Tempio. Sono di fattura molto buona, di ambito tiepolesco. Sandro Guerini li attribuisce più specificatamente al veronese Francesco Lorenzi, allievo del Tiepolo.




SS. ANNUNCIATA. La primitiva chiesa era molto antica. Compare infatti in documenti del Monastero del 1138 nel quale anno fu oggetto di permuta e cessione tra l'abate Giovanni del monastero di san Pietro in Monte e arciprete Martino della Pieve di Nuvolento. Apparteneva ai Monaci del Monastero che collocano in essa la stipula di molti loro atti. Come ha suggerito Giovanni Vezzoli: in seguito, probabilmente al passaggio del Monastero a Brescia o alla fusione con san Pietro in Oliveto, divenne parrocchia. La ricostruzione della nuova chiesa venne avviata verso la metà del sec. XVI e finita nel 1566. Più tardi il primo edificio fu sostituito con l'attuale ma la devozione alla Vergine Annunciata rimase intatta, e ravvivata da numerose tragiche circostanze (specialmente epidemie d'uomini e morie di animali), andò anzi sempre più potenziandosi. Una gentile consuetudine ha voluto che molte donne di Serle ereditassero dalla Vergine anche il nome di Annunciata. Ma è soprattutto la folla dei devoti che salgono a questo santuario che indica la venerazione di cui è attorniato. Il vescovo Giorgi trovava, nella visita pastorale del 1598, che non aveva beni se non le elemosine e che vi venivano spese per l'edificio e l'abbellimento della chiesa e di cui si teneva conto dai deputati e dal parroco. Vi si celebrava per devozione dei fedeli ed era ben tenuto e arredato. Nel 1613 il vescovo ordinava che si coprissero le sepolture esistenti nella chiesa e che si mettessero, entro un anno, i cancelli alla cappella maggiore. Nel 1648 aveva ancora un solo altare al quale fu aggiunto poi l'altare di S. Girolamo e un altro ancora più tardi dedicato alle SS: Reliquie. Vi si celebravano cinque messe alla settimana grazie anche ad un legato di Grazio Grazioletti e ad altre entrate.


La chiesa presenta una facciata cinquecentesca a timpano, con un occhio e porta a timpano e mensole di pietra lavorata con finezza elegante, ed ha addossato sulla sinistra un basso portico quadrato, su pilastri di pietra. L'interno è a due campate di pianta quadrata, con volta a vela, e finestroni a semicerchio sul lato destro. Nella controfacciata è appesa una vasta tela secentesca raffigurante il Giudizio Universale, attribuita ai due pittori francesi Claudine e Antoine Bouzonnet (o Bousconet), fratelli. Come ha scritto Bernardo Zanola: «La tradizione, o leggenda, narra che essi, fuggiaschi da Lione per motivi politici, siano giunti a Serle e accolti benevolmente dalla popolazione. Nel lungo soggiorno ebbero dai locali la committenza di alcuni dipinti per la chiesa di S. Maria. In uno di questi, raffigurante, appunto, il Giudizio Universale, tra le anime del Paradiso e del Purgatorio dovevano essere immortalati i volti di benestanti cittadini serlesi che intendevano, in tal modo, "garantirsi" un posto tra i beati. Vuoi per il carattere demoniaco di alcune figure, vuoi per le nudità troppo evidenti dei soggetti femminili, l'opera non piacque né al parroco, né ai fedeli che si rifiutarono di pagare. Per tutta risposta, fingendo di apportare alcune modifiche, i due fratelli fissarono il volto dei loro detrattori tra i dannati. Accortisi dell'oltraggio i Serlesi cercarono di farsi giustizia da soli, ma i pittori riuscirono a fuggire e a mettersi in salvo lanciando ogni tipo di maledizione. La tela così rimase. Non fu rimossa per timore di qualche sortilegio. Ben presto la fama del dipinto giunse al cardinale Badoaro (1711) che, mandato in loco un suo legato, ordinò di "coprire le nudità". Furono, così, allungate e allargate le fiamme dell'inferno e del purgatorio. Col passare del tempo però incredibilmente, le fiamme si rimpicciolirono tornando alle dimensioni originali. Si gridò al maleficio, si ipotizzò di presenze demoniache. La chiesa ed il quadro vennero entrambi attribuiti al diavolo. Il cardinale Querini, invocato dai fedeli smarriti, si recò sul luogo (1720) e viste le "oscenità demoniache" dopo aver compiuto vari riti esorcistici, impose che fossero nuovamente ricoperte con tinte più cariche e tenaci. Così fu e, sostenuti da varie messe propiziatorie, i colori tennero, il quadro rimase come noi lo vediamo oggi e la chiesa tornò ad essere frequentata. Il clamore si trasformò in culto, preghiera e grande devozione». Come scrive il Vezzoli, si dà il caso che i due pittori francesi Bouzonnet, lionesi, di formazione e scuola di Nicola Poussin, nella prima età del sec. XVII, siano venuti in Italia con lunghi soggiorni a Roma e a Mantova per studiarvi direttamente la pittura classica del cinquecento italiano, sulla quale si era formato lo stesso Poussin. Data la formazione dal Poussin, ai pittori francesi starebbero meglio attribuite le due tele di sinistra, ossia a sinistra del lunettone, "Ingresso a Gerusalemme", e nel riquadro tela con "la cacciata dei mercanti dal Tempio", che il Vezzoli giudica buone tele del primo seicento, ricche di movimento e di colore. A destra rimane solo la grande cornice quadrata senza la tela. L'altare di sinistra venne eretto per lascito di Gerolamo Tonolini del 6 febbraio 1848. Ha una tela con S. Domenico, S. Girolamo, Sant'Antonio da Padova e san Carlo Borromeo, posti ai piedi e ai lati di un alto stilobate, sul quale è collocato il trono della Madonna col Bambino. Ricorda, come scrive il Vezzoli, il quadro del Moretto a San Clemente, con i santi Gerolamo e Paolo, e le sante Caterina d'Alessandria e da Siena, con la Madonna; però solo come suggerimento assai lontano d'impostazione. La maniera potrebbe essere di uno dei due Gandino. A destra dell'altare il ritratto del Tonolini, di ottima fattura. Il presbiterio, di pianta rettangolare, presenta volta a ombrello, con tre voltine per lato a lunette, sul cornicione. Come scrive il Vezzoli "vi sono stucchi molto eleganti, con fiori e testine d'angeli alle cornici dei quadri laterali, ai riquadri della volta e nei capitelli delle lesene. Alla base delle simulate nervature delle volte, che sono segnate da fasci d'alloro, stanno statue d'angeli, 8 in tutto, notevoli sia per la finezza del modellato e del panneggio, sia per la nobiltà dell'atteggiamento. Fiori d'ornamento di vivace fantasia sono collocati nelle cornici e nei sottoarchi, sulle pareti degli altari laterali e sulla volta del presbiterio. Ai lati dell'arco del presbiterio si vedono a sinistra l'Angelo e a destra la Vergine Annunziata. Le statue dell'Annunciazione, specie la Vergine inginocchiata, di tre quarti, sono di ottima fattura. Gli stucchi sono bianchi e negli archi trasversali e nei pilastri conservano lo sfondo rosa originale. Ne è autore Nicola Zambonini, nel 1732. Non si conosce di lui altra opera; questa decorazione basta però a collocarlo tra i migliori stuccatori operanti sul bresciano a quell'epoca. Il suo stile risente del modo sciolto ed elegante degli stuccatori ticinesi e nel complesso è caratterizzato da movenze e andamento molto vivi. In nicchie, ai lati nel presbiterio, due statue di stucco colorato, a sinistra S. Antonio, a destra S. Carlo Borromeo". L'altare maggiore, di marmi vari di gusto barocco, con ornati rococò, contiene una nicchia sormontata da angeli di marmo, discreti. Nella nicchia una statua lignea della Madonna col Bambino steso in grembo. Il manto dorato e l'abito conservano il colore originale, le mani e il volto sono stati ridipinti con grossolana vernice rosea. Il bambino, rivestito d'una camiciola, sembra posteriore. Il panneggio ampio, che scende tra le ginocchia della Vergine, le pieghe fitte, minute, troppo regolari, delle maniche e altri particolari evidenti, denotano una buona scultura d'arte popolare nel periodo di passaggio tra il secolo XV e il XVI. Assai notevole, è soprattutto una statua della Madonna che campeggia nel santuario e che nel 1950 fu portata pellegrina nella zona e che nel 1968 riprese a percorrere le contrade di Serle da Berana a Magrena, da Bornidolo a Salvandine, da Ronco a Villa. L'altare di destra ha una tela con san Giuseppe e san Giovanni Nepomuceno; nello sfondo il santo che vien precipitato nella Moldava. Non ha troppi meriti. È della seconda metà del 700. Tra le nicchie degli altari e l'arcata del presbiterio, stanno due tele di soggetto biblico: Giuditta, a sinistra, a destra Ester, che prefigurano la Vergine; di fattura corretta. Recano la firma di G. Forabosco 1664.


Nel soffitto, nella prima e terza campata, due tele; l'adorazione dei Magi e, verso il presbiterio, la presentazione al tempio, di discreta fattura, di scuola bresciana della seconda metà del XVI secolo. In condizioni non buone, per colori alterati e scrostature. Al centro un arioso affresco, di colori vivi e luminosi con l'Assunta; è del secolo XVIII, prima metà; potrebbe essere di uno dei figli del Paglia; Angelo, ad esempio. A destra e a sinistra del presbiterio due affreschi, san Paolo e san Pietro, recentemente scoperti, di buona fattura manieristica, fanno parte d'una serie di apostoli, parte distrutti, parte coperti da scialbo: ne restano alcuni nomi. Nelle otto lunette del presbiterio sono scene della vita della Vergine: a sinistra, il riposo in Egitto e la fuga in Egitto; seguono i quattro Evangelisti, e oltre, a destra, due scene non bene identificate. Sono di impostazione e colore di scuola romaniniana, comunque della seconda metà del secolo XVI in parte rimaneggiate. Il campanile, unico, è annesso a questa chiesa. Il campanile ha un tratto, appena sopra il basamento - purtroppo coperto da bruttissima scarpata di cemento - di belle pietre squadrate, di gusto romanico.




SS. FIRMO E RUSTICO a RONCO. Forse costruita dopo la peste del 1630. Nel 1648 nella visita pastorale il vescovo Morosini la registra come "edificio a mezza costa ..." dove si dicono sovente le Messe per i defunti della grande moria, per iniziativa, secondo la tradizione, da un notaio Ragnoli che aveva a Ronco l'abitazione che poi lasciò alla chiesa stessa. La dedicazione indica una particolare devozione a due santi, venerati come protettori del bestiame. Non per nulla nella festa dei patroni si accompagnava una specie di fiera - mercato di bovini che richiamava mercanti fin dal Lodigiano. Durante l'epidemia (la spagnola) del 1918 venne trasformata in Lazzaretto. Dal 1914 al 1940 la chiesa risulta dedicato alla B.V. di Loreto e per ritornare poi ad essere dedicata ai santi. Come ha scritto Bernardo Zanola: "Certamente il proprietario doveva avere notevoli possibilità economiche perchè, la costruzione, pur essendo a navata unica e di esigua superficie (267 mq.), presenta al suo interno arredi, decorazioni e stucchi di notevole fattura artistica. Sull'altare maggiore, infatti, vi è un affresco cinquecentesco con Madonna Nera col Bambino attorniati da un coro di angeli entro una cornice di stucco colorato. Anche l'altare di sinistra ha uno stupendo lavoro d'intarsio marmoreo e il paliotto centrale è ricco di uccelli e di farfalle dentro ornati di frutti e fiori di vario genere. Nei pilastrini si notano vasi di fiori con bellissimi tulipani e garofani di squisita eleganza. Altrettanto raffinato doveva essere il frontale dell'altare di S. Firmo con la Vergine del Rosario intarsiata al centro. Purtroppo, tale opera, nel 1890, è stata ceduta alla Chiesa della Maria Annunziata in cambio di fondi per il primo restauro dell'edificio. Il sacrificio deve aver pesato molto sui fedeli della frazione che, per anni, hanno tentato di riappropriarsi del loro paliotto, mediante costanti oblazioni. Purtroppo il susseguirsi di eventi infausti ha relegato in secondo piano il giusto proposito. Con recenti opere sono stati sistemati il sagrato e le adiacenze, mentre con il contributo delle famiglie di Ronco, Cocca e Gazzolo la chiesa è stata di nuovo restaurata nel 1993. Ben radicata, afferma lo Zanola, nella popolazione, un tempo, era anche la consuetudine, nel giorno della ricorrenza del Santo, 9 agosto, di suonare le campane a martello. Con questo rito si pensava di poter tener lontana la grandine dai campi e, quindi, dai raccolti. Straordinaria anche la partecipazione della frazione alla Quarantore con una processione di figuranti impersonanti santi, un sontuoso baldacchino e un maestoso bandierone rosso.




S. LUIGI in fraz. VILLA. La chiesa è settecentesca, a croce greca sormontata da tiburio elittico. La pala dell'altare raffigurante la B.V. con i SS. Luigi e Gaetano viene assegnata da qualcuno a Pietro Scalvini mentre dal Guzzi è attribuita ad Antonio Paglia trovandola "fortemente ispirata" a quella che esiste nel Santuario delle Grazie a Brescia.


B.V. DI CARAVAGGIO in fraz. MANZANIGA. Dalla consultazione delle "Carte del monastero di S. Pietro in Monte" risulta che una chiesetta dedicata a S. Maria esisteva già a "Manzanicha" nel 1183, di proprietà di un certo Rodolfo di Concesio, come riportato nella controversia tra l'abate di S. Pietro e un certo Guglielmo de Ripa datata 9 aprile 1183. Solo molto più tardi, divenuta di proprietà della parrocchia, venne dedicata alla Madonna di Caravaggio, per non confonderla con la cappella denominata di "S. Maria sul monte di Serle". Il 16 marzo del 1793 gli abitanti delle due contrade di Manzanica e di Birana, ottennero il consenso di ingrandirla. Per tale scopo fu assegnato un tratto di "terreno arativo e vitato" di due piò, come appare dalla ducale di approvazione del doge Ludovico Manin, con allegato il progetto a firma di Giuseppe Boggia Delin (Arch. Vesc. Bs. Atto del notaio G. F. Guatta). Nelle varie visite pastorali, la cappella funse come luogo d'ingresso e di accoglienza per il Vescovo o per i suoi canonici vicari. La chiesetta non fu mai trascurata dalla popolazione che la restaurò in più riprese a proprie spese. È proprio di questi ultimi tempi l'ennesimo ripristino, sovvenzionato sempre dai fedeli di Manzaniga, Biciocca e Berana ed eseguito dal maestro di restauro A. Damonti che ha riportato all'antico splendore le tele settecentesche di buona fattura, il paliotto e il tabernacolo di legno policromo della seconda metà del sec. XVIII, la pala dell'altare e le statue lignee di S. Antonio da Padova e S. Francesco di Sales.




SS. ANGELI CUSTODI in fraz. SALVANDINE. Presenta un elegante portalino con timpano. All'interno, in alto, oltre la tela dell'altare, è collocato un Padre Eterno, scolpito in legno, colorato, di buona fattura, della fine sec. XVI o inizio sec. XVII. È certo anteriore alla chiesa e proviene da altra chiesa. In località Lazzaretto si trovava, sull'antica strada che congiungeva il centro di Serle con Ronco, un tempietto detto dei Morti del Lazzaretto, dedicato alla Madonna del Carmelo con un piccolo altare e un enorme cassone dove la tradizione locale vuole che vi venissero depositate le salme dei morti di peste poi sepolti in fosse comuni e coperte di calce viva. Il cassone in seguito veniva riempito di granaglie e anche di monetine. Il tutto veniva distribuito ai bisognosi e agli orfani. Il tempietto fu in venerazione fino agli anni '60 del sec. XX e colmo di ex voti. Non mancarono nemmeno le leggende fra le quali quella di passanti che transitando nei pressi venivano avvicinati e scortati da cagnolini fino alle proprie abitazioni, per impedire che i morti facessero loro del male. Del Lazzaretto rimane una santella con capitelli in medolo recanti scolpite due ossa incrociate. Nella nicchia una grande statua in legno della Madonna del Carmelo. Il paliotto dell'altare riproduce un quadro di Felice Bodei raffigurante le anime del Purgatorio.




S. GAETANO DI CASTELLO DI SERLE. V. Castello di Serle.




Una chiesa esisteva a Flina. Apparteneva ai monaci ed era incorporata in una loro casa. Di essa si vede ancora qualche resto.




S. BARTOLOMEO IN MONTE ORSINO. Costruita a 933 m s.l.m. sulle rovine dell'antico monastero ha sulla parete del presbiterio un vasto polittico attribuito dal Panazza a Paolo di Cailina il Giovane.




Un rifugio Cappella veniva costruito nel 1976 dagli alpini di Serle nel bosco ai piedi del Monte S. Bartolomeo. Un sacello votivo, a forma di imbocco della galleria, a S. Barbara costruito dalla Associazione Mutilati e Invalidi del lavoro fu inaugurato il 3 maggio 1981. Una piccola edicola in legno con una statua della Madonna detta Madonna della Vetta, opera dello scultore Fausto Armanti è stata collocata e inaugurata il 4 settembre 1993 sulla cima (m.1100 s.l.m.) della Cornalonga (detta anche Corna di Caino, ma in territorio di Serle). L'iniziativa venne dal "Gruppo dei baldi". Tra le altre santelle occorre ricordare: "La Madonna col Bambino e SS. Domenico e Chiara" al Lazzaretto; "La Madonna delle Grazie con suonatore di zampogna" in fraz. Ronco; una "Madonna" a Magrena; la Cappella dell'Alpino in località Belfiore. Da notare come la parrocchia, il Comune e l'ENAIP di Botticino si sono impegnati nel 1993 al recupero delle santelle nel territorio.




ECONOMIA. La ricchezza economica di Serle è costituita da boschi, prati, marmo, ecc. La più antica attività fu quella agricola, allo sviluppo della quale diede notevole apporto il monastero di S. Pietro in monte Orsino. Nei sec. XII - XIII l'agricoltura si basava oltre che sulla vite, il prato, l'arativo, il frumento, il miglio, la melica, (cioè il sorgo), e anche sugli olivi, e sul fieno. Ma prevalgono le risorse forestali, delle quali è particolarmente dotato il Monastero. I boschi forniscono legna da ardere, da costruzione, ecc. Frutta e verdura hanno poi avuto un ruolo di rilievo. Particolarmente apprezzati nel passato i "calem" (ciliegie) e specialmente le amarene. Le primaticce venivano da Berana e Manzaniga; un poco più tarde erano quelle di Salvandine, Ronco e Chiesa, particolarmente apprezzate quelle di Villa, Tesio e Castello. La loro produzione venne minata nel 1992 da una muffa. Tra i funghi i più ricercati erano gli ovoli (in dialetto "cucù"). Particolarmente apprezzate le castagne dette "marù". Molto apprezzati i bovini di Serle, tanto che la fiera che si teneva un tempo presso la chiesetta di S. Firmo, attirava mercanti fin dal Lodigiano. Altrettanto apprezzati i salumi confezionati in luogo. Nell'insaccatura si fece nome Giacomina Ancolli (Pariota). Notevole anche l'allevamento di pecore. Ai monaci di S. Pietro in Monte si deve il diffondersi della lavorazione della lana. In auge la caccia, fino agli anni '80. I capanni venivano banditi all'asta in una domenica di agosto. Ancora nel 1966 ne esistevano 140 tutti di proprietà comunale numerati e denominati ad uno ad uno con nomi suggeriti per lo più dalla località. Alcune uccellande vennero tutelate dalla Sovraintendenza ai monumenti. I roccoli si ridussero poi a una decina negli anni '70. Molti i castagneti minacciati dal 1948 da malattie asiatiche e salvate in parte da polline americano. Malattie che si ripeterono nel 1996 causate da un misterioso insetto, e dal cosidetto mal d'inchiostro che minacciò di farli scomparire, un'eventualità scongiurata affidando il risanamento ad una ditta specializzata di Trento (con una spesa di oltre 100mila lire per ogni albero salvato).


Risorsa notevole fu il carbone vegetale prodotto fino a poco tempo fa in grande quantità e ampiamente commercializzato. I carbonai di Serle rifornivano tutta l'Italia del Nord. La concentrazione della produzione era a Berana, la "carbonella" veniva usata per fusioni speciali, ma anche da massaie e cuochi. A tale attività un tempo si dedicavano le famiglie Bresciani, Benedetti, Bodei, Ancolli, Boifava. Dopo la II seconda guerra mondiale Serle cedette il primato del carbone di legna ad alcune zone del Lazio e della Toscana. L'attività venne limitata al commercio del prodotto mentre la produzione limitata alla valletta tra S. Bartolomeo e Ucia (dove veniva preparata la carbonella, il poiat) e per tale lavoro vennero assoldati stagionalmente carbonai di Bondone di Storo fra i quali specialmente i Cimaroli.


Il Da Lezze, nel 1609, elenca fra le "pietre di prezzo che si ricavano nel territorio bresciano i diaspri bellissimi d'ogni colore, et assai grandi" ma annota che "non si concede licenza di cavarli, se non con l'espressa concessione del Principe". Altra risorsa è ancora il marmo per il quale Serle, che con 728.000 mc. annui scavati viene solo dopo Nuvolera (con 934.000 mc.), prevale su Botticino (710.000 mc.). Solo al Castellaccio si estraevano nel 1992 ben 326.600 mc di marmo. Particolarmente apprezzato fu in passato quello roseo venato, suscettibile di bella lavorazione e lavorato per stipiti e camini. Marmi screziati a vari colori venivano cavati ancora nell'800. Minatori di Serle hanno lavorato in tutta Italia, nel Nord-Europa, in Egitto, in Asia. Nel 1970 a Magrena operava una piccola fabbrica di confezioni (Guatta), ed ora ve ne sono diverse altre con l'aggiunta di stirerie specializzate e colorifici. Dal 1956 al 1977 ha avuto incremento il turismo con diverse centinaia di villeggianti nel periodo estivo (Villa) e sono sorti alberghi e villette per villeggiatura. Del turismo locale furono pionieri i Sorsoli con l'albergo Bella Vista e gli Zanola con l'Hotel Stella Alpina. Tra gli altri alberghi frequentato il Belmonte. La cucina locale è rappresentata dalla trattoria Castello, dal Rifugio Valpiana, dall'Osteria dei Tre Cantù e dai nuovi agriturismo.




Fra i PERSONAGGI DI RILIEVO oltre ai ricordati si possono segnalare il libraio Giacomo Ragnoli (sec. XVII), gli organari Domenico Pedezzi e Andrea Ragnoli (sec. XVIII). Fra i più recenti il pittore Felice Bodei, lo sculture Paolo Festa, il musicista compositore p. Carlo Virgilio Bodei, la missionaria Rinalda Sorsoli, p. Andrea Italo Sorsoli, superiore generale dei Canonici dell'Immacolata Concezione, il capitano Carlo Sorsoli, il sindacalista Piero Lombardi, il tecnico Pietro Zanola che ha collaborato al salvataggio dei monumenti egiziani di Abu Simbel.




SINDACI. Don Pietro Boifava; Menasio; Ovidio Rossi (1882-?); Giacomo Boifava (1887); Graziadio Ragnoli; Carlo Sorsoli (1946); Mario Tonni (1947-1960 / 1964-1966); Angelo Benedetti (1960-1964); Giovanni Franzoni (1966-1990); Paolo Sorsoli (1990-1995); Oliviero Nicolini (dal 1995).