OSPEDALE Grande o Maggiore

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OSPEDALE Grande o Maggiore

Promosso a partire dal 1429, la prima pietra fu posta nel 1447. La nuova situazione politico-amministrativa creatasi anche nel bresciano con la supremazia di Venezia (1426), una maggior coscienza del servizio pubblico, l'urgenza di far fronte a sempre più devastanti epidemie e agli immensi e crescenti bisogni creati da continue guerre, carestie e calamità pubbliche, sollecitarono nel sec. XV la Chiesa bresciana, i poteri pubblici, le forze locali, i privati a compiere sforzi sempre più decisi per riorganizzare le forme assistenziali già esistenti e crearne di nuove. La spinta ultima alla creazione di un ospedale unico per tutta la città venne in seguito ad un'epidemia scoppiata a Salò nell'agosto dell'anno 1427 che costrinse le autorità cittadine a prendere provvedimenti. Il Consiglio Comunale ordinò che si trovasse una casa, attrezzata di letti, di inservienti, di medici, di un sacerdote e di ogni altra cosa necessaria per fronteggiare il caso che la peste raggiungesse Brescia. In più scelse tre consiglieri incaricati di controllare le entrate e le uscite degli ospedali e i loro beni per far fronte alle necessità future. Le cose si aggravarono nei mesi che seguirono e il 4 novembre 1427 il provvisore veneto Fantino Dandolo davanti al Consiglio cittadino rilevava la gravissima lamentela a lui giunta in quei giorni a riguardo degli ammalati e dei poveri, che non trovavano ospitalità alcuna, essendo l'ospedale della Misericordia stracolmo di mendichi e di infermi. Per il momento invitò a provvedere che venisse rimesso in ordine l'ospedale di S. Cristoforo. I consiglieri però non si accontentarono di palliativi e dopo vari pareri discordanti sulla unione degli ospedali più importanti della città, Bonifacio Belasi rilevò che sarebbe stata ottima cosa costruire un unico ospedale utilizzando le aree dei Consorzi degli Umiliati de Gambara e di S. Luca. Il Consiglio elesse quindi quattro «boni cives», con l'incarico «di presiedere a tutte le necessità dei bisognosi e vigilare sulle opere di misericordia da dedicare ai poveri, sulla restaurazione delle chiese e sul ripristino della vita religiosa. In modo particolare essi dovevano adattare il cenobio di S. Bartolomeo in ospedale per gli appestati (...) e infine fare le opportune riserve per costruire come a Siena un grande ospedale sulle case degli Umiliati e di S. Luca». L'idea di un grande ospedale cominciava il suo cammino. Nel frattempo veniva deciso di restaurare l'Ospedale di S. Cristoforo, abbandonato dalle Discipline, e di affidarlo alla Congregazione francescana perchè venisse unito a quello della Misericordia (27 dicembre 1427).


Doveva tuttavia intervenire il Consorzio di S. Spirito, che già aveva assunto dal 1424 l'amministrazione dell'ospedale di S. Maria della Misericordia, perché l'idea camminasse e si realizzasse. Anima dell'operazione dovette essere il Cancelliere comunale Francesco Malvezzi, già intervenuto con un elevato discorso nella seduta del Consiglio comunale il 4 novembre 1427. Si deve probabilmente a lui, autorevole esponente del Consorzio di S. Spirito, se il Consiglio comunale riunito il 22 settembre 1429 ebbe a votare la fusione di tutti gli ospedali della città e la costruzione di un grande unico ospedale sostenuto dai beni di tutti gli enti stessi. A lui certo si deve se tre giorni dopo (25 settembre 1429) i confratelli del Consorzio di S. Spirito e quelli della Congregazione di S. Domenico, si assunsero il compito di realizzare l'impresa. Esposta dal «rationator ducalis» Granolo de Gavardo la delibera comunale, fu il Malvezzi a perorarne la realizzazione, citando abbondanti frasi scritturistiche e portando soprattutto l'esempio di quanto si era già fatto, in proposito, a Firenze, Siena, Verona e Treviso. Per invogliare i confratelli egli assicurò che esistevano già i primi fondi per una somma di mille lire, avendo Pietro Belasi già lasciato 500 ducati, e si disse sicuro che sarebbero venuti presto molti altri denari sufficienti a dare inizio all'impresa. La proposta venne calorosamente applaudita e venne fissata definitivamente l'area per la costruzione dell'ospedale nella zona di S. Luca, ricca di acque, compresa tra due strade pubbliche atte a idonei accessi. L'assemblea raccomandò soltanto che per la nuova opera non venisse trascurata la raccolta delle elemosine per i carcerati, opera prima del Consorzio fin dalla sua fondazione, e che si continuasse a celebrare per essi la S. Messa all'altare di S. Bartolomeo in S. Nazaro. Da parte sua il podestà Tomaso Michiel fin dal 25 settembre 1429 dopo aver fatto presente l'intollerabile stato di cose nel quale venivano negati ai poveri il pane, l'assistenza, le medicine ecc. per fare dei beni ad essi destinati laute prebende di pochi signorotti, proponeva l'unione del vasto patrimonio degli istituti di assistenza in un «unicum corpus» cioè in una sola amministrazione. Nacque da questa proposta l'Ospedale Maggiore di Brescia, già incominciata l'anno precedente. Mentre il Consiglio Comunale spediva a Venezia Betino de Calepio per perorare l'assenso e il patrocinio del Doge (che pervenne con un ducale del 19 ottobre 1429), il Consorzio di S. Spirito portava avanti la fusione degli Ospedali di S. Alessandro, di S. Giovanni de Foris e della Domus Dei, che si aggiungevano a quello già incorporato di S. Maria del Serpente. Dietro suggerimento del Doge stesso, si mandò un incaricato al Padre Generale degli Umiliati perché concedesse il complesso di S. Luca, e l'anno dopo un approccio in tal senso venne compiuto anche presso gli Umiliati di Brescia. Con l'approvazione del Doge Francesco Foscari il 15 aprile prima ed il 19 ottobre poi del 1429, ebbe inizio la concentrazione in un solo organismo di tutti i piccoli ospedali parrocchiali. Il susseguirsi dal 1430 al 1440 di guerre e guerricciole tra Milano e Venezia, con conseguenti carestie e altri gravi travagli, compreso il tremendo assedio di Nicolò Piccinino del 1438, impedivano la continuazione del progetto. Del nuovo grande ospedale non si parlò che in una delibera consigliare del I giugno 1436 mentre tornavano ad essere affollati i vecchi ospedali.


Ritornata la pace, il problema del nuovo ospedale si impose con maggiore urgenza e venne riproposto da Cristoforo Bona il 10 gennaio 1441 in un'assemblea comunale di 500 rappresentanti della città, che approvò il progetto di una completa unione di tutte le istituzioni di beneficenza, esistenti in città, nel suburbio e nel territorio, (vocabolo col quale sì indicava quello che oggi si chiama «provincia», escludendo le valli e la Riviera che avevano uno statuto proprio) onde costruire un unico grande e decoroso edificio atto all'ospitalità, che si chiamasse e fosse «l'Ospedale Grande e Universale». Il doge Francesco Foscari dava la sua approvazione con ducale del 13 febbraio 1441 (more veneto 1440), impegnandosi da parte sua ad ottenere attraverso un suo ambasciatore l'indispensabile approvazione di Papa Eugenio IV. Il Papa non solo approvò ma anche lodò l'iniziativa, affidandone la direzione al nuovo vescovo di Brescia Pietro Dal Monte, che si prese a cuore l'impresa. Mentre si approntavano progetti e piani finanziari, il 17 marzo 1445 aveva luogo la fusione con il Consorzio di S. Spirito, che con la Congregazione di S. Domenico pilotava l'impresa, degli Ospedali della Misericordia e di S. Cristoforo, così che le istituzioni di beneficenza fuse in un corpo solo per dar luogo alla nuova opera, salirono a sette. Si erano unificati in pratica tutti gli enti che da almeno due secoli avevano gestito la maggior parte dell'assistenza a poveri, malati, carcerati, esposti, pellegrini, viandanti, o comunque bisognosi di aiuto. Nell'ottobre 1445 venne superato un nuovo ostacolo sorto dal contrasto tra il vescovo Dal Monte, che rivendicava, come vescovo, il diritto di controllare tutti e tutto e di esaminare e far esaminare registri e preventivi, ben deciso a far valere i propri diritti anche presso il Papa, e i confratelli del Consorzio di S. Spirito e di S. Domenico che non volevano ciò, perchè contrario al diritto e alla tradizione. Con la buona volontà si giunse ad un compromesso: ogni anno sarebbero stati eletti tre confratelli che, previo giuramento nelle mani del vescovo, dovevano riferire a lui tutti i conti dell'anno. Qualora in tali occasioni il vescovo avesse rilevato mancanze, sarebbe potuto intervenire presso il colpevole. Eliminati questi ostacoli, il 12 dicembre 1445 i confratelli del Consorzio di S. Spirito inviarono subito a Roma un loro rappresentante, il padre domenicano Vincenzo di Orzinuovi, per chiedere al Papa la bolla di approvazione e alla Congregazione toscana dei Canonici Lateranensi, che nel frattempo era succeduta agli Umiliati nella proprietà del complesso di S. Luca, la sua cessione al Consorzio bresciano. Fu lo stesso Papa Eugenio IV a rompere gli indugi e a concedere S. Luca, per il quale il Consorzio pagò ai Canonici 400 fiorini d'oro, ottenendo anche la concessione (con bolla del 7 maggio 1446) della canonica suburbana di S. Salvatore. Il 2 novembre 1446 il vescovo Pietro Dal Monte era così in grado di consegnare ai confratelli di S. Spirito della Congregazione di S. Domenico la casa di S. Luca. Questi, bruciando i tempi, pochi giorni dopo costituivano «una commissione di cinque membri del loro Consorzio, scelti fra i cittadini più autorevoli ed eminenti, i quali dovevano sovraintendere ai lavori e al buon andamento della fabbrica del nuovo ospedale». Risultarono eletti Giovanni Avogadro grande giurista, il notaio Giustacchino Ugozzoni sindaco del Consorzio, e i nobili Betino Calini, Francesco Bona e Antonio Poncarali. A questi cinque commissari fu data «piena e assoluta autorità di deliberare, far contratti, disporre di tutto il necessario per la nuova fabbrica che doveva essere iniziata e condotta a compimento con sollecita cura, tanto più che in città continuavano a serpeggiare febbri ed altre malattie di forma epidemica». Papa Eugenio intervenne ancora, con breve del 10 novembre 1446, per concedere l'indulgenza plenaria in articulo mortis a quanti si fossero prestati gratuitamente alla costruzione del nuovo grande ospedale. Finalmente il 26 marzo 1447, con cerimonia solennissima alla presenza di grandissima folla, il vescovo Pietro Dal Monte pose la prima pietra, e dichiarò di non voler accampare diritti nè per il presente nè per il futuro sul nuovo ospedale, oltre a quelli che gli spettavano come pastore della Chiesa bresciana. La cerimonia e le dichiarazioni del vescovo vennero minutamente descritte in un atto notarile del notaio del Consorzio, Marco de Lothis. Per incoraggiare l'impresa il vescovo concedeva anche 40 giorni di indulgenza ai visitatori, a coloro che avessero dato aiuto all'edificazione dell'edificio e agli ammalati che vi sarebbero stati ospitati.


Sotto la guida del massaro nob. Betino de Calino, del ministro del Consorzio di S. Spirito nob. Giovanni Belasi, dell'avvocato Nicolò Pedrocca, dei cinque deputati alla fabbrica e di numerosi consiglieri, la fabbrica procedette rapidamente. Ciò fu reso possibile da numerose elargizioni e interventi del vescovo e del Comune: «Il Vescovo, col permesso della Santa Sede, deliberò che tutti i legati fatti per causa pia fossero devoluti al nuovo ospedale in qualunque parrocchia fossero stati fatti. Il Comune impegnò subito per la nuova costruzione 50 ducati e tutto ciò che fosse avanzato dalle spese militari. Dal repertorio delle Provvisioni di S. Spirito ci è data notizia di un elenco di varie persone pie che nell'aprile del 1447 fecero offerte di denaro ed altro per la fabbrica del nuovo ospedale grande». Il vescovo per di più univa all'ospedale in costruzione gli ospedali di Quinzano e di Seniga (30 dicembre 1450), l'ospedale di S. Marco di Coccaglio (4 maggio 1452), e quello di S. Bartolomeo (19 maggio 1452) dove ancora sarebbero stati ospitati lebbrosi e appestati. E ancora nel giro di pochi decenni vengono aggiunti i beni del priorato di Verziano (9 sett. 1452), delle Prepositure di S. Maria de Gambara (15 febbraio 1454), dell'Ospedale della Pera (27 aprile 1454), di S. Bartolomeo di Orzinuovi (20 febbraio 1456), del Priorato di S. Pietro di Azzano (30 ottobre 1511), dell'Ospedale di S. Antonio Veronese (27 aprile 1537), di S. Marco del Garda (1522). I lavori di ristrutturazione e di costruzione di ambienti nuovi durarono circa cinque anni. Il 13 agosto 1452 già venivano trasferiti nel nuovo ospedale con grande solennità «essendo stati in quel giorno levati tutti i poveri malati che erano all'altro ospedale della Misericordia, furono portati processionalmente ove erano tutte le discipline e regole dei frati, con trombe e pifferi, e tutti erano portati in barra ognuno per sè e furono accompagnati da una grande moltitudine di cittadini e popolo e donne e tutti furono messi in quei letti netti e puliti». Il nuovo istituto prese il nome di «Ospedale di S. Spirito e di S. Luca della Misericordia», ma fu a poco a poco chiamato semplicemente «Ospedale Grande». Gli fu dato come stemma «una colomba portante nel becco un ramoscello d'ulivo, sotto la sigla M.I.A. e più sotto due ceppi da prigionieri», il cui significato venne interpretato: «la pace si basa sulla carità cristiana che solleva i poveri, cura gli ammalati, riscatta gli schiavi e i carcerati. La sigla dovrebbe significare la parola "misericordia" inclusa anche nel titolo liturgico dell'ospedale nuovo».


Con ragione il cancelliere Malvezzi nel 1448, mentre stendeva l'elenco delle opere nuove che erano sorte in città, scriveva con enfasi «hospitale magnificum et amplium ac decorum, qua nulla alia in toto latio fabrica magnificentior, ornatior et amplior... quo nullum in Italia pulcrius». Parole che il podestà veneto riprendeva nel 1455, in occasione di una minaccia incombente sul finanziamento dell'opera «credo che in nessuna città d'Italia e anche fuori d'Italia vi sia un ospedale più bello...». Si vede che questa è una bella tradizione fra i Bresciani. Il nuovo edificio servì come esempio ad altre simili costruzioni, dato che il 12 aprile 1456 i deputati alla costruzione e all'amministrazione dell'Ospedale Maggiore di Milano scrivevano ai dirigenti del nuovo ospedale di Brescia per chiedere consigli di ordine finanziario e tecnico e informazioni generali per la buona riuscita della loro opera. Più tardi addirittura inviavano a Brescia, per raccogliere notizie e riferirne celermente, un loro deputato, Giovanni Moneta. Nel 1458 l'opera richiamò l'attenzione di Pio II che con bolla del 15 gennaio 1458 concedeva indulgenza ai curatori e benefattori del nuovo ospedale. L'ospedale venne governato per alcuni decenni dal Consorzio di S. Luca e dalla Congregazione e Università dei confratelli laici di S. Domenico che scelsero tra loro i rettori e gli amministratori dell'Ospedale stesso. Veniva assunto anche personale avventizio come medici, chirurghi, farmacista (detto allora aromatario o speziale), cancelliere. Un regolamento peraltro molto vago venne adottato nel 1478 con la sanzione del Consiglio Generale dei Confratelli di S. Domenico e del Consorzio di S. Spirito. Revisionato circa un secolo dopo, lo statuto venne dato alle stampe nel 1573. Invalse presto l'uso di esporre all'Ospedale Maggiore bambini illegittimi o abbandonati e con lettera apostolica del 19 dicembre 1507 si decretava l'assoluzione dalla scomunica per coloro che li esponevano. Nel 1519 assommavano ad 800.


Sviluppo all'assistenza sanitaria venne nel 1523 dalla costituzione del collegio dei medici, con l'adozione di statuti che regolamentavano l'iscrizione dei neolaureati. L'ospedale non accolse solo infermi ma anche ammalati cronici. Dal 1532 ospitò anche gli orfani raccolti da S. Girolamo Emiliani. Gli esposti stessi salirono fino a 300-400 l'anno; essi venivano allevati e avviati ad un mestiere. In più accolse i pellegrini ospitandoli per alcuni giorni. Cessata tale assistenza si distribuirono medicine gratuite e vivande agli accattoni, ai poveri e ai carcerati della istituzione, grandemente accresciuta per le offerte, i legati, i lasciti dei privati, per le mensili oblazioni dei «confratelli», per le rendite delle proprietà fondiarie; permetteva, inoltre, di mantenere agli studi giovani degni di aiuto, di sussidiare sacerdoti per l'assistenza religiosa, di disporre elargizioni, sovvenzioni fisse ed occasionali, elemosine. Nel 1524 venne istituita all'interno dell'Ospedale la Spezieria, aperta anche ai cittadini. Nel frattempo viene aperto l'Ospedale degli incurabili (v.).


Come ha scritto Marcello Zane l'esperienza accumulata in un secolo di assistenza ospedaliera accentrata in un'unica struttura e il temporaneo placarsi delle pestilenze e della lebbra in particolare, inducono gli amministratori dell'Ospedale Maggiore ad un cambiamento radicale delle funzioni dei due ospedali. Nel 1548 mentre l'Ospedale Maggiore accoglie i soli uomini (curabili e incurabili e infanti esposti) l'Ospedale degli incurabili si trasforma in ospedale delle donne. Al contempo viene potenziata l'assistenza. Alla fine del sec. XVI venne eretta con l'unita chiesa della Pietà la bella infermeria dell'Ospedale delle donne che accanto alla chiesa accolse anche le orfane. Come ha rilevato Piero Bordoni, l'assistenza e le prestazioni sanitarie non potevano essere che di poco conto, adeguate alle possibilità ed alle modeste esigenze dei tempi; ne abbiamo sufficiente cognizione da due documenti che, per molti anni, rappresentarono lo statuto (1573) e il regolamento (1615) del pio luogo, subendo in seguito non sostanziali modifiche se si escludono quelle della seconda metà del secolo scorso. L'organico era all'inizio formato da 11 persone, di cui 2 soli medici (1 fisico e 1 cerusico). Dopo un secolo il personale sanitario fu portato a 4 (3 fisici e 1 cerusico) e quello di assistenza venne più che raddoppiato, mentre comparivano la «priora delle donne», le «balie», il «governatore dei putti» i «visitatori, gli esposti e l'accademia dei putti». Fino al XIX secolo, pur tenendo conto delle opere di riordino del 1742, l'attrezzatura e l'assistenza non devono avere subìto sostanziali miglioramenti. Lo stesso Bordoni per dare un'idea della modestia delle prestazioni e delle attrezzature, nonchè della mentalità nel campo dell'assistenza richiama i seguenti esempi: nel 1628 si sospende l'accettazione dei casi di «mal franzoso» per mancanza di locali di isolamento; nel 1678 si vieta ai medici ospedalieri di introdurre giovani praticanti; nel 1763 si riconosce inammissibile la degenza in promiscuità (perfino nello stesso letto!) dei tisici con ammalati di forme diverse; nel 1777 si aumenta fino a 36 scudi lo stipendio annuo del «cavasangue»; nel 1789 si delibera «la factura di sopravesti di tela nera per i chirurghi e che in proseguo siano mantenute a spese dell'ospedale». Infatti i regolamenti stilati nel 1568 per l'«Hospitalis magni magnifica civitatis Brixiae» registrano un notevole impulso impresso dagli amministratori nel revisionare e potenziare l'attività medico-sanitaria; i medici divengono quattro ed il personale preposto all'assistenza risulta raddoppiato, ed accanto a fornai, cantinieri e «prioretti» della cucina compaiono anche la balie e il «governatore» del reparto minorile. Ma se per l'Ospedale Maggiore di S. Luca la divisione diviene sinonimo di acquisita efficienza e stabilità economica, lo stesso non si può affermare per l'Ospedale delle Donne. Quest'ultimo infatti risultò penalizzato dalla suddivisione del patrimonio comune, navigando spesso economicamente in cattive acque. Le precarie rendite garantite dall'esiguo patrimonio gravarono nel corso dei secoli sull'amministrazione dell'Ospedale delle Donne, che non trovò a volte di meglio, venute meno anche la beneficenza e la pubblica elemosina, che dimettere ed espellere parte delle ricoverate incurabili. A scongiurare questo pericolo non basteranno nel corso degli anni le deliberazioni cittadine intese a non gravare di tasse i beni ospedalieri «affinché tutto intero il ricavato dei beni potesse venir applicato al soccorso» o a non elencare fra i beni estimati dal catasto del 1641 i terreni ed i fondi di sua proprietà affinchè «non soggiacessero ad alcun pubblico gravame e solo venisser censiti qualora passaser ad altri proprietari».


Altro problema gravoso fu quello degli esposti e dei lattanti che l'Ospedale accoglieva. Spesso questi rimanevano all'interno dell'Ospedale fino all'adolescenza, venivano educati da almeno quattro sacerdoti e utilizzati per piccoli servizi per poi essere avviati al servizio di famiglie facoltose. Un'ordinanza del 1644 su quest'argomento stabilì che "tutti li figlioli dell'Ospital grande di Brescia, che in qualsivoglia modo potrà rimaner giustificato o con note dell'Ospitale, o in qual si sia altro modo che siano non legittimi, andando ad abitare nelle terre del Territorio, ed esercitando arte meccanica o manuale, s'aspettino e contribuischino col territorio, tutti gli altri figlioli del medesimo ospitale s'aspettino alla città». Un tentativo insomma di garantire un aiuto agli illegittimi ospitati nel nosocomio della città. Le gravi difficoltà causate da guerre, pestilenze, saccheggi e per la crescente crisi economica, compromisero la vita dei due ospedali. Solo in parte poterono arginare tutto ciò erogazioni e lasciti fra i quali ricordiamo quelli Rana, Bargnani e Cazzago.


L'organizzazione dell'Ospedale nei primi decenni del sec. XVIII è regolamentata dagli "Ordini e Statuti dell'Ospital Maggiore di Brescia" riformati dal Consiglio Generale dell'Ospedale stesso il 9 maggio 1723, riconfermati il 13 - 14 maggio 1725 e pubblicati da Policleto Turlino nel 1727. I primi dati che colpiscono sono la ricca articolazione degli organi direttivi e la accurata differenziazione del personale, che in sostanza non hanno troppo da invidiare a quelli dei nosocomi più moderni.. per l'Ospitai Maggiore bresciano risultano infatti impegnati, oltre ai 101 «confratri» appositamente eletti, un priore, un governatore, sei presidenti, un consiglio speciale e uno generale, due sindaci, due visitatori, dei «deputati alle permute», sacerdoti, medici, un cancelliere, un «ragionato» (cioè un ragioniere), altri «ministri» (o funzionari) uno «speciale» (il farmacista), un infermiere e un sottoinfermiere coadiuvati da «servitori», un commesso, dell'Accademia dei Putti, balie, «putti e putte», un «sollecitatore o attore» (incaricato di agire sui debitori), un «coadiutore», un archivista, un cassiere, un dispensiere, un fattore, un fornaio, un macellaio, un cuoco, un cantiniere-stalliere, un sacrestano e, per terminare, dei portinai. Ognuno ha compiti ben precisi e sottostà a controlli meticolosi eseguiti da superiori in grado di infliggere sanzioni non indifferenti, da pene pecuniarie all'immediato licenziamento: come risulta, la Serenissima era anche severissima. L'ospedale è riservato esclusivamente a veri malati, ma ogni infermo ricoverato ha diritto ad un'assistenza adeguata. E, per accertarsi che i precetti non restino nel limbo delle solite buone intenzioni, vengono stabilite due norme fondamentali: i presidenti sono tenuti a visitare periodicamente l'infermeria «intendendo con diligenza dalli Infermi a che modo vengono trattati dall'Infermiero e Servitori»; inoltre ogni paziente in dimissione ha l'obbligo di presentarsi al governatore il quale deve «intendere da lui a che modo è stato trattato dalli Ministri di esso Ospitale, acciòcchè li Infermi siano tenuti dalli suddetti in rispetto». Ai medici viene prescritto il compito di visitare i ricoverati almeno due volte al giorno ordinariamente, salvo i casi di maggiore necessità.


Tra la fine del' 700 e gli inizi dell'800 sebbene la medicina non avesse fatto progressi di rilievo si registrarono tuttavia tentativi di riordinamento dell'assistenza ospitaliera. Nel 1797 si ebbe l'istituzione di due Ospedali nazionali, con un incremento del loro patrimonio, promossi dal Governo Provvisorio Bresciano con decreti del 12 maggio, 13 ottobre e 2 novembre 1797. Vennero per questo utilizzati i beni espropriati agli Ordini religiosi specie di Rodengo, S. Eufemia, S. Giacomo di Rezzato e Verolanuova. "Ma, come rileva Marcello Zane, siamo di fronte ad una moderna forma di beneficenza". Infatti perdono la propria autonomia amministrativa e in materia di direzione sanitaria, che passa, con la riserva della nomina dei principali dirigenti, nelle mani dell'autorità governativa. Viene inoltre richiesta l'istituzione di una sezione da adibire ad infermeria per i pazzi, reparto siano ad allora assente nell'Ospedale Maggiore poichè non previsto dallo statuto. Viene adibita nel 1797 a questo scopo una grande sala con 20 letti, che raccoglieva solamente i malati ritenuti più pericolosi e che sino ad allora venivano rinchiusi in una torre del castello. Come rileva Antonio Sabatti l'Ospedale civile viene dotato di due cliniche, una di medicina ed una di chirurgia, disposte nei tre bracci della Crocera di S. Luca per complessivi 300 letti. Sale apposite vengono destinate agli infettivi e celtici. Continuava a funzionare la farmacia per gli ospedali ed i poveri della città. Una vera rivoluzione arrivò dal Governo provvisorio quando, nell'ottobre 1797, istituì un Ospedale dei pazzi con venti letti e un Ospedale delle donne con dodici letti, rispettivamente aperti nell'Ospedale maggiore e in quello delle donne. Come sostiene lo stesso Zane è di questi anni «il graduale cambiamento dell'ospedale da luogo di ricovero e attesa a luogo di cura e in alcuni casi di prevenzione. Nel 1800 per esempio viene istituita presso l'Ospedale delle Donne la prima sala maternità, sino ad allora interamente dominio della famiglia e della levatrice più o meno esperta». Con decreto del 4 settembre 1801 viene aperta una nuova Spezieria poi chiusa nell'agosto 1821.


Nei primi anni dell'800 l'Ospedale Maggiore è articolato in due settori: medicina e chirurgia. Nonostante gli accresciuti cespiti, versa però sempre più in grave disavanzo così da provocare nel 1809 e 1810 ripetuti interventi del ministro dell'interno del regno d'Italia, Vaccari. Come afferma Marcello Zane «nonostante il progredire della scienza medica e delle oggettive condizioni di assistenza ai ricoverati, la percentuale della mortalità registrata presso l'Ospedale Maggiore si attesta nella prima metà dell'Ottocento intorno al 10 per cento, raggiungendo nel reparto dei fanciulli punte del 30 per cento. Pur registrando migliaia di ricoveri l'anno, il personale medico occupato presso l'ospedale risultava composto da soli quattro medici ed un chirurgo, che si vedevano addossare in pratica l'intera conduzione sanitaria del complesso, che era andato a mano a mano allargandosi sino ad ospitare il brefotrofio e, dal 1833, il reparto maternità sloggiato dall'Ospedale delle Donne. Una situazione che si andrà facendo via via insostenibile, soprattutto a causa dell'inadeguatezza dell'edificio di San Luca, che a distanza di quasi quattro secoli, pur fra mille rimaneggiamenti, mostrava tutti i suoi limiti. Per far fronte poi a nuove necessità assistenziali specie riguardo agli esposti ed ai mentecatti raccolti nel brefotrofio e nei manicomi, il governo austriaco dal 1818 al 1851, si trovò ad affrontare fortissime passività. A questo poi si aggiunse il grave incendio avvenuto il 5 aprile 1819 che, domato solo dopo sei ore, distrusse tutta l'infermeria e vari locali. Ludovico Bettoni in un suo diario annotava "che se il trasporto non fosse stato sollecito degli ammalati più gravi, sarebbero periti tutti soffocati". Nel 1831 per evitare lo spettacolo miserevole del trasporto dei malati, veniva eretto un muro di cinta da un angolo all'altro della piazzetta S. Luca. Ad affrontare il crescente deficit, contenere le spese e sanare il bilancio, intervengono in questo periodo le autorità amministrative fra le quali il nob. Clemente Di Rosa. Durante l'Ottocento l'istituzione completa la trasformazione già iniziata: abbandona le varie forme di assistenza e limita la propria attività alle malattie acute. Cresce il patrimonio grazie a donazioni e lasciti. Si qualifica sempre più il personale infermieristico e soprattutto si impone il trasporto dell'ospedale in una nuova sede (v. Ospedale o Ospitale Nuovo) individuata nel convento di S. Domenico.