MEANO

MEANO (in dial. Meà)

Paese a poco più di 2 km ad E di Pompiano a m 95 s.l.m. È frazione di Corzano dal quale dista 1,6 km. Il paese è nella regione dei fondi romani. Il nome Aemilius figura in più di dieci lapidi scoperte nel Bresciano. L'Olivieri, quanto al nome, si è riferito al nome di un Aemilianus, mentre Carlo Battisti ha affacciato l'ipotesi che possa derivare, per elisione, da "meta" più "anu" per catasta, "luogo dove si ammucchia il grano", "pietra di confine". Nel sec. XV è nominato come Meyano. Nell'antichità gravitò su Cassivico. Il territorio è percorso dalla seriola Provaglia che nasce a Corzano nelle vicinanze della cascina Bissi (al Montegiardino) e finisce nell'Oglio a Monticelli d'O., dalla roggia Cassivico che scorre tra Meano e Bargnano e finisce nel vaso Rivoltella, dalla roggia "Strone" che nasce a Meano, forma il laghetto di Scarpizzolo e continua per Verolavecchia. Le sue origini sembrano risalire ai tempi di Roma quando il territorio tutto o in parte venne assegnato ad un legionario romano forse di nome Emilio che vi costituì un fondo detto fundus Aemilianus, diventò poi per contrazione Meianus e poi Meano che il suffisso prediale "ano" indica chiaramente. Gli studiosi indicano in Meano l'incrocio dei limites delle centuriazioni e lo dicono sfiorato dal tredicesimo cardine. Spopolato nei secoli delle invasioni barbariche il territorio ricominciò a rivivere grazie ad uno o più monasteri benedettini. Probabilmente fece parte di quell'ampio territorio che nel 1117 il canonico Ottone Sala donò, con altre località e fondi, al monastero di Cluny. Passò poi nell'ambito dei beni vescovili e poi di quelli del capitolo della Cattedrale. Il che ha fatto scrivere a Paolo Guerrini che «è probabile che anche Meano sia stato nel medioevo un feudo ecclesiastico, forse vescovile, e potrebbe esserne un indice sicuro il vedere quelle terre infeudate alla potente famiglia Avogadro». Alla fine del sec. XV forse progettato dal celebre Pietro Avogadro, chiamato per il ruolo coperto in servizio di Brescia «il padre della patria», venne costruito il castello, probabilmente edificato in parecchi anni dai suoi figli e specialmente da Luigi Antonio, anch'egli figura di primo piano nella storia bresciana. Il castello e i fondi di Meano passarono poi di figlio in figlio ad Antonio Maria, a Francesco (n. 1526), ai fratelli Pietro (1572-1607) e Roberto (1579-1609), ad Emilia (a. 1600) figlia di Roberto, che sposò prima Gaspare Antonio Martinengo Colleoni e alla morte di questi Bartolomeo Martinengo Colleoni, il cui figlio Roberto ereditò il castello di Meano. Alla morte di questi avvenuta nel 1707, il castello passò ad una sua figlia, Emilia, che aveva sposato il conte Giovanni Martinengo Villagana. Attraverso nuove parentele il castello e i beni di Meano andarono a Marianna sposa al conte Venceslao Martinengo Palatino che assunse il predicato di Villagana, e da questi al figlio Carlo (n. nel 1762). Divisasi la proprietà di Meano tra i figli di questi Venceslao e Ferdinando, e passata in parte al notaio Bortolo Galunti, venne nel 1872 comperata dall'agricoltore pavese Angelo Bozzi. I Bozzi provvidero a svilupparvi la produzione agricola con nuovi capitali e con metodi nuovi. Quando una banda di ladri uccise nel 1885 Angelo Bozzi mentre percorreva una via di campagna con il suo calesse, il figlio Gildo appena sedicenne, interrotti gli studi, con l'aiuto della famiglia, prese in mano le redini della grande azienda agricola riuscendo a continuare l'opera di bonifica, a costruire cascine nuove e a sviluppare l'agricoltura. Nei primi decenni del '700 il cav. Federico Mazzuchelli acquistava la casa già di proprietà della contessa Barbara Fenaroli. La scuola elementare venne eretta per interessamento di Letizia Bozzi Tosini. Attiguo è l'asilo sorto nel 1912, affidato alle Suore Dorotee di Brescia. Per iniziativa e a spese della famiglia Bozzi, su progetto del geom. Belpietro vennero eretti un nuovo edificio scolastico e un nuovo asi lo, inaugurato il 2 ottobre 1932 e dedicato ad Ermenegildo, Marcellina e Angiolino Bozzi.


Ecclesiasticamente appartenne alla pieve di Brandico, probabilmente di origine monastica e più precisamente come si è ricordato cluniacense, passando poi nell'ambito dei beni del capitolo della cattedrale dalla quale il parroco ritirava ancora nel 1572 gli oli santi. Sembra che la prima chiesa sia sorta nel fondo ora denominato Breda dei morti. La parrocchia sorse a metà del sec. XV quando Pietro Avogadro ottenne di riunire insieme i pochi fondi della cappella di S. Maria di Cassivico e della cappella di S. Martino di Trignano (piccola terra fra Pedergnaga e Scarpizzolo), e con essi costituì la dotazione della nuova chiesa parrocchiale di S. Maria della Stella da lui eretta in Meano. La costituzione avvenne per decreto vescovile del 12 luglio 1457, e nel medesimo tempo lo stesso conte Avogadro ottenne dalla S. Sede il diritto di patronato sulla chiesa e sulla nomina del parroco per sé ed eredi in perpetuo . Il diritto di patronato fu esercitato dagli Avogadro fino al 1666; pel matrimonio della contessa Emilia Avogadro col conte Bartolomeo Martinengo-Villachiara passò per un secolo negli eredi Martinengo, e sulla fine del sec. XVIII nelle due sorelle Marianna e Ottavia qm. Giovanni Martinengo; dalla prima passò per una metà nella famiglia del conte Venceslao Martinengo-Villagana, e dalla seconda per un'altra metà nei conti Griffoni di S. Angelo, di Crema, e da questi per legato nel P.L. Convertite indi nell'Ospedale Maggiore di Brescia. In seguito alle suddivisioni avvenute tra i Martinengo e all'alienazione da loro fatta dei fondi in Meano sorsero controversie fra i Patroni circa l'onere di mantenere la chiesa e di pagare il parroco: onde per convenzione del 4 maggio 1845 tutti i patroni cedettero al Vescovo il giuspatronato sul beneficio, che divenne di libera collazione, e pagarono alla fabbriceria di Meano un capitale complessivo di L. 7000 per essere liberati anche dall'onere della manutenzione della chiesa. La chiesa dedicata a S. Maria della Neve era nel 1566 quasi del tutto diroccata tanto che il vescovo Bollani decretava che venisse distrutta. Riparata nel 1572 era dedicata a S. Maria della Stella, tornando poi alla antica dedicazione di S. Maria della Neve. La chiesa attuale conserva eleganti linee secentesche o settecentesche, salvo il campanile malamente rifatto. La tradizione vuole che sia stata costruita da una pia contessa Martinengo Villagana e, vuole ancora, che racchiudesse tesori d'arte quali affreschi strappati o sostituiti, mobili di pregio, lampade preziose e perfino un organo con canne d'argento. Particolarmente belli l'altare maggiore e le balaustre. Il 22 maggio 1921 vi veniva eretta la Congregazione del Terz'Ordine francescano che raccolse subito 50 soci. Del primitivo castello rimane la torre quattrocentesca poi incorporata nelle due grandi cortine murarie cinquecentesche racchiudenti il fabbricato. Rimangono anche tracce di un fossato. Presentano caratteristiche cinquecentesche toscaneggianti anche la scala esterna nel cortile, il loggiato ed il portico; la medesima fattura del resto, si nota nella lavorazione del mattone e nello stile di alcuni affreschi in una antichissima sala dell'interno. I capitelli alle colonne del portico, oltre alle aquile dei Martinengo portano scolpiti nella pietra altri stemmi di antiche casate alle quali, evidentemente, appartenevano le nobili spose entrate a far parte della famiglia. Della primitiva costruzione rimangono tracce del ponte levatoio, merli ora coperti e locali vari. Anticamente era a pianta quadrangolare con torri angolari e cortili interni. Di esso ora si conserva un solo lato. Nel 1609 il Castello veniva descritto come "circondato da muraglie col ponte levatoio et fosse attorno, di circuito di passi 200 entro al quale vi sono case comodissime l'alloggiamento de' patroni". "Bellissima dimora signorile", definisce Fausto Lechi questo "palazzo costruito in forme di castello". Del primitivo palazzo, scrive ancora il Lechi, sono rimasti due lati: quello verso strada, prospiciente a sera e quello di mezzodì verso il giardino. All'estremo del lato di ponente vi è un rivellino più che una torre con la porta che un tempo era chiusa da un ponte levatoio: tutto attorno infatti vi girava una fossa, alimentata da una delle copiose rogge che passano nel territorio, fossa che verso mezzodì lasciava, a ridosso del castello, leggermente elevato, un po' di sedume «un puoco de giardino». Un'altra torre, non a forte rilievo, forma lo spigolo di sud-ovest e fra le due torri la facciata porta quattro finestre allungate con arco a tutto sesto, ornate da una deliziosa cornice in cotto, con fregi a basso rilievo, molto simili a quelle dei coevi palazzi cremonesi. Particolare, commenta il Lechi, di molto buon gusto poiché una cornice in pietra non sarebbe stata molto intonata. In alto, sotto la gronda del tetto, sono segnati, a sbalzo, i merli ghibellini, sui quali non si appoggia la travatura scoperta del tetto ma corre una cornice di mattoni posti a mensola. Il palazzo doveva girare con le medesime forme anche lungo il lato verso mattina e concludersi con una torre simile alla esistente e che oggi si scorge in parte, incorporata nel fabbricato posteriore. Il lato a nord e parte di quello a sera, con relativa torre, non vennero mai costruiti ed al loro posto vi sono dei fabbricati rustici. Il grande cortile ha il lato verso ovest molto interessante. Vi sono in esso cinque arcate di portico a tutto sesto con colonne agili in pietra e capitelli fogliati: il primo e il terzo portano lo stemma Agovadro con lo scudo a testiera di cavallo e un altro le iniziali L.A. (Luigi Avogadro), il terzo stemma è dei Martinengo. Sopra il portico una loggia con undici archi con colonne e capitelli simili ai precedenti. L'undicesimo arco è fatto per accogliere l'arrivo della scala coperta che si appoggia, semplicissima, al lato di sera. Sul lato di mezzodì, in asse con l'ingresso vi è un arco, con colonne e due piccoli vani laterali, che dava accesso a un androne (oggi chiuso da vetrate e ridotto a sala) per passare nel cortile rustico o fattoria che si svolge subito, a ridosso del palazzo sul suo lato di mattina. Sull'arco vi era un grande stemma dipinto, del quale non rimane oggi che una tronfia corona principesca, invero inspiegabile. Sul lato a mezzogiorno, che il Lechi ritiene rimaneggiato nel sec. XVIII dai Martinengo, si entra per un androne in un cortile rustico o fattoria nella quale venne ricavata una scala ed alcuni locali con alcuni soffitti originari ed una sala con tavolette dipinte di gusto del primo Cinquecento, un camino con fregi in cotto. La sala accanto è decorata con gusto della fine Ottocento. Per un'altra scala si sale ad una baltresca. A pian terreno si apre un'altra sala e accanto quello che il Lechi dice "il locale più notevole del castello, anche se molto guastato" descritto nel 1860 dal Gelmini come ricco di stemmi degli Avogadro e dei Martinengo, e di lubriche scene e fantastiche figure che invece non sono, secondo il Lechi, che elementi di pittura cortese nell'ambito del Ferramola. Non mancano leggende di pozzi irti di lamine. L'economia fu sempre solo agricola. Abbondanti il frumento, il granoturco e i foraggi. Nel 1609 i terreni erano "mediocri", "in parte (buoni) e in altri cattivi". Gli abitanti erano tutti affittuari e lavoranti della campagna. Vi erano 24 paia di buoi, 16 paia di cavalli e 12 carri. Una grande fattoria, dunque, e tale rimase poi per lunghi decenni. Vi esisteva un molino con due ruote, mosso dalle acque della seriola Provaglia e i cui ultimi proprietari furono i Piva. I Bozzi sviluppando l'agricoltura del luogo realizzarono una delle più grandi e moderne stalle della provincia, inaugurata il 25 novembre 1895.


Parroci: Antonio da Vailate, cremasco (nominato 6.6.1496); Matteo di Dello (de Ello) sac. (m. 1497); Bartolomeo Campana di Erbusco (n. 16.11.1498 - m. 1523); Battista Astori di Orzivecchi (n. 3.10.1523 - m. 1542); Agostino Ceresoli, bergamasco (n. 17.10.1542 - m. 1565); Giov. Antonio de Triassis di Bargnano (n. 12.5.1565); Francesco Stramazzi di ... (n. 7...1582 - prom. a Corzano); Bernardino Beltrami di Manerba, veronese (n. 24...1599 - 1612); Francesco Tappi, cremonese (n. 27...1612 - m. 1630); Gaspare Carboni ... (m. 1630); Giambattista qm. Fachino Vailati, cremasco (n. 4.12.1630); Stefano Amadone (rin. 1640 circa); Francesco Sghiano di Soncino, cremonese (n. 1.9.1643 - rin. 28...1656); Bartolomeo Riccioli Treganio di Mornico, bergamasco (n. 3.6.1658 - m. 23.5.1658 appena ordinato sac.); Giambattista Plebani di Villongo, bergamasco (n. 13.8.1659 - m. 26...1665); Antonio Vescovi di Palosco (n. 28...1665 - rin. subito); Francesco Clerici di Sulzano (n. 13...1666 - rin. 1673); Francesco Baglioni di Brescia (n. 2.10.1673 - rin. 24.7.1680); Giuseppe Piazza di Brescia (n. 20.5.1688 - m. 23.4.1693); Antonio Fede di Brescia (n. 27.1.1694 - m. 11.1699); Pietro nob. Cattaneo di Brescia (n. 12...1699 - rin. 1699); Giambattista Francesconi di ... (n. 4.5.1699 - m. 1732); Antonio Boselli di Ovanengo (n. 12...1733 - m. .1760); Andrea Tomasoni di Monticelli d'Oglio (n. 1.4.1760 - rin. 23.10.1763); Giambattista Fava di Gottolengo (n. 3.10.1764 - m. 20.11.1774); Vittore Ballarini di Saiano (n. 12.8.1774 - m. 11.1783); Giuseppe Stocchetti di Oriano (n. 2.11.1784 - m. 1.5.1790); Giuseppe Armanti di Quinzanello (n. 23.11.1790 - m. 1...1812); Angelo Ravelli di Grumello del Monte (n. 24.6.1812 - rin. 22.6.1818); Giambattista Marconi di Bione (n. 20.10.1818 = m. ... 1841); Giacomo Muscio di Malpaga di Casto (n. 17...1844 - rin. 1850); Bartolomeo Belletti di Brandico (n. 16.10.1850 - prom. a Comezzano); Luigi Scola di Orzivecchi (n. 3.9.1856 - rin. 1866); Antonio Ballardini di Temù (n. 14...1867 - m. .1882); Isidoro Berna di Piubega (Mantova) (n. 4 agosto 1882).