MARTINENGO COLLEONI

Versione del 24 apr 2018 alle 12:42 di Pgibe (Discussione | contributi)

(diff) ← Versione meno recente | Versione attuale (diff) | Versione più recente → (diff)

MARTINENGO COLLEONI

Ne fu capolinea Gerardo II, figlio di Marco qd. Gerardo I. Gerardo II con i fratelli Gaspare (capostipite dei Martinengo della Pallata) e Giacomo (capostipite dei Martinengo di Motella) parenti di Tisbe Martinengo, moglie del grande condottiero Bartolomeo Colleoni, aveva combattuto agli ordini di questi sia per Venezia che per Sforza, e il Colleoni aveva dato in moglie ad ognuno una sua figlia, cui con testamento del 27 ottobre 1475 aveva suddiviso le sue proprietà. A Orsina, sposa a Gerardo II Martinengo, e ai loro figli Alessandro, Estore e Giulio considerati da lui come figli adottivi, aveva assegnato i castelli di Romano, Martinengo, Ghisalba, Palosco, Calcinate, Mornico, Urgnano, Cologno al Serio, Malpaga e Cavernago, vincolandoli a fedecommesso e sotto condizione che di devozione nel caso che finissero le linee mascoline dei suoi tre generi. Il Colleoni poi tre anni prima di morire, perduta la speranza di avere un figlio maschio, volle perpetuare il suo nome ordinando che i suoi nipoti, figli di Orsina, si chiamassero, dopo la sua morte, Martinengo Colleoni e ne assumessero anche il relativo stemma ed insegne, per cui da allora Alessandro, Gian Estore e Giulio, figli di Gerardo II si chiamarono Martinengo Colleoni ed inquartarono lo stemma Martinengo con quello dell'avo materno, a cui il Colleoni aveva aggiunti i gigli di Borgogna per privilegio del re di Borgogna in riconoscenza di servigi dal Colleoni prestatigli. Con ducale del 25 settembre 1533, il doge Andrea Gritti concedeva a Gerardo III e a suo figlio Bartolomeo e ai loro discendenti il titolo di conti di Malpaga e Cavernago (Bergamo). Da Gerardo II discesero poi Gian Estore I, Gerardo III e Bartolomeo. Con i suoi figli Francesco e Gian Estore II i Martinengo Colleoni si suddivisero in due rami, quello dei Marchesi di Pianezza e quello dei conti di Malpaga. I marchesi di Pianezza discesero da Francesco il quale, avendo sposato Beatrice Langosco di Stroppiana, a quanto sembra già moglie morganatica del duca Emanuele Filiberto di Savoia, portò al nuovo marito il castello feudale di Pianezza, obbligando con testamento del 24 agosto 1605 i figli avuti da Francesco Martinengo Colleoni a portare il cognome e lo stemma dei Langosco e il titolo di Marchesi di Pianezza, per cui agli stemmi riuniti dei Martinengo e dei Colleoni, essi aggiunsero anche lo stemma dei Langosco. Il ramo dei marchesi di Pianezza continuò con Gerardo qd. Francesco, Gerardo, Gaspare Giacinto e Gaspare Emanuele, con il quale il ramo si estinse nel sec. XVIII.


Il ramo II, dei conti di Malpaga, continuò con Gian Estore II qd. Bartolomeo, attraverso Gian Estore III, Alessandro, Gian Estore IV, Venceslao, Gian Estore V e si estinse con Venceslao nel sec. XIV. I Martinengo Colleoni ereditarono dalla figlia di Bartomeo Colleoni, Orsina, i castelli di Romano, Martinengo, Calcinate, Mornico, Urgnano, Cologno al Serio, Malpaga e Cavernago, tutti in terra bergamasca. Con Gerardo II e discendenti le proprietà si allargarono alle Gerole, a S. Zeno Naviglio, Milzano, Scarpizzolo, (castello e otto case coloniche e 280 piò), la Pomera di Orzinuovi (120 piò), Oriano, Cassivico di Corzano, l'isola di Loreto, palazzi in Brescia e in Bergamo. Pietro Emanuele (dei marchesi di Pianezza) (1687-1746) eresse da parte sua il castello di Roncadelle.


PALAZZO di Via Moretto (poi Baebler, ora Tribunale) - Il palazzo venne eretto su un'area che già nel sec. XV era di proprietà dei Martinengo, citata nel testamento di Gerardo II, che lascia al figlio Giulio «la sua casa in Brescia a (S. Alessandro) con li mobili". Qui la famiglia si trasferì dalla casa di S. Maria "de Pace" (in via Tosio) nel 1534. Ai primi del '600, Estore III fece decorare la facciata esterna del palazzo, con prospettive, da Ottavio Viviani e con le figure di Ercole e Apollo chiaroscuro di tinta argentina, galanti e ben tratteggiate» da Pietro Ricchi, lucchese. Anche nell'interno vi erano sale con dipinti di battaglie sempre del medesimo autore. Conteso poi in famiglia e rimasto per anni vuoto e poi divenuto collegio di capi militari che lo prendevano in affitto, confiscato a Bartolomeo Martinengo viene poi ricuperato da suo figlio Estore IV il 27 aprile 1697. Questi sistemata la situazione finanziaria familiare pensò di abbattere l'antica costruzione e di creare il palazzo, nuovo, degno della posizione della famiglia, anche per non essere da meno del cugino marchese di Pianezza che andava costruendo il grandioso suo palazzo sull'area dei Porcellaga. Egli diede l'incarico del progetto all'architetto bolognese Alfonso Torregiani (altri lo attribuiscono a Giorgio Bassignano) (1682-1764) ma il Lechi pensa che non lo abbia visto finito perché morì nel 1733. Saranno i suoi figli a portarlo, se non al compimento, per lo meno allo stato di signorile abitazione. Nel 1723 però la costruzione doveva essere abbastanza avanti, per lo meno nella struttura principale, perché Estore parla che la «casa» ha un ingresso e un regresso. Come al solito la fabbrica dovette durare per decenni perché ancora nel 1775 i fratelli chiedono precario al Comune di raddrizzare il muro verso il tresandello a mezzodì e proseguire la fabbrica del palazzo. Nel marzo 1777 poi chiedono e ottengono di chiudere quel tresandello a Sud. Passato a Venceslao di Estore IV il palazzo divenne importante per il fatto che la moglie sua Drusilla Sagramoso vi tenne uno dei più importanti salotti letterari di Brescia. Orientatisi i due figli di Venceslao e della Sagramoso verso le idee giacobine il palazzo vide frequenti riunioni di quei giovani uomini che si misero a capo della repubblica bresciana. Nel palazzo Giov. Estore vene arrestato coi fratelli nel marzo del 1800 durante la reazione austro-russa, ma l'arrivo della Legione Italica, comandata dal suo amico Giuseppe Lechi, lo liberò. La prodigalità del padre e l'amministrazione poco oculata degli zii e sua ridussero di molto la sostanza familiare e Venceslao si vide costretto a vendere, qualche anno prima della morte nel 1885, tutta la proprietà del bresciano, ivi compreso il palazzo, per ridursi a vivere nell'amato castello di Cavernago dove morì. Il palazzo venne acquistato dal banchiere svizzero Giuseppe Baebler, il quale aggiunse quella parte di fabbricato non molto felice sino al vicolo confinante con palazzo Avogadro, ora Bettoni. Dal Baebler il palazzo passò alla Banca Mazzola Perlasca e infine venne acquistato dal Comune di Brescia per farne la sede del Tribunale e della Pretura.


Come ha rilevato Fausto Lechi la facciata verso la piazzetta di S. Alessandro ha una pianta irregolare e la disposizione simmetrica delle aperture non migliora l'impressione poco piacevole che dà questo prospetto nel quale peraltro si apre un bel portale con balcone sorretto da due mezze colonne doriche. La facciata invece verso corso Cavour è veramente una delle più alte come concezione e più imponenti come creazione in Brescia. È divisa in tre scomparti, separati fra loro da due leggere bande di pietra a mo' di lesene; la sequenza delle finestre nei tre piani è sapientemente distribuita. Le tre degli scomparti laterali hanno fra loro un largo respiro, mentre le due che fiancheggiano il portale sembrano ravvicinare; al centro una sfilata di sei colonne fa da parata al portale: qui vi è una sola finestra perché l'architettura si infittisce di elementi in pietra. Si osservi questo procedimento «esplosivo»: al centro, dopo il vuoto creato dal vano d'ingresso, tutta pietra con le cinque grosse colonne abbinate, quindi un respiro e un'altra colonna che ripeterebbe il motivo in tono minore, infine le note decorative vanno distendendosi sulle superfici piane. Bellissimo il balcone poggiante su sei colonne, sporgente al centro in leggera forma semicircolare. Oltrepassato un breve androne si entra sotto il portico a cinque campate formate da pilastri a ridosso dei quali, nella facciata interna, si appoggiano delle mezze colonne toscane che hanno le loro corrispondenti sulla parete di fronte. Come osserva il Lechi, questa novità, in Brescia, dei pilastri non porta molta eleganza alla linea del portico, ma dona quel senso di forza che forse era nei desideri del committente. Al piano terra sotto il portico, sono allineate alcune sale che presentano la volta decorata per lo più in stile neoclassico. Il prospetto verso il cortile è a un solo piano, ancora secentesco di gusto e le belle finestre dal frontone semicircolare hanno il davanzale sorretto da quattro colonnine. Nel lato SE del portico si alza lo scalone a due grandi rampe divise dalla balaustrata; riquadrature con lesene a stucco sulle pareti e due grandi affreschi monocromi raffiguranti Ercole sulla parete del primo pianerottolo e Giove sul piano di arrivo, che fa parte nello stesso tempo della galleria. Nella volta del soffitto, motivo anche questo non usato in città, un'apertura ovale con balaustra in ferro battuto. La galleria sopra il portico è molto ampia e su di essa si aprono cinque porte con stipiti in pietra. Quella centrale dà accesso al grande salone: vasto ambiente, in origine spoglio di decorazione come altri simili, ma poi abbellito verso la metà del Settecento da stucchi di notevole fattura sia sulla volta che sulle pareti; negli angoli le «pezze» degli stemmi Martinengo e Colleoni. Dal salone, andando verso mezzodì, si passa in tre sale con buone decorazioni della seconda metà del Settecento. La prima è oggi soffittata mentre la seconda ha al centro un piacevole e spigliatissimo monocromo con Diana e Ninfe; la terza, più piccola, ha la volta decorata a «rocailles» con piacevoli figure sui quattro lati. Procedendo verso mattina vi è un vestibolo (continuazione della galleria) pure ben decorato nella volta e sei sale che formano, con lo scalone, l'ala di mezzodì del palazzo e che furono decorate in vari tempi ma sempre con buon gusto. La prima ha nella volta un affresco con la Giustizia incorniciata da fregi eseguiti attorno al 1730; poi una sala più ampia con preziosi fregi azzurri su fondo chiaro del più bel rococò. Vicino ad essa verso mattina una saletta con medaglioncini a chiaro scuro (le fatiche di Ercole) dell'ultimo Settecento e infine un'altra con decorazione a fresco probabilmente del Manfredini: Giove e Teti al centro della volta e tre rovine come sovrapporte. Un altro artista dipinse la volta della sala vicina con giovani donne che sostengono dei veli, attraverso i quali traspare la decorazione. I quattro pannelli alle pareti sono simili a quelli, meglio conservati, di altre case. L'ultima saletta, vicina a questa, è tutta decorata a fiori e frasche in un pergolato neogotico che potrebbe essere una bizzarria del Manfredini. Sempre in quest'ala una scaletta interna porta a degli ammezzati dove non rimane che un gabinetto finemente decorato con buoni chiaroscuri di deità in piccoli tondi.


PALAZZO di Via Matteotti, 8 (poi Bargnani) - Istituto Tartaglia. Venne iniziato nel 1670 da Gasparo Giacinto Martinengo Colleoni di Pianezza, assieme alla moglie Chiara Camilla Porcellaga. Desiderosi forse di ampliare la costruzione, ne affidarono il 4 gennaio 1684 il progetto al "capomastro" Giovanni Battista Croppi che, come afferma Fausto Lechi, lavorò di buona lena, continuò nell'abbattimento delle vecchie case e costruì in una quindicina d'anni il palazzo. Per quanto la parte principale verso strada fosse già molto avanti, nel 1689 le ultime pietre vennero fornite sul finire del 1700, anzi le colonne della facciata ed il balcone dovrebbero essere stati apposti nel 1735 se la concessione del Comune di occupare il suolo pubblico della contrada venne rilasciata, secondo il Fè d'Ostiani, in quell'anno. Il marchese Gaspare lasciò le finiture del palazzo al figlio Pietro Emanuele, il quale pensò ad abbellire gli ambienti interni. Ma poi, avendo perduto ogni speranza di avere dalla moglie Ludovica Gambara qd. Ludovico un erede maschio, lasciò incompiuta la fabbrica del palazzo assieme a quella del palazzo di Roncadelle. Alla morte poi della figlia Maria Licinia avvenuta nel 1763 gli eredi, e precisamente il conte Venceslao Martinengo dalle Palle e fratelli, vendettero il 14 agosto 1764 al nobile Gaetano Bargnani e al fratello di questi per 30 mila scudi. Il figlio di questi, Cesare, nel 1813 lo vendette poi al governo del Regno Italico che, come registra Fausto Lechi, gli pagò la enorme somma di mezzo milione di lire italiane ma Napoleone volle che nell'atto di compravendita del 14 giugno 1813 fosse chiaramente detto che «il prezzo reale veniva fatto onde compensare i servigi che lo Stato medesimo riceveva da Cesare Bargnani». Nel 1819 il Governo austriaco collocò nel palazzo il Liceo e il Ginnasio e tali Istituti vi rimasero anche quando l'edificio passò di proprietà del Comune nel 1864, fino al 1925. In questo anno ne divenne proprietaria l'Amministrazione Provinciale; il Liceo e il Ginnasio passarono in altra sede e qui prese posto l'Istituto tecnico Nicolò Tartaglia.


Fausto Lechi definisce il palazzo come "la più monumentale fra le abitazioni dei Martinengo". La lunga facciata è distinta in tre settori, nei quali si distingue quello centrale, in cui campeggia il grande portale affiancato, come lo descrive il Lechi, da quattro colonne toscane: due vicino all'ingresso e due più discoste verso i lati, con due finestre a inferriata che si aprono nel vano tra le colonne. Sopra le colonne una lunga balconata con balaustra in pietra, diritta non sagomata, fa da ricca corona. Uguale motivo verrà realizzato dall'architetto per conto dei lontani cugini del medesimo casato qualche anno dopo nel loro palazzo a S. Alessandro. Gli ingressi di questi due palazzi in Brescia non saranno superati in grandiosità architettonica da nessun altro. Dalla balconata sopra l'ingresso la parete s'innalza, su fino al cornicione, tutta rivestita di pietra e lastre chiare e in essa si aprono, al primo piano, tre grandi finestre riccamente incorniciate, soprattutto la centrale che, nell'arco a tutto centro del frontone, porta scolpito un trofeo di armi in alto rilievo. Al secondo piano le finestre, a forma quasi quadrata sempre con ricchi stipiti in pietra come rileva sempre il Lechi, danno un aspetto di grande signorilità nella concezione del disegno. Ai lati del settore centrale si svolgono, in tono minore, i due laterali in ognuno dei quali la ricchezza della decorazione è data dalle quattro finestre, assai belle in tutti e quattro gli ordini. Sono infatti quattro i piani perchè qui appare, per la prima volta sopra una facciata di palazzo bresciano, l'ammezzato con le finestre oblunghe immediatamente soprastanti agli stipiti delle finestre del pianterreno. Particolare interessante, dopo la fascia marcapiano, il fregio in marmo, a guisa di mensola sotto le finestre del primo piano: unico segno da notare, di bizzarria barocca, fra tante reminiscenze classiche. Piuttosto discosta viene un'altra chiara fascia marcapiano e dopo le finestre dall'ultimo piano, sempre con ricchi stipiti di marmo, arriva il cornicione che il capo mastro si impegnò nella convenzione di eseguire simili a «quelli dell'Ill. Sig. conte Cesare Martinengo Cesaresco, o conte Guerriero o conte di Barco, similiante rustico». Agli estremi lati della facciata, sullo spigolo, si innalzano due massicce ma eleganti «cantonate» come dice il costruttore del tempo, ordinate nel settembre 1685 a Scipione Ogna detto Maffei «come da disegni cioè a punta di diamante» che incorniciano compiutamente la facciata. Alle estremità N e S di detta facciata oltre le due cantonate e quindi escluse dal disegno originario, vi sono due appendici strette, quel tanto di spazio sufficiente per inquadrare una finestra con balcone, e basse poichè si arrestano all'altezza della fascia tra il piano nobile e l'ultimo piano. Strano partito architettonico, rileva il Lechi, invero assai discutibile ma che si spiega con la necessità in cui si trovò il marchese P. Emanuele di chiudere l'ingresso ai due vicoli che fiancheggiavano il suo palazzo quando ne ottenne la proprietà. La massa dell'edificio, libera su tutti i lati, era senza dubbio più grandiosa; fu un errore coprire le belle cantonate; tuttavia l'aggiunta venne pensata con molto gusto, elegante e discreto, e le belle finestre con balaustre, eseguite forse a cinquant'anni di distanza, fanno perdonare la colpa. L'atrio, sul quale immette un breve andito, formato da tre campate, rileva sempre il Lechi, degno del palazzo, direi anzi che, con la solidità dei pilastri e delle colonne e con la magnificenza delle decorazioni in stucco della volta, forma il problema più interessante di tutto l'edificio. Non colonne sole a far da scena ma pilastri robusti, accompagnati da colonne abbinate, sostengono le ampie volte le quali, data la vastità del vano, sono sensibilmente abbassate. Ma nessuna impressione di schiacciamento si risente perchè, con somma abilità, il potente volto è alleggerito dalla lieve e distesa decorazione. Il cortile è chiuso da tre lati dal corpo centrale e da due ali ugualmente alte che si protendono verso sera e, rileva il Lechi, la severità dell'aspetto della loro massa, ancora castellana, è mitigata dalla grande eleganza degli stipiti delle finestre. Veramente questo fatto di lasciare compatta la struttura dell'insieme del palazzo ne aumenta la grandiosità e l'imponenza. Belle e varie cornici di pietra adornano le finestre ricche di elementi diversi, e alcune con eleganti balaustre, lesene bugnate dividono i tre scomparti seguendo l'itinerario tracciato dal Lechi. Dall'atrio, verso mezzodì, si passa in un ampio vestibolo, con la volta decorata a stucco di larga fattura; la porta e gli archi che vi danno accesso sono riccamente incorniciati in marmo. Nelle due ali a S si aprono parecchie sale con volte dipinte. Quattro sale dell'ala sud sono ornate da elegantissimi stucchi dorati su fondo bianco che il Lechi ritiene eseguite nel 1740. Nel medaglione centrale della prima, allegoria delle quattro virtù cardinali e della Gloria dei Martinengo Colleoni, dei quali si scorge la rossa aquila in volo verticale; nella seconda una strana allegoria sulla forze riunite in fascio; nella terza Cupido dormiente; accanto a questa verso il cortile, salotto col soffitto a stucchi della stessa maniera e infine una piccola quadrata anticamera con la nota decorazione del primo Seicento quando vi era la moda dei motti. Sempre a pianterreno, nell'ala nord, si incontra dapprima la scala alla quale già si è accennato, la scala diremo di famiglia, poi una sala oblunga, forse la «caminada», con una cornice a stucco e nella volta un affresco allegorico col carro dell'Aurora e il Genio della Luce in primo piano; nella seconda sala, da pranzo, simile decorazione con affresco della stessa mano nel quale sono rappresentati Giove, Giunone ed Ebe. Dall'atrio incomincia lo scalone, molto ampio ma privo affatto di decorazioni sulle due prime rampe, dal che deriva un senso di freddo e di squallore. Dopo l'arrivo al piano nobile incominciano le altre due rampe che portano al secondo piano e la vista si rallegra perchè appaiono la balaustra e in alto la bellissima volta affrescata. Di singolare grandiosità è la decorazione della volta eseguita nel 1730 circa. Cornici di stucco di ottimo stampo formano sei scomparti, alle due estremità dei quali campiscono affreschi di putti vivaci e luminosi; poi nella varia cornice si apre il grande oblungo medaglione centrale nel quale è rappresentato il trionfo di Apollo e Minerva e la sconfitta delle forze oscure. Le sale di rappresentanza del primo piano sono quattro sulla facciata (compreso il grande salone) e tre nell'ala a N, che danno sul cortile. Dal primo pianerottolo dello scalone si entra, sulla destra, in una sala con la volta dipinta a fresco da mediocre artista fra il 1720 e il 1730. Fra una prospettiva in grande scorcio di balaustre e colonne, in cui si muovono putti con festoni di frutta, si apre uno squarcio di cielo in cui si vede, fra le nuvole, la salita al trono di Giove del giovinetto Ganimede accompagnato da Minerva e da Venere.


Di gran lunga migliore secondo il Lechi è il dipinto della più vasta sala che segue. Con l'affresco dello scalone è l'opera migliore del palazzo da lui datata nel tardo Settecento di autore non bresciano che ha dipinto al centro, con colori evanescenti l'empireo intorno al quale danzano a gruppi, baccanti e satiri fra ombre e luci indovinatissimi. La decorazione della parete con i tondi con Bacco, Arianna, Venere, Cupido e le piccole danzatrici delle inquadrature sono forse del Teosa. Segue un gabinetto decorato da ricchi, lievissimi stucchi bianco-oro della metà del Settecento. Seguendo l'itinerario del Lechi, ritornati sul pianerottolo dello scalone, sulla sinistra si entra nelle sale dell'ala di mezzodì che hanno qualche decorazione del primo Ottocento; di fronte invece si passa nel salone da ballo, grandioso vano quadrato che occupa tutta la parte centrale dell'edificio. Sulle quattro porte e su quattro finestre una ricca decorazione a stucco incornicia piccoli affreschi monocromi con fatti della storia di Roma. Le pareti sono disadorne, ma in alto, novità e in certo qual modo ripresa, un largo ballatoio con ringhiera molto sagomata in legno dorato, gira tutto attorno e serve egregiamente da compimento e cornice. Un'altra cornice a sbalzo dopo il respiro delle finestre e porte del secondo piano e infine l'ampia volta frescata già completa nelle prospettive di colonne, volute e fondali fantasiosi, rimasta senza figure, fu poi riempita intorno al 1870 dallo Schermini o dal Campini con una allegoria. Attraverso una scala a varie rampe, accompagnata da una bella ringhiera, dal salone si passa all'ala a monte, dove vi sono tre sale interessanti. Nella prima lo stesso freschista della sala in facciata ha dipinto Bacco e Arianna incorniciati dalle più grottesche e abbondanti «Rocailles», nella seconda vi è una semplice decorazione senza medaglioni. La terza è l'alcova con una ricca cornice in legno oro e verde. Nella volta il trionfo della Giustizia che fa precipitare in basso la Frode.