LOGGIA, palazzo
LOGGIA, palazzo
Resasi necessaria una sede per l'amministrazione comunale (esercitata dapprima presso l'abitazione del podestà e dal 1426 nel palazzo che era stato confiscato al Carmagnola, poi Togni, in via Dante), il Consiglio Speciale l'8 luglio 1467 deliberava innalzare sopra il Garza, abbinandola ad una Loggia, una sala pel Consiglio, e di riunirvi gli uffici di cancelleria, ragioneria, masseria (la nostra esattoria comunale) ecc. La Loggia era stata edificata con deliberazione presa il 10 maggio 1434 per offrire rifugio ai cittadini in caso di intemperie dato che non esistevano ancora portici. Dovette essere costruita in breve tempo pur risultando un edificio di buone proporzioni tanto da sollecitare Fausto Lechi ad azzardare l'ipotesi che studi più attenti sui materiali e sulle strutture delle quattro sale del piano terra potrebbero portarci (ma forse è pura fantasia) alla conclusione che dette sale siano ancora quelle dell'edificio del quattrocento precisamente del 1435-36. Una simile supposizione potrebbe anche essere fondata sul fatto che le sale di quella loggia dovevano essere assai vaste se il podestà del 1437 raccomanda al consiglio di collocarvi la sede delle altre magistrature, in modo da poter vendere il palazzo già del Carmagnola (oggi Togni) dove provvisoriamente risiedevano dette gerarchie e col ricavato pagare la costruzione della nuova loggia. Il Lechi rileva ancora come nel 1447 si ordinò la scala di pietra esistente a monte della odierna Loggia e dette scale debbono essere «convenientes edificio lozie quod etiam ornatissimum fabricatum est», e questo perchè era avvenuto un guasto davanti alla loggia e l'acqua «turbida» disalveava. Si dovevano usare quelle colonne che si trovavano nel palazzo di Cittadella nuova (il Broletto) «delobrate». Finita del tutto la grande loggia nel maggio del 1449 si stabilì il compenso da dare a Tonino da Lumezzane, marengone ed anche ingegnere. Le sollecitazioni rivolte ai bresciani dai rettori veneti a costruire un palazzo degno della città e corrispondente ai bisogni della crescente burocrazia municipale spinsero nel 1468 il Consiglio generale a ordinare all'"abachista" Taddeo di fare il preventivo della sala di cui aveva apprestato il disegno. Dopo ripetute pratiche dei cinque deputati all'uopo eletti, il 15 dicembre 1477 si cominciò a costruire una volta sul Garza. Causa la peste scoppiata l'anno successivo la costruzione venne interrotta. Sopra una delle sue colonne durante la peste il cronista Melga nel 1478 lesse i nomi dei molti morti ogni giorno. Per affrescarla era stato ufficiato nel 1573 Lattanzio Gambara che per la morte prematura riuscì a preparare i soli disegni degli affreschi. Sotto la Loggia nella Quaresima del 1483 il medico Girolamo Soldo "tutto abbietto e scalzo" esortava i bresciani alla penitenza. La Loggia primitiva doveva essere di non molto più corta dell'attuale anche se limitata a oriente. Veniva decantata nelle provvisioni del 18 maggio 1435 come "opera dilettevole" ed in quelle del 9 gennaio 1436 come "magnifica e bellissima". Sopra la Loggia c'erano lo stemma della città e l'immagine di San Marco scolpita in pietra e dorata. Esternamente vi erano affrescati i santi Faustino e Giovita e l'annunciazione di Maria vergine, mentre sotto il portico erano dipinti San Marco e gli antichi patroni della città: SS. Apollonio e Filastrio e affreschi ritoccati poi nel 1481 dal pittore Alessandro Ardesio. Già nel 1482 veniva dato incarico ai deputati di comperare alcune casupole vicine per ampliare il palazzo e costruire sopra la loggia una sala pretoria. Nel 1484 la Loggia esistente viene chiusa con un'inferriata. Ma il 3 dicembre dello stesso anno si parla del nuovo palazzo da costruire presso la piazza e il Consiglio decide con undici voti favorevoli ed un negativo di incaricare Marco Bona, giudice in Vicenza, perchè tornando a Brescia, conduca con sè il maestro Tommaso Formentone ottimo architetto che con il suo ingegno "ordinet et designat" il palazzo. Passarono cinque anni e finalmente nell'ottobre 1489 il Formentone giungeva a Brescia col suo modello in legno sopra un carro tirato da quattro cavalli, scortato da lui, da un aiutante e da un famigliare, tutti a cavallo. Il Formentone ebbe il 6 novembre un compenso di 40 scudi d'oro e tornò a Vicenza. L'anno dopo, il 4 febbraio 1490, veniva deliberato di edificare il nuovo palazzo sopra la Loggia e sul Garza a occidente della piazza, mentre l'anno seguente si deliberava di provvedere al finanziamento dell'impresa attraverso il ricavato del taglio di boschi sul monte Denno (Maddalena), con le multe e con una taglia straordinaria. Controversa è ancora la questione dell'architetto. Mentre secondo Baldassare Zamboni, sembrerebbe doversi attribuire al Formentone il disegno oltre che il modello, altri che lo riducono al ruolo di falegname e di ingegnere, sono ricorsi, alcuni (G.A. Averoldi, il com. Gaglierdi e ultimamente l'arch. Arcioni) all'arch. Donato Lazzari di Urbino detto il Bramante, altri (Elia Caprioli, Pandolfo Nassino, Lucilio Duchi, Patrizio Spini. Sala, Gambara, Odorici, Ricci, Reccagni, Magrini, Marzario ecc.) ad un architetto rimasto ignoto. Ultimata la copertura del Garza, acquistate e demolite le case che si trovarono sulla sua sponda destra si dette finalmente la mano, sotto la direzione dell'architetto milanese Filippo Grassi, alla costruzione del presente palazzo della Loggia, del quale venne posta e benedetta dal vescovo Paolo Zane la prima pietra il 5 marzo 1492, e di ciò è memoria anche sull'epigrafe scolpita in quei giorni, tuttora visibile, sul pilastro meridionale della facciata verso oriente: «Domenico Trivisano Equite / Praetore Innocentiss et / Huic Urbi Auspicatissimo Basilica / Fundata III non. Marcii / MCCCCLXXXXII». Nel 1494 risultano già innalzate le colonne e pavimentata la Loggia, che viene provvisoriamente coperta nel 1495 e poi con la volta attuale nel 1497. Ciò, almeno dal 1496 sotto la guida di Filippo de Grassi definito «architectus ad fabricam palacii». Nel 1499 mentre il palazzo era ancora in costruzione sui lati le autorità comunali vollero trasferirsi, rimanendovi tuttavia solo 24 giorni, dato il disturbo provocato dai lavori. Nel 1500 la sala comunale venne ceduta a Giovanni Taverio di Rovato che vi tenne le lezioni di latino e di greco. Nel 1502 venne posto l'ultimo pilone settentrionale. Tra il 1503 e il 1508 venne innalzato l'edificio che si trova immediatamente a nord del palazzo, che doveva contenere la scala d'accesso alla gran sala del piano superiore della Loggia. Del 1508 è la galleria di passaggio che le unisce. La fabbrica del palazzo venne interrotta nel 1512 in seguito alle devastazioni e massacri del "sacco" di Brescia. I lavori di costruzione ripresero, sia pure lentamente dal 1517 in poi. Il 21 febbraio 1526 venne incominciato lo stupendo portale d'entrata, opera di Nicolò da Grado, con le due fontanine ai lati sormontate da nicchie con due statue poi scomparse. Nello stesso anno si eseguirono le due finestre. Sopra la porta il Bagnatore dipinse un "Annunciazione" poi dispersa o scomparsa. Altri lavori vennero costruiti intorno al 1530 sotto la direzione di Stefano Lamberti e sotto la sua guida nel 1535 vennero costruite le scale per salire al piano superiore. Ma soltanto nel 1549 venne intrapreso con determinazione il completamento dell'edificio. Il 31 ottobre di tale anno il Consiglio Generale con 106 voti favorevoli e 2 contrari deliberò la costruzione della grande sala, affidandone l'esecuzione all'arch. Lodovico Beretta, previe consultazioni circa la solidità dell'edificio con tecnici milanesi officiati dal conte Nicolò Secco d'Aragona (anch'egli intenditore di architettura) che sembrano siano stati il Sergni il Giunti e il Lombardini. Questi, al progetto del Beretta a tre ordini preferirono quello "a due ordini" elaborato da Iacopo Tatti, detto il Sansovino. Venne così sulla fine del 1553 principiato il grande salone, di cui però solo nel 1554 il Sansovino presentava il disegno definitivo portandosi nel maggio a Brescia dopo lunghe insistenze. La sala doveva essere di oltre 100 mq. poi ridotti durante l'esecuzione. Per l'erezione vennero utilizzati il marmo bianco di Botticino e quello nero della Degagna. I lavori continuarono intensamente. Mattoni "per il solar della Loggia sott'il Palazzo Nuovo" giungevano dai forni alle Fornaci di Gio. Francesco dell'Abate; al gesso provvedeva Pecino Farina di Lovere; cordami venivan acquisiti a Venezia e pure a Venezia si spesero circa 800 lire per due grossi andegari (argani) atti a sollevar gravi pesi; numerose furono le forniture di buona pietra di Rezzato, destinata alla sistemazione della piazza oppure alla fabbrica dell'edificio: e di tutte le spese tenevan accurata nota, fin dal 1554, i cancellieri della città, i quali dovevan inoltre stipular contratti, stendere documenti, curar la corrispondenza, e così via. Nè si dimenticava frattanto di completare e render sempre più decoroso l'arredamento dei locali inferiori già da alcuni anni in uso per pubblici uffizi, per adunanze di consiglio o per accogliervi Rettori e magistrati cittadini: il banco della sala consiliare fu ricoperto con un bel tappeto da 25 scudi; nel 1560 si acquistaron a Venezia due spalere a brochetta per metter sotto alla Loza ove sentano i cl.mi S. Rettori, recanti nei tondi l'arma della città, e costarono 540 lire e rotti; altre "spalere di coramme adorate, una per mettere al bancho o tribunale in sala del Mag.co consiglio, l'altra sotto loggia dall'altra parte" vennero acquistate, sempre a Venezia, nel 1564. Ma spese più ingenti comportava l'acquisto del legname occorrente alla fabbrica della sala e del tetto. Nella sala superiore, infatti, la trabeazione, la balaustra a colonnette, gli arconi della volta ed i telai del soffitto, atti a sostenere l'enorme peso sovrastante, furono in legno, soprattutto di larice comperato e fatto appositamente venire dal Trentino attraverso Riva, Malcesine ed il lago di Garda fino a Salò, con un flusso di carichi che durò ininterrotto per molti anni. Mentre continuava l'erezione del salone, già nel 1553, veniva reclutato un nugolo di scultori e lapicidi addetti alle decorazioni delle lesene, ai capitelli, ai fregi, alle statue di coronamento, come pure agli ornamenti interni della «gran sala», perduti questi ultimi nelle successive distruzioni e nei rifacimenti. Mentre alcune lesene vennero recuperate da scavi, altre vennero lavorate dal padovano Anton Maria Colle che reclutò a Venezia anche altre maestranze. Seguendo le accurate ricerche del Baldassare Zamboni, il palazzo o lesena o candelabro, a sud est è antica, mentre il capitello è opera del Colla. Una parte del secondo pilastro della facciata a mezzogiorno è pure antica, il resto, invece, venne lavorato da Aron da Fine di Bornato e da Vincenzo Barbieri di Manerbio. Il terzo e quarto sono pure parzialmente antichi e completati da Jacopo Fostinello da Bornato, che lavorò invece totalmente il quinto pilastro. Il sesto, sempre a mezzogiorno, è, come il quinto, interamente nuovo, e venne scolpito da Aron da Fine e dal Barbieri. I quattro pilastri del fronte occidentale,e relativi capitelli, sono opera del Fostinelli. Quelli a tramontana vennero intagliati: il primo, andando da sera a mattina, dal Fostinello, il secondo ed il terzo, da Martino della Pesa detto Bissone, da Antonio Casella da Carona e da G. A. da Lugano, il quarto ed il quinto da Colla, il quale fece pure il capitello al sesto pilastro, che è antico. Il magnifico fregio a rilievo che fascia all'ingiro tutta la sommità del palazzo venne disegnato dal pittore Agostino Scalvino, del quale disegno se ne fecero due modelli: uno dallo scultore fiorentino Francesco Bonaiuti, l'altro, composto di terra e di stucco, dal suddetto Colla, che ne scolpì anche una metà, mentre l'altra parte è dovuta allo scalpello del ferrarese Lodovico Ranzi. Gli architravi ed il cornicione si devono al Fostinello, al Barbieri, a Battista Sampolo, ad Aron da Fine, a Cristoforo Pedone di Cremona, a Domenico Martelletti e Giov. Paglia, entrambi di Rezzato, a Sperandio Felici, a Marco da Lugano e a Matteo Antegnati. La balaustrata, con lo zoccolo, la cornice e la gorna (foro praticato nella pietra per lo scolo delle acque) che vediamo sopra il cornicione del secondo ordine della facciata principale e di tutto l'edificio sono opere di Antonio Zecchino, Vincenzo Marzoli, Giov. Paglia, A. M. Colla, Giammaria Ghidella, Giov. Fostinelli e Pietro Martelletti, come da contratto 21 agosto 1554. La balaustra del primo ordine venne fatta in seguito, su disegno dell'architetto comunale Giammaria Piantavigna, successo nella carica a Lodovico Beretta morto nel 1527, ed eseguita da Marco e Gian Jacopo da Lugano e da Martino della Pesa, come da contratto 14 aprile 1573. Le quattro statue, in diverse attitudini, dette gli Acquari, sopra il cornicione della facciata principale, tre sono del Bonaiuti, e la quarta, quella verso nord-est è del nostro G. B. Bonometti. Quelle a mezzogiorno sono del Ranzi, mentre quelle a tramontana le dobbiamo al fiorentino Paolo Geri, al Ranzi, al Bonaiuti, al Bonometti, al Felici e a Giuseppe Scalvi. Una cura particolare venne posta anche negli accessori canali che, incassati nella gorne, raccoglievano l'acqua del tetto per versarla al piano a mezzo degli stessi Acquari, erano di rame stagnato, in pezzi di 18 braccia l'uno, somministrati dal ramaio Nicolò Belasi, che dal 16 aprile 1562 al 18 maggio 1563 ne consegnò Pesi 209 (kg. 1676) per l'importo di lire planete 3512, pari a mille scudi d'oro. Le statue dei santi Faustino e Giovita, della Giustizia e della Fede fronteggianti la piazza dall'alto della seconda balaustrata, tre sono del Bonomelli ed una del fiorentino Ferdinando da Bagno. Lo Spini attribuisce erroneamente il nome di Carità alla statua della Fede, nome questo che risulta dai contratti e nei relativi pagamenti. Le figure simboliche che ornano il cavalcavia a nord del palazzo sono del bresciano Jacopo Medici, eseguite nel 1565. Delle bellissime teste imperiali (che io chiamerei mezzi-busti) ne dobbiamo ventuna a Gasparo da Milano e sei ad Antonio della Porta. I mascheroni e le teste di leone, furono in molti a scolpirli, fra questi gli anzidetti Ant. della Porta e Gasparo da Milano. I due trofei militari agli angoli del fronte verso la piazza vennero ordinati a Gasparo da Milano 1'8 giugno 1499. Naturalmente, a quell'epoca non potevano essere destinati al posto attuale (ma bensì alla loggia), ove vennero collocati contemporaneamente ai due del fronte occidentale, copie dell'Aron da Fine e del Barbieri eseguite come da contratto 21 luglio 1556. Come si vede si tratta d'una corazza con spalline e coscioli a frange larghe, sormontata da un elmo. Gli stemmi della città che vediamo agli angoli della sommità dell'edificio sono del Colla, del Banzi, dei figli di Nicolò da Luzano e di Angelo da Lugano. Le piramidi che coprono i quattro angoli del palazzo nel 1559 da Casella, da Martelletti e da Michele Bracchi da Bornato. Le palle dorate loro poste in cima sono di Marcantonio Pozzobonelli. Sopra il finestrone in mezzo alla facciata verso piazza leggesi l'iscrizione che consacra la sontuosa mole alla Fede ed alla Giustizia: Brixia fidelis Fidei et Justitiae Consacravit. Fissati sotto la volta della loggia si vedono nove medaglioni a mezzo e a basso rilievo. Sei rappresentano il nostro stemma dal Leone rampante, e tre i santi Apollonio Faustino e Giovita scolpiti da Gasparo da Milano come da polizza 28 aprile 1497. Era appena iniziata la costruzione del secondo ordine quando la notte del 22 ottobre 1554 scoppiò per mano di ignoti un incendio presto domato. Continuava nel frattempo la sistemazione interna del salone mentre per la costruzione della volta in legno, di delicata realizzazione, veniva interpellato Agostino Righetti, proto del duomo di Padova sotto la direzione dell'arch. Beretta. Così finito l'edificio misura metri 10.50 da terra al primo piano, e da questo alla balaustra superiore metri 11,40 questa compresa, che è di metri 2,38, più la cupola. Per la costruzione si usò marmo di Botticino di Rezzato e marmo nero di Degagna (cava ormai abbandonata, più che altro, per deficienza di vie d'accesso) mentre invece per il primo ordine dell'edificio il marmo nero venne fornito da Donato da Gazzuolo abitante a Torbole veronese. Nel frattempo si pensava alla copertura per la quale venne scelta una cupola di piombo simile a quella del palazzo della Ragione di Padova. Anche se ridotta a metà di quella, essa richiese un enorme quantità di materiale. Già nel 1550 il nunzio Gio. Giacomo Aleni aveva informato da Venezia che tale maestro Gerolamo Avenone ricercava soci o capitali per non haver lui il modo di far la spesa di cavare certo piombo di miniera che il protho della zecha aveva saggiato e molto lodato; ma soltanto nel 1555 si cominciò a pensare seriamente alla copertura del tetto, chiamando a Brescia per le prime prove maestro Zanetto Fenotti da S. Vigilio, nipote di un Giovanni Antonio, provvisionato della Signoria, maestro nel conciar tutti li coperti di piombo. Il Fenotti fece il suo sopraluogo nel marzo di quell'anno; altri esperimenti vennero compiuti nel novembre dell'anno successivo. Scartata la possibilità di valersi del minerale cavato dalla Valle Trompia perchè di costo più elevato e di qualità più scadente, si preferì il piombo del canale di Villaco, del quale si richiese nel giugno del 1556 un saggio da sottoporre all'esame dei periti Gio. Antonio e Zanetto prenominati. Le trattative per la scelta e per l'acquisto della qualità più idonea all'uso richiesto vennero affidate ad Antonio Bucelleni, che si recò anche sul luogo di produzione, ed al nunzio bresciano di Venezia, il quale ultimo concluse il contratto con il fattore dei Foscari, proprietari dei medoli preferiti, al prezzo di 21 ducati e mezzo in Venezia, di 24 ducati in Brescia al meiaro, calcolate le spese di trasporto. Carichi di piombo partirono da Venezia per via acqua fino a Verona e poi per strada a Brescia si susseguirono dal luglio 1559 fino alla fine del 1560. Faticose furono le pratiche per l'esenzione dei dazi di transito. Finalmente il 22 agosto 1559, il Fenotti partiva per Brescia, passando per Padova allo scopo di prendervi la sua caldiera. Il lavoro fu eseguito rapidamente, ma riuscì difettoso, perchè lasciava passare la pioggia. Il Fenotti dovette pertanto ritornare a Brescia nell'anno seguente, sia per portar riparo, sia per definitivamente compire l'opera prima dell'inverno; ciò nonostante l'acqua continuò a filtrare ed i magistrati cittadini trattennero all'artigiano il resto del compenso pattuito in attesa di un nuovo suo intervento. La cupola venne terminata novembre 1560, ma la difettosità del lavoro provocò nuove insistenze sul Fenotti che dovette promettere di partire per Brescia nel settembre 1562. Ciò che probabilmente fece perchè i documenti non accennano oltre a difetti della copertura; da Venezia giungevano inoltre opere d'arte ed artisti destinati al nuovo Palazzo. Il già citato scultore Paolo Geri, al quale dobbiamo alcune statue della facciata, dimorava allora al traghetto di S. Bonetto e venne chiamato a Brescia il 12 giugno 1556; il 25 del medesimo mese ed anno fu pure richiesta l'opera di un maestro Giovanni Antonio segnalato dal Sansovino, intagliatore di pietre, per lavorare attorno all'artistico fregio che cingeva il Palazzo. Nel 1562 dubbi insorti circa la stabilità della fabbrica e altri problemi di illuminazione, sollecitarono consultazioni presso architetti forestieri come Galeazzo Alessi, che si trovava a Milano per la costruzione del palazzo Marino, Giovanniantonio Rusconi e Andrea Palladio da Venezia. Vennero apportate modifiche specie alle finestre, alle partiture interne con colonne. Nell'autunno 1564 venivano commissionati a Tiziano, presente a Brescia, tre grandi opere. Il contratto reca la data del 3 ottobre e mostra fra i testimoni il noto pittore Cristoforo Rosa, amico, rappresentante ed in ultimo anche procuratore del Vecellio, al quale va forse attribuito il merito di aver perorato l'attribuzione dei lavori al grande cadorino. Non si fissavano ancora nè i soggetti dei quadri, nè il compenso dell'artista: i primi sarebbero stati fatti in breve tempo conoscere con tutta precisione; il secondo era demandato alla stima di tre gentiluomini bresciani (il co: Francesco Avogadro, Mario Trusso ed Ercole Rozzone) ad opera ultimata e collocata; si versava soltanto all'insigne pittore - il cui nome viene di preferenza accompagnato nelle carte bresciane dall'attributo di «eccellente» e dalla distinzione equestre - un acconto di seicento lire planette, pari a 150 scudi d'oro. Il Vecellio, ritornato a Venezia, si mise senz'altro al lavoro; ma forse dimenticò o trascurò l'accordo stipulato, perché volle fare di sua testa, la qual cosa poco piacque ad uno dei Deputati bresciani sopra le fabbriche, il dr. Giulio Calzaveglia, capitato per caso nella bottega del pittore. Costui vide l'abbozzo dei quadri ed udì dalla voce stessa dell'artista quello che egli disegnava di dipingervi; non ne fu soddisfatto e subito riferì ai colleghi le proprie impressioni che provocarono una immediata diffida: sospendesse Tiziano l'opera iniziata ed attendesse l'arrivo di precise istruzioni. Vennero infatti trasmessi quegli avvenimenti che ci permettono di avere un'idea abbastanza precisa dei tre quadri. Tiziano fece buon viso ai richiami, trovò anzi "bellissime le indicazioni e lavorò di buona lena tanto da trascurare altre commissioni anche se impiegò però molto tempo prima di poter annunciare che uno dei quadri era quasi finito. Ma a tale annuncio seguì un lunghissimo silenzio, per cui il comitato stabilì di non mandare altro denaro sino a compimento dell'opera. Era accaduto infatti che il figlio del pittore, Orazio Vecellio, preoccupato di tutelare l'interesse del padre, lo inducesse a rifiutare quella clausola del contratto secondo la quale la valutazione dei quadri sarebbe stata demandata alla commissione. Intervenne però Celso Ducchi, nunzio della città di Venezia, e i quadri, nell'ottobre del 1568, venivano finalmente offerti alla ammirata curiosità dei bresciani. La commissione, come pattuito, li stimò e offerse mille ducati, accompagnando però la somma con qualche frase dubbiosa circa il fatto che tutti i quadri fossero tutti di mano dell'artista. Orazio Vecellio, che era a Brescia per curare la messa in opera delle tele del padre, non volle sentir altro e indignato, partì senza accettare il denaro. Intervenne allora lo stesso Tiziano, certo assai più accomodante del figlio e, per intercessione del Vescovo d'allora, Domenico Bollani, il tribolato negozio andò in porto. Dagli avvenimenti citati apprendiamo i soggetti raffigurati nei quadri. Nel quadro centrale Brescia, classicamente vestita in forma di bellissima donna con grave, maturo e venerando aspetto, tendeva alla lontana Venezia il simbolo della propria fede; ai suoi fianchi eran effigiati un bellicoso Marte ed una verginale Minerva ("intendendo della pacifica, non della Pallade guerriera"); mentre ai piedi tre ninfe fluviali comparivano "assise in varii modi sovra l'erba". Nel quadro di sinistra Vulcano ed alcuni suoi Ciclopi lavoravan ferro ed armi entro "una gran caverna di sassi dirupati"; a destra infine una matronale Cerere recante un manipolo di miglio e di lino, Bacco imberbe "grasso come uomo di buon tempo, ma non isconcio come fanno alcuni" e due figure di fiumi con cornucopia. Al pittore bresciano Cristoforo Rosa vengono invece commissionate le inquadrature. Il 1 febbraio 1564 il Rosa cominciò a dipingere di prospettiva la volta e la trabeazione della sala, portando a termine il lavoro in cinque anni e mezzo. Patrizio Spini, allora vivente, dice in un suo manoscritto che il dipinto conteneva tre ordini di colonne, - l'uno sopra l'altro, i quali poggiavano sopra mensoloni che sporgevano in fuori. Negli intercolonni erano compartiti ballatoi, rotte architetture, soffitte, nicchie e diversi sfondi dai quali si scopriva il cielo, partimenti sodi erano ornati d'una bella varietà di cornici, di festoni, di trofei di grotteschi e di figure che rappresentavano istorie e battaglie. Cotesto ordine d'architettura andava a finire nella sommità della volta nel cui termine restavano tre spazi ottangolari, spazi che poi il Tiziano rivestì delle sue magiche pitture. Nel 1572-1574 proseguirono opere di abbellimento anche con mobili pregiati. La spesa venne valutata sui ventimila ducati, somma enorme a quei tempi ma ne risultò una specie di meraviglia per il tempo. Il Vasari (Vita de 'Pittori' vol. 3°) la giudicò "magnifica, costruita con grandissima spesa e in tutte le sue parti è stata fatta con moltissimo giudizio. Il Palladio (libro 3° dell'Architettura) la disse per grandezza e per ornamenti mirabile" giudicandola degna di Brescia "magnifica in tutte le azioni sue". La forma del palazzo arrivò oltralpe per cui a Brieg, presso Breslavia nella Slesia, l'architetto Giacomo Poar, costruì nel sec. XVI un palazzo detto Plastenschloss, modellato sulla Loggia di Brescia. Ma nella prima mattina del 18 gennaio 1575 il salone prende fuoco. Tutto viene distrutto, pitture comprese e compresa la cupola. Il piombo liquefatto scorreva per le strade a guisa di torrente e come scrive Baldassare Zamboni, «raccolto e purgato, giunse a pesi 5538 e il ferro a pesi 6730» che vennero venduti. Del sottostante salone non rimasero che le pareti, mentre il pianterreno rimase intatto. Ne furono incolpati i milanesi e, forse con più ragione, il governo veneto, interessato a distruggere i documenti riguardanti i privilegi dei cittadini bresciani. Il 19 gennaio il Consiglio stanziava una somma di duemila scudi per scoprire l'autore dell'incendio. Ben presto il Consiglio generale convocò il Palladio per consultarlo circa il "ristoramento" e l'architetto si fermò a Brescia due settimane assieme a tal Zemberlano, suo aiutante, col quale presentò un progetto di restauro comprendente tre ordini ma che fu ostacolato dall'arch. Giulio Todeschini. La peste che sopravvenne negli anni seguenti e altre preoccupazioni fecero rimandare addirittura di due secoli la ricostruzione del salone distrutto. Tuttavia, nonostante le difficoltà dei tempi il 18 luglio 1578 venivano incaricati i pittori Pietro Marone e Tommaso Bona di dipingere la sala del Consiglio nell'ammezzato, disposizione già presa sino dal 1549 e poi sospesa in seguito alla Deliberazione di fabbricare la gran sala del primo piano. Nei due quadri della volta i suddetti pittori rappresentarono la dedizione di Brescia alla repubblica di Venezia ed il dono delle Santissime Croci fatto per Namo, secondo la volgar tradizione. La ricostruzione venne presa in considerazione solo a distanza di due secoli, ad eccezione della riduzione della parte verso sera della sala sansoviniana per allogarvi gli archivi, restando libera quella verso piazza, trasformata poi in salone vanvitelliano. La ricostruzione di questo salone e della relativa copertura venne sollecitata da una elargizione del conte Silvio Martinengo che dispose di mille zecchini per preparare alle Municipali Magistrature una sede il più che si possa conveniente alla dignità di esse. Infatti la banca della Città (la stessa Comunità) con atto 29 agosto 1764 «ha decretato, che tostochè la sala sia ridotta a un sufficiente stato di decenza, in un luogo dei più degni fosse posta una Lapide di Paragone a caratteri d'oro. Nel 1766 con propositi di economia, dato anche le difficoltà dei tempi, venne affidata a Giacomo Colosio la costruzione di una sala semplicissima con soffitto piano. Ma il 29 luglio di quell'anno il tetto crollava. Intervenne sia pure indirettamente, l'ab. Antonio Marchetti che si interessò a Padova circa la copertura del palazzo della Ragione e di altre costruzioni e forse invitò a Brescia l'ing. Bartolomeo Ferracino che oltre che autore del famoso ponte di Bassano aveva lavorato ai restauri del palazzo della Ragione di Padova. Venuto a Brescia nel 1768 il Ferracino propose una copertura simile a quella del palazzo di Padova con tiranti attraverso la sala. Intervenne con suoi progetti un anonimo (forse il Marchetti secondo Franco Robecchi) e poi ancora l'arch. trentino Stefano Paina. venne poi officiato l'arch. Gaspare Turbini che progettò una cupola ottagonale con analogo salone sottostante con grandi finestroni. Senonchè quasi contemporaneamente veniva invitato anche l'arch. Luigi Vanvitelli che in un primo tempo presentò un progetto circolare e dopo che questo venne bocciato, ne presentò un altro ottagonale molto simile a quello del Turbini, dando luogo a vivaci polemiche fra i due. Nel 1771 i deputati diedero «precisa, pubblica e prudente commissione» di far eseguire il modello della sala secondo il progetto Turbini che era quello fra l'altro, come s'è detto, di una pianta ottagonale in luogo della pianta circolare del Vanvitelli; l'esterno però doveva essere eseguito, con patente improprietà, secondo il progetto Vanvitelli. Era, come scrive il Segnali, un compromesso dei Deputati per trarsi d'impaccio. Si finì di concedere al Turbini di condurre a termine il modello interamente secondo il suo progetto. Il dispetto e la reazione del Vanvitelli «che pure aveva avuto cortesemente in mano (e in parte usufruito) i disegni del Turbini» sfociarono in male parole, ed anche chiaramente offensive, e con meschini giudizi sul Turbini. Vi fu uno scambio vivace di accuse e controaccuse fino a quando, dopo nuovi contrasti, nuovi appelli alle Accademie, nuove osservazioni del Turbini, il 19 maggio 1773 si decise di convocare un Consiglio generale e di procedere ad una votazione che avvenne, dopo una campagna di tipo elettorale, in favore del Vanvitelli. La costruzione si trascinò per anni e anche il progetto del Vanvitelli venne poi modificato dal Permarini suo allievo e non fu mai attuato per intero se non in quell'attico che suscitò in seguito vivaci e continue polemiche. Con ciò il palazzo non mancò di costituire una della attrazioni più ammirate della città se ad esempio nel 1861 il maresciallo Vaillant scriveva al Sindaco di Brescia a nome di Napoleone III per ottenere il permesso di far rilevare da un architetto francese il disegno della Loggia per costruirne una uguale in Francia. Nè si era abbandonata l'idea di radicali restauri tanto che nel 1848 si pensò di ricostruire la grande volta della cupola. Interventi di restauro specie delle sculture vennero operati nel 1863 sotto la guida dell'arch. Giuseppe Conti e il 4 gennaio 1864 il Consiglio Comunale approvava altri grandi restauri, presto abbandonati. L' 11 gennaio 1872, su sollecitazione dell'on. Giuseppe Zanardelli il Consiglio comunale deliberava all'unanimità di stanziare una somma di L. 4.000 come preventivo ai restauri della Loggia. Il progetto veniva affidato all'arch. Antonio Tagliaferri e venne da lui presentato in giunta comunale il 23 agosto 1878. Contemplava una sistemazione di tutti gli uffici anche in ambienti vicini e la riduzione del salone. Invece dell'attuazione del progetto che venne ulteriormente perfezionato nel 1882 si accesero le polemiche che divamparono nel 1894 e nel 1896, specie riguardo alla copertura, che avrebbe dovuto essere realizzata con tetto e falde piane rivelandosi l'antica cupola troppo costosa. Il progetto presentato dall'ing. Lodovico Cassa fatto proprio dall'assessore Melchiotti e riveduto ed approvato dagli architetti Antonio Tagliaferri e Camillo Boito, approvato dal consiglio comunale il 29 luglio e 28 agosto 1896, prevedeva di ricavare locali per Uffici e Sale di Udienze all'uopo suddividendo l'incompiuto Salone vanvitelliano, eseguendo pure un tetto nuovo a falde piane alla maniera ordinaria. Ma trovò contrario lo Zanardelli che in una lettera da Collio che ebbe vasta risonanza nella stampa, si oppose ad un restauro provvisorio. Interventi di Luca Beltrami sulla "Perseveranza" di Milano e di altri per il ripristino dell'antica copertura in piombo e di altri ancora, portarono nel dicembre 1897 ad una totale sospensione dei lavori ripresi e poi di nuovo sospesi nel dicembre del 1899 anche se già assunti dall'Istituto Artigianelli e che avevano visto la costruzione di un nuovo scalone. Frattanto il 15 giugno 1899 l'ufficio regionale per la conservazione dei monumenti di Lombardia presentava uno schema di "copertura curvilinea". Ripresi ancora una volta nell'agosto 1900 per la sistemazione interna, nel 1901 veniva programmata la decorazione del salone da parte dei pittori Bertolotti e Cresseri. Le polemiche rinfocolarono nel 1902 ed ebbero di nuovo vivi echi nella stampa nazionale mentre venivano costruite le due sale posteriori alla Loggia una adibita a sede del consiglio comunale, l'altra a gabinetto del sindaco. Il 9 marzo 1903 ad ulteriore chiarificazione della situazione una commissione composta dagli ingegneri ed architetti Guglielmo Calderini, Manfredo Manfredi, Antonio Tagliaferri e Luca Beltrami suggeriva "la ricostruzione dell'edificio nella sua originaria grandiosa disposizione e forma. In conseguenza del nuovo indirizzo il 6 giugno 1904 l'ing. Toccolini dell'Ufficio tecnico comunale presentava avvalendosi della consulenza del progetto per la ricostruzione della copertura in piombo che aggiornato nel 1908 venne approvato il 28 marzo 1913 e messo in esecuzione il 22 dicembre 1913. I lavori eseguiti dall'impresa dell'ing. Damiani sotto la direzione dell'ing. Fioretto dell'ufficio tecnico comunale iniziarono l'1 marzo 1912. Tolto l'attico costruito dal Vanvitelli il progetto prevedeva una copertura a tecnica di nave rovesciata per non gravare contro peso e con spinte esterne i muri perimetrali lasciando sotto di se un immenso solaio di m. 42x25 alto al centro m. 17. La costruzione venne affidata a maestranze di calafatori, gli Scalco provenienti dall'arsenale di Venezia, i quali furono abilissimi, con la loro tradizione di costruttori di navi, a impostare la struttura lignea, incatenandola con bulloni di ferro e ricoprendola poi all'esterno con lastre di piombo. I lavori per la nuova copertura cominciarono effettivamente ai primi di maggio del 1914, ma in cantiere il legname era già stato scelto, stagionato ed in parte sagomato. La demolizione dell'attico vanvitelliano cominciò il 18 maggio dello stesso anno, e compiuto il 27 giugno. Tolto l'attico del Vanvitelli e terminato l'anello perimetrale in cemento armato per compensare le spinte dell'armatura della volta, fu preparato un doppio telaio d'appoggio su dei gatelloni o mensole a sbalzo nella muraglia alla distanza di metri 1,35 l'uno dall'altro. Anche la balaustra fu completamente rinsaldata con cambroni e sbarre di ferro e per di più cambiando addirittura 29 massi profondamente lesionati. Bisognò inoltre cambiare i due cantonali che reggevano gli obelischi, perchè minacciavano di rovinare. Finalmente cominciò l'erezione delle centine dal lato a sera. Il legname, già preparato, fu stabilito in opera da una squadra di valenti carpentieri ai quali provvedeva la ferramenta una fucina impiantata sotto i portici. Crebbero meravigliosamente le otto centine doppie interne, le due delle testate e le quattro cantonali. Il raggio dell'intradosso a sesto acuto è di metri 19. L'altezza del primo ordine è di metri 10.50, del secondo 11.40, della balaustra metri 2,38; l'altezza totale è di metri 41. La superficie coperta è di metri 1339, essendo il lato maggiore di metri 46 ed il minore di metri 29. Nella posa in opera furono adoperati kg. 26707 di ferro per piastre e lamiere di rinforzo delle centine; kg. 34595 di bulloni; kg. 2647 di chioderia diversa ed altra ferramenta; kg. 8456 per cambroni, sbarre e cunei. Le lastre di piombo della copertura di mm. 2.5 di spessore pesano kg. 84500. Furono usati mc. 342 di rovere e mc. 74 di larice, pari a kg. 291200 circa. Il peso di tutto il tetto risultò quindi di 4481 quintali, cioè appena 1900 quintali di più del peso della metà dell'attico demolito. Per trasportare tutto questo materiale occorsero 42 vagoni per il legname, 10 vagoni per la ferramenta, 9 vagoni per le lastre di piombo. Con la ricostruzione della volta la Loggia risultò con i suoi 38,50 m. il terzo per altezza tra gli edifici antichi di Brescia, dopo la Cupola del Duomo Nuovo (m. 78), la Torre del Popolo (m. 54,99) e la Torre della Pallata (m. 41). Dell'"attico" del Vanvitelli del tutto smontato vennero ricavati 321 blocchi di marmo per un peso di oltre 7 mila quintali che fino all'agosto 1969 finirono ingloriosi in una rientranza di via S. Faustino per essere poi trasportati in un deposito dell'ex convento di S. Antonino. La data prevista per la fine dei lavori fissata al 21 agosto 1915 dovette essere rimandata per la guerra. Un progetto per la definitiva sistemazione del salone Vanvitelliano venne affidata agli inizi degli anni venti all'arch. prof. Augusto Brusconi (Verona 1859-1924). Negli anni seguenti il pittore Cresseri e altri affrescarono alcuni ambienti, ancora fra vivaci polemiche. Il 19 maggio 1923 il commissario prefettizio Zanon ordinava la ripresa dei lavori che proseguirono nell'estate 1923 con la riapertura dei finestroni, la soffittatura e la pavimentazione del salone Vanvitelliano ecc. su progetto dell'arch. Augusto Brusconi (Verona 1859 - Milano 1924). Nel 1924 veniva posto il portale in bronzo d'entrata in ferro battuto opera di Alessandro Mazzucotelli di Milano. Opere di rinsaldatura della cupola vennero compiute nel 1949 sotto la guida dell'ing. Manzoni e del geom. Giusto. Nuovi lavori dello stesso genere vennero compiuti nel 1981 su progetto dell'ing. Finzi di Milano. Nel frattempo il salone veniva aperto a mostre quali quelle commemorativa del 1848 - 1849, dei pittori bresciani dell'800 (1956), del volto storico di Brescia. Inoltre servì anche per la ripresa di film in costume specialmente dei tempi napoleonici. Malgrado continui interventi per adattare l'edificio ad uffici sono rimasti intatti l'aspetto esterno e la magnifica porta d'entrata con le due fontane laterali, sormontate da nicchie poste sopra due colonne, come pure il porticato e la balaustra ma anche l'interno presenta motivi di interesse. Dopo la scalinata di accesso, decorata con affreschi moderni nella volta e con pitture del sec. XVI degli artisti Bagnadore e F.lli Campi alle pareti, si giunge ad un atrio, che immette nelle sale del piano superiore. Sono queste quattro di media grandezza ed una molto grande, detta «salone vanvitelliano» dal suo ricostruttore. Le sale minori sono oggi sede degli uffici delle autorità comunali, mentre il salone è adibito a manifestazioni varie della città (mostre, ricevimenti, ecc.). In esse sono raccolte pitture di buoni autori, che illustrano vicende della città e ne rappresentano santi ed eroi (diversi episodi delle «Dieci giornate» di Joli, paesaggi e vedute della provincia di Brescia del Filippini e del Basiletti, ed altri ancora del Morelli, della scuola del Veronese e del Campi). Inoltre nell'ufficio del Sindaco si trova anche una copia in gesso della «Vittoria Alata», la preziosa statua trovata negli scavi fatti nel 1826 nel Tempio di Vespasiano ed ora all'entrata del Civico Museo romano, un bassorilievo dei SS. Faustino e Giovita e tutto il mobilio di studio dello statista Giuseppe Zanardelli.