INZINO V.T.
INZINO V.T. (in dial. Insì; in lat. Inzini)
Grossa borgata industriale della media valle Trompia, a 340 m. sul livello del mare, dista da Brescia km. 19,8. Il paese è situato allo sbocco dell'omonima convalle, delimitata dai monti Almana (m. 1391) e Lividino (m. 1361) e percorsa dal torrente Re, affluente di destra del Mella. Il centro abitato si estende in larga parte sulla riva destra del fiume, sviluppandosi notevolmente anche a NE, in direzione di Magno e saldandosi a S con Gardone V.T., capoluogo comunale. Abitanti (Inzinesi), nomignolo: caicì, voce dialettale che rimanda direttamente ad un'attività esercitata nel paese nei secoli passati, in special modo da coloro che abitavano nella valle solcata dal torrente Re. Qui si costruivano chiodi di particolare foggia e robustezza, denominati "caéce", donde il suddetto nomignolo, affibbiato tradizionalmente a tutti gli inzinesi. Popolazione: 280 nel 1493; 430 nel 1567; 420 nel 1573; 700 nel 1580; 610 nel 1609; 700 nel 1657; 520 nel 1691; 500 nel 1703; 403 nel 1756; 517 nel 1805; 521 nel 1838; 590 nel 1861; 557 nel 1871; 690 nel 1881; 909 nel 1901; 1109 nel 1911; 1296 nel 1921. Il R.D. 27 ottobre 1927 pone fine all'autonomia amministrativa del paese, associando Inzino e Magno al Comune di Gardone V.T. Il dato demografico indicato dai successivi censimenti si riferisce dunque al nuovo e più esteso Ente Locale. Gli ultimi Annuari Diocesani fissano la popolazione di Inzino nelle seguenti cifre: 3579 abitanti nel 1982; 3406 nel 1984. Circa l'origine del nome Inzino', nulla si può affermare con assoluta certezza. Lo stesso Arnaldo Gnaga si limita ad avanzare delle ipotesi e scrive in proposito che il toponimo può forse farsi derivare da IMZINO, diminutivo del nome germanico IMMIZZO. La località è probabilmente abitata fin dai tempi preistorici. L'antichissima strada che, già in epoca pre-romana, solcava la valle, mantenendosi sulla riva destra del Mella, doveva raggiungere Inzino e verosimilmente proseguire oltre, fino a toccare i centri dell'alta Valtrompia. Quanto ai gruppi insediatisi in Inzino pre-romana, accanto ai nuclei autoctoni, si segnala, in particolare, una consistente presenza celtica. Infatti numerose iscrizioni votive di epoca imperiale documentano il sussistere di radicate costumanze indigene e il persistente influsso d'una cultura di chiara origine cenomana. Molto significative in tal senso le epigrafi rinvenute nel cortile della canonica e ora custodite nel Capitolium di Brescia. Fra queste si devono considerare segnatamente rilevanti le aree dedicate a Tullino, Mercurio, Minerva e al Genio del Popolo. Secondo quanto scrive Leonardo Urbinati, Tullino è una divinità tutt'altro che locale: il suo culto è infatti provato anche in Germania e in Inghilterra. Un recente contributo di Chiara Stella ripropone l'opinione secondo la quale Tullino accoglierebbe in sè i caratteri degli dei romani Marte, nume tutelare della guerra, e Vulcano, signore del fuoco e forgiatore di armi. Ciò conforta l'osservazione, a suo tempo avanzata da Luigi Falsina, il quale scrisse che Tullino potrebbe essere "eloquente personificazione di antichissimi valligiani, come lui mezzo fabbri e mezzo guerrieri". Sicura l'appartenenza al Pantheon celtico di Minerva e Mercurio. E interessante rilevare che l'area sacra a Mercurio ha, quale dedicante, un uomo di condizione servile mentre l'iscrizione a Minerva si deve a Postumia Prisca, una cittadina romana appartenente ad una famiglia con il nomen che ricorre frequentemente nell'epigrafia bresciana. Le due lapidi permettono ancora di svolgere queste osservazioni: la dedica a Mercurio conferma la predilezione degli indigeni non perfettamente assoggettati a Roma per il dio protettore dei viaggi e dei commerci; nell'iscrizione a Minerva è l'omaggio ad una divinità che dai cittadini romani è invocata anche come protettrice degli artigiani. L'ara votiva al Genio del Popolo, dovuta a un liberto, continua a suscitare vivo interesse fra gli studiosi i quali hanno ripetutamente fissato la loro attenzione soprattutto sui termini POPULUS e PAGUS IULIUS che compaiono nel testo dell'epigrafe. Anche i contributi più recenti ricordano che la voce populus, mentre vale ad indicare una comunità che mantiene con Roma un rapporto che può essere federativo o di diretta sottomissione, significa altresì chiaramente taluni caratteri di autonomia organizzativa della comunità medesima che si regge con propri ordinamenti locali che possono anche essere anteriori alla conquista romana. Il termine pagus traduce, d'altra parte, il concetto di una vasta area comunitaria avente una precisa organizzazione interna, proprie caratteristiche amministrative e socio-economiche, specifiche connotazioni religiose e cultuali. Le due voci latine che compaiono in questa dedica offrono dunque una testimonianza che presenta elementi tra loro concordanti e complementari. Mentre infatti risulta sostenibile l'appartenenza di Inzino a una circoscrizione pagense, è parimenti confortata - dal messaggio di questa epigrafe e da quello delle altre iscrizioni sopra richiamate - la tesi della pre-romanità del pagus medesimo, acquisizione che peraltro è da tempo generalmente accolta così dagli storici come dai giuristi. È anzi opportuno richiamare, a questo proposito, quanto scrive autorevolmente Giovanni Coradazzi, il quale osserva che se la religione indigena resisterà in modo più tenace della stessa religione ufficiale romana - soprattutto nelle zone agresti e montane - all'affermarsi del Cristianesimo, ciò si deve al fatto che i culti autoctoni sono legati non tanto al pagus come istituzione statale, quanto a forme di vita precivica, riconducibili alle comunità vicane e addirittura a vari gruppi di clan. Rimane comunque difficile fissare con certezza i confini della circoscrizione pagense comprendente Inzino. Secondo quanto scrive Maurizio Pegrari l'area di questo pagus potrebbe intendersi estesa per tutta la parte centro-meridionale della Valtrompia e vi si includerebbero anche Concesio a sud e perfino Lumezzane, nella parte centro-occidentale. È superfluo osservare che si rimane in questa materia nel pur legittimo ma sempre scivoloso campo dell'opinabile; è ugualmente destinata, almeno per il momento, a non poter assolutamente varcare la soglia dell'ipotesi, l'affermazione di Chiara Stella, secondo la quale nel termine Pagus Iulius sarebbe da vedersi "il nome romano dato a Inzino in onore della famiglia di Augusto". È invece molto verosimile - e le testimonianze epigrafiche e storiografiche più accreditate depongono in questo senso - che già in epoca preromana Inzino sia stato, nell'ambito della propria circoscrizione pagense, un centro economicamente attivo e un segnalato crocevia di incontri e scambi, per divenire, in epoca romana, un mercato piuttosto fiorente. Ciò non significa obbligatoriamente che fosse, per così dire, il "capoluogo" del pagus di appartenenza e "il centro direttivo delle autorità e dei funzionari pagensi" con il "fanum o tempio e il relativo collegio dei sacerdoti pagani", come ha scritto, a suo tempo, Paolo Guerrini. E tuttavia, quando ci si richiami alle ricordate annotazioni del Coradazzi e se si aggiunga che le comunità indigene solevano rinsaldare la propria identità culturale attraverso convegni e incontri che si svolgevano in punti nevralgici, sui crocevia o compita, che erano centri di mercato e di pubblico incanto ma anche luoghi ove ci si adunava intorno a un tempietto, denominato, alla latina, fanum, non si può negare alla tesi di Paolo Guerrini almeno qualche elemento di interesse, forse ulteriormente avvalorato da recentissime acquisizioni archeologiche le quali possono far pensare - la supposizione si deve a Romeo Seccamani - che l'originaria chiesa plebanale sia stata costruita sulle rovine di un preesistente edificio romano. Rimane, in ogni modo, cosa certa che proprio Inzino diviene, verosimilmente intorno al VI-VII secolo d.C. la sede di una delle tre pievi triumpline e ciò prova che comunque questo luogo ha raggiunto una certa importanza nel novero dei villaggi compresi nella fascia centrale della Valtrompia. Il passaggio dalle forme organizzative del periodo romano a quello della pieve cristiana è uno dei nodi che la ricerca storica deve ancora sciogliere. Nello stesso tempo non è stato fin qui possibile spiegare compiutamente in quale modo molti beni del demanio romano siano passati all'amministrazione delle pievi. Conviene a quest'ultimo proposito ricondursi, ancora una volta, al Coradazzi il quale osserva che le pievi, come istituzioni semplicemente ecclesiastiche, non ereditano i beni dai pagi: questo patrimonio va invece a rimpinguare il fisco e le casse imperiali. Lo studioso tuttavia non esclude che, soprattutto sotto le amministrazioni longobarda e carolingia, questi beni siano, almeno in parte, rifluiti, sotto forma di donazione, anche alle pievi, irrobustendo quella base economica stabile, fatta di proprietà comuni, che è uno degli elementi costitutivi della pieve stessa. Gli scopi per i quali sorge questa istituzione cristiana sono di duplice ordine. Si tratta, in primo luogo, di cancellare, nelle zone extraurbane - e principalmente tra le moltitudini disseminate per le campagne, le valli e i monti - le più tenaci forme di resistenza alla nuova religione: da ciò consegue la necessità di costruire edifici di culto che siano vere e proprie chiese battesimali, dotate anche di beni propri. A questo, si affianca, quale secondo grande compito della pieve, quello di sviluppare una vasta opera caritativa ed assistenziale, sostenuta con i proventi e le rendite delle possessioni collettive: boschi, pascoli ed altre entrate derivanti dai diritti della pieve. Tale duplice ordine di scopi esige che l'istituzione abbia una precisa organizzazione gerarchica: attorno all'arciprete, detto anche pievano, nominato dal vescovo, stanno chierici e diaconi con precisi incarichi di natura spirituale ma anche amministrativa e sociale. L'intento evangelizzatore e quello assistenziale e benefico procedono di pari passo così nella diaconia centrale come in quelle periferiche, istituite nei centri minori del territorio soggetto alla giurisdizione del pievano. Sotto il primo aspetto si privilegia soprattutto la catechesi sacramentale; sotto l'aspetto sociale le diaconie non limitano la loro opera alla distribuzione di elemosine e sussidi ai poveri, ma amministrano anche ospedali, ricoveri per i vecchi, ospizi per i pellegrini. E ancora: la pieve tende ad attuare tra le popolazioni delle campagne e delle vallate un vero e proprio disegno di rinnovamento e di educazione socio-culturale, costruendo a poco a poco quel tessuto comunitario e quel patrimonio di valori che condurranno, in un arco di tempo piuttosto lungo, al formarsi della identità comunale. Rispetto alle realtà plebanali bresciane e, più particolarmente, nel confronto con le altre pievi valtrumpline, quella di Inzino presenta talune caratteristiche che conviene segnalare. La prima nota degna di rilievo si coglie nella stessa sua dedicazione: il patrocinio di S. Giorgio, è infatti abbastanza singolare poichè tra le pievi bresciane antiche soltanto quelle di Bovegno e di Milzano invocano loro protettore il celebre martire orientale. In un importante contributo critico, pubblicato nel 1981 dall'Ateneo di Brescia, Antonio Niero, ricordate le discussioni recenti circa la storicità di san Giorgio "dovute alla mancata distinzione tra il dato storico della sua esistenza e il dato biografico, inficiato da impressionanti episodi leggendari" fin dal secolo V, rileva che il martire, veneratissimo a Lydda, in Palestina, contrariamente ad un'opinione divulgata e tradizionalmente accolta anche nell'iconografia, non è mai stato un soldato, anche se è vero che viene scelto quale patrono delle milizie bizantine, forse - così argomenta il Niero - per fatti devozionali occasionali da parte di soldati. Secondo il medesimo autorevole studioso, la data del patrocinio militare di san Giorgio è probabilmente da collocarsi nel corso del secolo V. La diffusione del suo culto in Occidente - databile al secolo VI - è legata all'espandersi del dominio bizantino ma si deve ancor più largamente ai Longobardi che venerano il "Sigfrido bizantino" non solo come protettore di rocche e castelli ma anche come patrono dei campi e dei contadini. L'accresciuta potenza economica dei monasteri di fondazione longobarda, e particolarmente del cenobio di S. Giulia che nei secoli IX e X amministra alcune corti monastiche anche in Valtrompia - segnatamente in Castello di Bovegno e Magno sopra Inzino - contribuisce molto verosimilmente a divulgare in queste zone il culto di san Giorgio. Paolo Guerrini sostiene che tanto la pieve antica di Bovegno quanto quella di Inzino dovevano essere state de dicate originariamente all'Assunta; il mutamento del titolo, in favore di san Giorgio, collocato dal medesimo Guerrini all'inizio del secolo X per la pieve di Bovegno, potrebbe essere avvenuto all'incirca nella medesima epoca anche per la pieve d'Inzino, intitolata comunque al martire orientale almeno dal secolo XI, al quale si fanno risalire i resti di un'abside a catino, venuti alla luce nel corso dei lavori compiuti nell'attuale parrocchiale nel 1982 e sicuramente facenti parte dell'antica chiesa plebanale. Una seconda caratteristica della pieve d'Inzino è da individuarsi nella probabile assenza di vere e proprie diaconie periferiche, determinata, vuoi dalla particolare configurazione geografica del territori plebanale, vuoi da una specifica e conseguente situazione organizzativa e, per così dire, strutturale. Quanto alla "cartina" dell'antica pieve di S. Giorgio, si deve ricordare che essa comprende all'incirca la zona centrale della Valtrompia e ha, dunque, un'estensione abbastanza limitata, con pochi centri abitati, non molto distanti tra loro e non eccessivamente impervi e di troppo difficile accesso. La giurisdizione del pievano tocca infatti il suo luogo più lontano in Lodrino per annoverare poi nell'ordine: Brozzo, Marcheno e, oltre Inzino, Magno, Gardone e - sia pure con le dovute distinzioni giurisdizionali - anche Sarezzo. Circa l'organizzazione interna e strutturale della pieve si può osservare che, allo stato attuale delle ricerche, mancano prove certe ed irrefutabili dell'esistenza sul territorio plebanale di quella pur modesta rete di istituzioni caritative ed assistenziali - ospedali, ospizi, ricoveri - che costituisce una importante ragione d'essere delle antiche diaconie periferiche. Si aggiunga che le stesse indicazioni liturgiche offrono scarsissimo contributo in questo senso: quando infatti si faccia eccezione per Inzino - nel quale è presente ab immemorabili il culto di san Lorenzo - negli altri centri minori della pieve non si ha memoria d'antiche devozioni verso il medesimo santo o altri celebri diaconi, quali Stefano e Vincenzo da Valenza. Seguendo precisamente la via dei riferimenti cultuali, Paolo Guerrini ha ipotizzato l'esistenza di ospizi in Cesovo, Magno d'Inzino e Lodrino. Ma delle tre indicazioni dell'illustre storiografo, solo quella di Cesovo, fondato sulla venerazione locale per san Giacomo Maggiore - noto protettore dei pellegrini medievali - presenta qualche titolo di credito. Infondata è da giudicarsi l'esistenza di un ospizio a Magno d'Inzino. Quanto all'analogo istituto che sarebbe sorto in Lodrino - unico centro che potrebbe, quanto meno geograficamente, giustificare l'esistenza di uno xenodochio e quindi d'una diaconia - il Guerrini stesso scrive che, dell'ospizio che egli giudica essere stato certamente costruito, non è rimasta memoria alcuna. Non potendo dunque accogliere, per insufficienza di prove, l'esistenza di diaconie periferiche, si deve credere, almeno per il momento, che esiste nella pieve di S. Giorgio una sola diaconia centrale, per l'appunto quella di S. Lorenzo, dalla quale potrebbe dipendere l'amministrazione dell'ospizio che sarebbe stato eretto nello stesso paese di Inzino. La supposizione può essere sostenuta - pur con qualche prudenziale riserva - quando si voglia accogliere la tesi del medesimo Paolo Guerrini il quale afferma che, proprio ad Inzino, la strada della Valtrompia riunisse "le due che salivano da S. Vigilio-Villa-Cogozzo-Noboli e da Carcina-Sarezzo-Zanano" e scrive ancora che una strada importante "saliva dalla pieve di Inzino a Magno, Cesovo, Cimmo, Pezzoro al Colle di San Zeno e discendeva in Valle Camonica". Se le caratteristiche qui ricordate - distinguendo per taluni aspetti la pieve d'Inzino dalle altre analoghe istituzioni bresciane - possono presentare qualche valido motivo che induca a studi più approfonditi, il tema dei rapporti tra la pieve di San Giorgio e i potenti monasteri bresciani di fondazione vescovile o longobarda costituisce materia di ben più vasto interesse. Ma si tratta di un terreno d'indagine molto ampio e purtroppo ancora in larga parte incolto. Conviene dunque limitarsi in questa sede a richiamare poche, sicure acquisizioni di carattere generale, accompagnate da significativi riferimenti specifici che diano conto rapidamente di alcuni tra i più importanti fondi posseduti, sul territorio plebanale di S. Giorgio, dal vescovo e dai monasteri, nell'epoca precedente la costituzione del Comune di Inzino. È noto che nell'Alto Medioevo tutta la Valtrompia è soggetta anche per diritto feudale al vescovo diocesano e che un diploma di Corrado II il Salico, dato il 15 luglio 1037, concede, tra l'altro, a Olderico I, vescovo di Brescia, ampie investiture su tutto il territorio bagnato dal fiume Mella. D'altra parte, è certo che, già all'epoca, i grandi monasteri di fondazione vescovile Sant'Eufemia e San Faustino Maggiore - vantano non trascurabili proprietà nella valle: investiture e donazioni ne accrescono progressivamente i fondi e l'influenza. Celebre la permuta intervenuta nel maggio 1038 tra Giselberto, abate di Sant'Eufemia e lo stesso Olderico I. In quell'occasione il vescovo di Brescia ottiene, tra l'altro, quattro piccole proprietà o "masserizie" in Gardone; due sortes in "Anzino" - che potrebbe tradursi Inzino - e una in Bruzie (Brozzo). I fondi comprendono terreni coltivabili, boschi e vigne. Si aggiunga che nei secoli X e XI anche i cenobi benedettini di antica fondazione longobarda - quello di Santa Giulia in Brescia e quello dei SS. Michele e Pietro Apostolo in Leno - rivendicano in Valtrompia notevoli diritti e mantengono ampie ragioni feudali, segnatamente in Lodrino, Marcheno e Magno d'Inzino. In Lodrino vantano proprietà sia il monastero di S. Faustino Maggiore sia quello di S. Giulia. Queste influenze monastiche sono provate dagli antichissimi culti di San Vigilio, patrono del paese, e di Santa Giulia, della quale ancora si conservano le reliquie. Di influenze e di diritti feudali vescovili e del monastero di San Faustino Maggiore si deve parlare per Sarezzo, mentre al cenobio di Leno va con ogni verosimiglianza ascritta la fondazione del piccolo monastero di S. Pietro de Lé, nell'odierna Meno, ora frazione del Comune di Marcheno. Vaste le proprietà di S. Giulia: oltre che in Lodrino, il monastero amministra possedimenti in Brozzo, Marcheno, Cesovo e Magno d'Inzino. In particolare: dal 6 gennaio 1206 al 27 maggio 1227 si registrano concessioni di beni in Brozzo; il 6 gennaio ed il 16 novembre 1206 si segnalano investiture feudali dei Lavellongo in Marcheno e Cesovo; sortes del monastero sono documentate anche a Inzino per una investitura concessa il 27 giugno 1209 da Lanfranchino, nipote di Vianesio di Lavellongo, a David de Telarino. Il culto di S. Martino è infine sicuro indizio di possessioni monastiche di S. Giulia a Zanano e Magno. Si ritiene anzi molto probabile che in queste due ultime località il monastero abbia mantenuto delle vere e proprie corti rustiche, formate da agricoltori e servi con le rispettive famiglie. Questi coloni hanno il compito di disboscare e bonificare la proprietà monastica per garantirne un certo reddito. La vita religiosa dei residenti nel fondo è affidata a monaci o diaconi inviati dal monastero. Non sono finora emersi documenti che provino l'esistenza di conflitti insorti tra la badessa di S. Giulia o il superiore di altri monasteri e l'arciprete di Inzino circa la nomina di chierici e diaconi e ciò induce a credere che la distinzione osservata per le competenze giurisdizionali di ordine temporale sia rispettata anche per l'aspetto religioso, almeno fino a quando l'istituto monastico riesce a far valere i suoi diritti. Importa comunque rilevare che la presenza di servi e rustici di un monastero bresciano sul territorio del pievato di S. Giorgio mentre pone a frutto le terre soggette al cenobio crea anche una certa omogenea aggregazione sociale che, intorno alla fondamentale unità di culto, costruisce a poco a poco quel complesso di rapporti e di interessi che fa progressivamente nascere un determinato tessuto comunitario. Può essere significativo in questo senso osservare che già nei secoli XI e XII - che segnano una grave decadenza dell'ordine benedettino - molti beni del dissestato patrimonio di S. Giulia non vengono assorbiti dalla pieve ma passano direttamente, anche attraverso atti di usocapione ai coloni già dipendenti dal monastero. Per in un certo modo convergenti, la pieve e i monasteri determinano dunque lo sviluppo delle popolazioni rurali e pongono le premesse sociali necessarie alla nascita delle prime Vicinie medievali le quali, secondo il Raffaglio, comprendono in origine tutti gli abitanti in un determinato luogo per divenire in seguito caste chiuse, richiedenti a chi ne fa parte un'antica originarietà e la discendenza da determinate famiglie. Nel secolo XIII il compito istituzionale o, per cosi dire, storico della pieve d'Inzino può considerarsi esaurito. Ma il costituirsi del Comune lascia, in ogni caso, al praesbiterium di San Giorgio il grave dovere di procedere alla sistematica alfabetizzazione religiosa del territorio plebanale periferico. A mano a mano che le diverse comunità rurali si affermano e si accrescono, l'arciprete provvede a inviarvi, almeno in giorno festivo, un sacerdote che, per sua licenza, celebri la messa e amministri i sacramenti. Si diffondono in tal modo le cappellanie mentre l'autonoma vita civile di Inzino comincia a segnalarsi ufficialmente. Allo stato attuale delle ricerche il più antico documento nel quale compare in modo indubitabile ed esplicito il Comune di Inzino è datato 9 aprile 1285. Si tratta di un atto notarile con il quale Berardo da Gardone investe Giacomino fu Ruffo da Inzino di numerosi terreni compresi nel territorio del Comune di Inzino. Il rogito cita, tra le altre, anche la terra che si trova in un luogo chiamato "Castello". Del Comune inzinese - da stimarsi uno dei più antichi della valle - si ignorano ancor oggi non solo gli originari statuti ma anche le consuete, successive edizioni riformate. Indeterminati rimangono altresì i suoi primitivi confini: è certo comunque che vi si comprende tutto il territorio sul quale si svilupperanno poi il grande nucleo abitato di Gardone e quello di Magno. Quale parte abbia avuto la popolazione di Inzino nelle vicende valligiane o bresciane dell'ultimo scorcio del secolo XIII e dei primi decenni del XIV è impossibile dire con precisione poichè mancano a tale proposito riferimenti documentali specifici. Conviene comunque ricordare brevemente che in questi decenni il paese segue il destino dell'intero territorio bresciano: assoggettato agli Scaligeri dal 1332 al 1337, da quell'anno e fino al 1404 subisce la prima signoria viscontea. E proprio in taluni atti di governo di Gian Galeazzo Visconti o comunque in documenti che si riferiscono al periodo della sua signoria, si trovano precise e ripetute segnalazioni del Comune di Inzino. Nel 1385 esso è compreso nella Quadra di Valtrompia con la seguente denominazione "Comune de Castelanza de Inzino"; tale dizione ricorre anche in un Estimo del 1389. Il 22 dicembre di quello stesso anno il vescovo di Brescia, Tommaso Visconti, consanguineo del Signore di Milano, nomina arciprete d'Inzino Mafiolo "de Turno de Cumis": l'atto, rinvenuto nell'Archivio della Cancelleria vescovile, è da ritenersi per ora il primo sicuro documento che rechi il nome d'un arciprete di S. Giorgio. Un nuovo riferimento alla comunità inzinese trovasi nel 1394 per una transazione di 26 quintali di frumento che il Comune di Marcheno deve a Inzino. Nel 1404 si afferma nel Bresciano la signoria di Pandolfo III Malatesta che regge fino al 1420. Caduto il dominio malatestiano per gli accordi seguiti alla battaglia di Montichiari, la Valtrompia deve subire il governo, accentratore e vessatorio, di Filippo Maria Visconti per consegnarsi nel 1426 alla Repubblica di San Marco. La Serenissima, sventati gli ultimi tentativi di rivincita del Visconti, acquisisce definitivamente la Valtrompia ai suoi domini nel 1433. Nei decenni compresi tra l'instaurarsi della signoria malatestiana e il definitivo affermarsi della Repubblica Veneta, la storia di Inzino e della pieve è contrassegnata da alcuni fatti degni di rilievo. Per ciò che concerne l'aspetto economico ed istituzionale del paese, si deve ricordare che, con privilegio dell'8 aprile 1406 il Malatesta concede a tutti i valtrumplini la libertà di commerciare in ferrarezze e ciò dimostra che in questo settore si è sviluppata una notevole attività. I documenti dei quali si può disporre risalgono appunto al secolo XV ma si può ben ritenere che già nella seconda metà del Trecento abbia inizio, in parte anche ad Inzino, ma soprattutto a Gardone, la produzione delle canne poichè - come opportunamente osserva Marco Morin - questa attività è resa possibile dalla concomitante presenza di tre elementi indispensabili: ottimo materiale, abbondanza di combustibile, disponibilità di forza motrice. Le fucine degli artigiani inzinesi sono molto probabilmente aperte in prevalenza nei pressi del torrente Re e del fiume Mella - in particolare dalla località Revedolo alle immediate adiacenze del celebre ponte che dicesi romano ma romano non è. Le acque dei due corsi possono infatti essere facilmente sfruttate per produrre l'energia necessaria a far funzionare i mantici dei forni, delle fucine e i magli meccanici. Già nel periodo malatestiano la produzione delle armi deve aver fatto comunque emergere sul nome di Inzino quello di Gardone: a questa conclusione sembra condurre il codice malatestiano 67, conservato nella sezione dell'Archivio di Stato di-Fano. Nel 1418 il documento elenca, tra i Comuni triumplini quello di Gardone sive de Castelanzia Inzini e si può credere che l'ordine di precedenza osservato dall'estensore del codice non sia casuale. Verosimilmente la produzione di canne si è già largamente affermata, almeno entro i confini della signoria e il fatto, con tutto ciò che ne consegue anche soltanto in tema di licenze di esportazione e di reddito, può essere sufficiente a spiegare questa sorta di preferenza accordata a Gardone rispetto al più antico centro di Inzino. Fino al Terzo decennio del Quattrocento, Gardone, Inzino e Magno formano nondimeno un unico Comune. E quanto si evince da due documenti datati rispettivamente 1422 e 1429. 11 16 giugno 1422 il Giudice dei Chiosi del podestà di Brescia impone che i Comuni triumplini provvedano a riparare la strada valligiana per la parte che compete a ciascuno. Nell'elenco è indicato Inzino ma non compare Gardone né è nominato Magno. Un analogo silenzio è mantenuto negli statuti di Brescia, emanati nel 1429, per ordine del doge Francesco Foscari. Nel documento si riporta soltanto la Castelancia Inzini. Per avere sicura prova dell'avvenuta costituzione dei Comuni di Gardone e Magno occorre riferirsi al 1494. L'esistenza delle tre distinte autonomie locali è infatti accertata per le disposizioni testimoniali raccolte in quell'anno a motivo d'un processo che oppone Brunoro Avogadro allo stesso Comune di Gardone. Tenendo conto delle concordanti dichiarazioni dei testimoni e della loro età, in taluni casi molto avanzata, è lecito concludere che la costituzione ufficiale dei Comuni di Gardone e Magno debba collocarsi intorno al quarto decennio del secolo XV. Nel primo trentennio del Quattrocento la storia dell'antica pieve di San Giorgio - che da qui in avanti converrà in questa sede circoscrivere al solo suo territorio centrale comprendente Magno e Gardone - offre, al presente, una documentazione debolissima. Più precise notizie circa i beni, le decime dovute alla chiesa di S. Giorgio ed altri aspetti storico - amministrativi della pieve potranno probabilmente acquisirsi in un prossimo futuro dalla consultazione sistematica di un "registro economico" compilato a partire dal 1410, già noto a Paolo Guerrini e segnalato dal dott. Tiziano Orizio che nell'aprile 1985 ha completato il riordino e la catalogazione dell'archivio parrocchiale. Per il momento restano ferme alcune indicazioni. Il catalogo capitolare del 1410 prova che a Gardone esiste una cappella dedicata a S. Marco, officiata per delega dal pievano e dotata d'un suo magro reddito; a Magno è accertata per la medesima fonte la presenza d'una cappella intitolata a S. Martino di Tours. Nel 1415 la popolazione di Magno deve pagare annualmente all'arciprete di S. Giorgio alcune decime calcolate sui redditi della chiesetta. Nel 1428, fatto singolare ma vero, gli inzinesi accettano come rettore della loro pieve il sacerdote Filippino Zoli di Magno. Fin dai primi tempi del veneto dominio e per tutto il tempo durante il quale la Repubblica governa il Bresciano, più che a Inzino il vigile sguardo del doge e del Senato si volge a Gardone, centro armiero che, in pochi decenni, afferma a tal punto la sua importanza da giustificare pienamente le particolari attenzioni della Serenissima. Nell'ultimo scorcio del secolo XV la grave decadenza della pieve di S. Giorgio è ripetutamente documentata mentre il declino di Inzino, anche sotto l'aspetto civile ed economico si rende palese. Un interessante squarcio sulla pesante situazione amministrativa della pieve è aperto dal frammento di un libro cassa, compilato tra il 1482 e il 1486, dall'arciprete Zanino, da Odeno, in Valsabbia. Il 27 giugno 1489 Tommaso Luzzago emana un provvedimento contro gli usurpatori dei beni della pieve. Il precetto, pubblicato il 2 agosto 1490 dall'arciprete Zanino de Bombardis non sortisce probabilmente alcun effetto poichè il 15 dicembre 1494, Michele Cipolla, vicario del podestà di Brescia, ad istanza del nuovo arciprete, Pietro Malatesta, ordina la restituzione dei beni usurpati alla pieve. Il primo aprile 1495 il Malatesta fa pubblicare in Gardone l'editto dell'anno precedente. E ancora: il 18 agosto 1496 Francesco Mocenigo, capitano e vice-podestà veneto in Brescia, ordina che si celebri un processo per la restituzione dei vari fondi distolti abusivamente al patrimonio di San Giorgio. All'evidente scopo di trar miglior frutto dalle terre che la pieve possiede sul territorio di S. Vigilio, il 29 settembre 1497, l'arciprete Malatesta affitta a Bernardo fu Benedetto da Lodrino una pezza di terra arativa in contrada Grarolis. Se la situazione amministrativa dell'antica istituzione plebana è gravemente compromessa, non meno rilevante è il divario socio-economico tra Gardone e Inzino. Il dato demografico del 1493 è eloquentissimo: Inzino conta 280 abitanti, Gardone ben 940. Tale statistica sancisce l'ormai irreversibile predominio della più dinamica economia gardonese rispetto a quella inzinese che rimane ai margini del complesso processo produttivo legato alla fabbricazione delle canne e al fervido commercio che ne consegue. I fabbri che lavorano nella località Rovedolo sanno indubbiamente approntare quel congegno di accensione a miccia noto come serpentino - è questa un'abilità dif fusa nel secolo XV - e sono anche capaci di apprestare parti accessorie di armi bianche e d'archibugio. Ma la lavorazione della canna è ormai monopolio degli specialisti di Gardone. La prevalente attività degli artigiani residenti a Inzino è probabilmente rivolta, sul finire del Quattrocento, alla produzione di chioderie, attrezzi agricoli, else e 'fornimenti' di spade e pugnali. Dallo sfruttamento delle estese zone boschive, da magri pascoli e dalle scarse possibilità offerte dalla natura aspra del territorio, la popolazione trae quanto è sufficiente per vivere. Rispetto a quella di Gardone, già aperta anche a flussi migratori di notevole rilievo, l'economia di Inzino è quindi più povera e chiusa. Dalle vicende vissute dalla comunità inzinese nei secoli XVI e XVII la ricerca storica ha fatto fin qui emergere ben pochi aspetti. Il documento più noto e per sua natura più organico che si riferisce alla prima metà del Cinquecento è rappresentato dall'incartamento relativo al processo celebrato, tra il 1543 e il 1544, per la separazione della chiesa di S. Marco in Gardone dalla pieve di San Giorgio. La lettura degli atti di questo procedimento giudiziario, in particolare delle deposizioni di parte inzinese, confortata da talune più recenti acquisizioni archivistiche, consente di cogliere dati interessanti relativi alla vita religiosa ed economica di Inzino nella prima metà del Cinquecento. Per ciò che riguarda l'aspetto religioso, anche i testimoni chiamati a deporre in favore dell'arciprete riconoscono che Pietro Malatesta si preoccupa della chiesa di San Giorgio, che anzi ha fatto convenientemente restaurare, ma gli rimproverano eccessive attenzioni spirituali verso i gardonesi. Sostengono che l'arciprete e il suo coadiutore si recano troppo spesso nella chiesa di S. Marco, celebrandovi quasi ogni giorno e con qualsiasi condizione atmosferica, anche a costo di lasciare senza messa la popolazione di Inzino. Prescindendo dai toni probabilmente accentuati delle testimonianze, è lecito credere che il Malatesta tenga semplicemente presente la grande sproporzione demografica che si mantiene tra i due centri: alcuni testimoni infatti riferiscono che a Gardone, compresi i forestieri, si contano fino a 1500 anime, alle quali s'oppongono le poche centinaia di inzinesi. È dunque difficile sostenere che il Malatesta abbia speciali predilezioni per i gardonesi. Risulta invece che egli, sacerdote sensibile alle questioni dello spirito, è anche uomo interessato alle realtà terrene e all'amministrazione dei beni di S. Giorgio. Il 31 luglio 1533 vende un fondo del beneficio situato alla Stocchetta e il 24 novembre 1534 dà in enfiteusi tre piò della pezza di terra entro la cinta Caprioli, sotto la Stocchetta. Per questo appezzamento la pieve riceve annualmente 29 lire e 17 soldi. Se gli inzinesi non possono dunque avere gravissimi motivi per lagnarsi del loro arciprete, i gardonesi dovrebbero averne almeno alcuni per essergli riconoscenti. Accade invece che gli stessi consoli di Gardone - forse nell'intento di far pesare ancor più i motivi della chiesta separazione o con il proposito di far pagare cara all'arciprete la sua tenace opposizione alle loro ragioni - fanno firmare al Malatesta, probabilmente con un raggiro, una convenzione per la quale rinuncia alla pieve. L'arciprete, avvedutosi del proprio errore e dell'inganno patito, con lettera datata 1 agosto e priva di altra indicazione, protesta essere nulla e invalida la convenzione di rinuncia cui l'hanno indotto i consoli di Gardone. A questi aspetti di natura religiosa gli atti del processo di separazione consentono di aggiungere taluni dati sulla vita economica e sociale. Fra i testimoni di parte inzinese compaiono infatti calzolai-i, fabbri, artigiani, un mercante di ferramenta con officina che impiega dieci operai. Dalle testimonianze rilasciate da ambo le parti in causa si evince infine che l'attività degli artigiani inzinesi è non raramente messa a repentaglio dalle improvvise e minacciose piene del Mella e del torrente Re. Un altro aspetto della vita sociale, riferito direttamente ai gardonesi ma certamente non del tutto estraneo agli stessi inzinesi, si coglie dalla relazione presentata il 19 settembre 1553 al Senato dal podestà Catterino Zen. Egli scrive che è diffusa soprattutto a Gardone l'abitudine di portare archibugi e che i gardonesi, in modo particolare, sono teste dure, presuntuosi e luterani. A proposito dell'eresia anabattista, che proprio a Gardone ha uno dei suoi centri più vivaci, conviene dire che, allo stato attuale delle ricerche, non risulta che gli inzinesi si siano lasciati trascinare nell'errore. L'unica notevole eccezione fin qui documentata si riferisce precisamente all'arciprete. Non si tratta comunque di Pietro Malatesta ma del suo successore, Alessio Marimbono, indicato nella bolla di nomina come de Sallo aut de Sancto Felice (del Benaco). Questo sacerdote, intorno al 1571, è chiamato a difendersi in un processo celebrato a suo carico davanti al vescovo Domenico Bollani. Gli si rivolge l'accusa di aver mantenuto rapporti amichevoli con il gardonese Bartolomeo Chinelli, noto come eretico, poi fuggito in Valtellina. Può darsi che l'arciprete non si debba considerare eretico nel vero senso della parola ma certamente egli è assai poco zelante poichè negli atti della visita apostolica di san Carlo gli si rimproverano parecchi difetti: non tiene mai la dottrina cristiana, è molto affezionato alla caccia e al gioco dei dadi e ben poco attento ai suoi doveri fondamentali. Non trova neppure il tempo di recarsi a Magno, due volte la settimana, per celebrarvi la messa, secondo un preciso suo obbligo. Si aggiunga che la sua preparazione è giudicata appena tollerabile. Date le premesse, non desta alcuna meraviglia che il visitatore delegato da san Carlo, Vincenzo Antonini, giungendo a Inzino il 5 aprile 1580, scriva che la chiesa di San Giorgio è mal ridotta, oscura e trascurata. È necessario provvedere a solleciti interventi in muratura per i quali si rimuovano altari non idonei, si dia maggiore luce all'edificio, si ottenga una decorosa sistemazione del presbiterio. Il convisitatore ordina altresì che l'arciprete mantenga un chierico tonsurato per coadiuvarlo nel servizio alla chiesa. Nella comunità si segnalano varie irregolarità e carenze: non mancano concubini e inconfessi; la Scuola del Corpo di Cristo, alla quale è unita la Disciplina di San Lorenzo, presenta disordini amministrativi; l'indifferenza religiosa è diffusa. La visita apostolica offre a san Carlo e ai suoi collaboratori l'occasione per raccogliere altre testimonianze contro gli eretici gardonesi. Il 5 dicembre 1580 Elisabetta Rossi da Inzino denuncia Giuseppe Aiardi, bandito da Gardone e un gruppo di operai concittadini dell'Aiardi stesso: sono Lorenzo de Solmi, Giuseppe Boselli, Bernardino Fagnone. Costoro invece di frequentare la chiesa in giorno festivo, preferiscono recarsi a pescare sulle rive del Mella e dedicarsi alla caccia. La realtà economica inzinese della seconda metà del secolo XVI manca al presente d'una esauriente documentazione. Si dispone tuttavia di alcuni punti di riferimento. Nel 1557 il Comune deve pagare una taglia ducale sull'Estimo generale di Valtrompia che assomma a 67 lire di planeti, 6 soldi e 10 denari; nel 1591 paga 163 lire e 10 soldi. Questi dati assumono maggiore significato se raffrontati con le imposizioni che gravano, negli stessi anni, su altri Comuni. Nel 1557 Gardone deve versare 276 lire, 9 soldi, 6 denari mentre nel 1591 de ve corrispondere 604 lire. In quello stesso anno Bovegno paga 716 lire, Collio 462,16 e Irma 139. Nel Catartico Bresciano de Da Lezze, compilato tra il 1609 e il 1610, è scritto che in Inzino si contano 120 famiglie. Nel paese esistono 5 fucine e molte altre officine più piccole per fare archibugi, fornimenti di armi, cerchi da botte e utensili. Le annotazioni dell'estensore del documento segnalano la famiglia Filippini come la più ricca del paese ma gli atti delle visite pastorali ed altre testimonianze coeve permettono di affermare che anche i Badilari, i Gardoncini, i Tonini sono tra i notabili. Per la grande maggioranza degli inzinesi i primi decenni del Seicento rappresentano comunque un periodo economicamente grigio poichè l'industria del ferro in generale conosce una delle sue ricorrenti e gravi crisi. Allo scopo di ricercare migliori opportunità per il loro lavoro, il 23 giugno 1616 Giacomo Insalto e altri fabbricatori di 'fornimenti' di spade e pugnali chiedono al governo di aprire un fondaco in Brescia mentre coloro che operano direttamente nel settore delle canne cercano, se appena possono, di tentare la fortuna in stati esteri. Per questo nel 1622 Venezia minaccia il bando perpetuo a tutti i lavoratori del ferro che escano dai confini della Repubblica. La situazione si fa sempre più grave negli anni seguenti. È noto che nel 1628 il Sindaco di Valtrompia presenta al capitano veneto in Brescia una pressante supplica per ottenere una conveniente quantità di grano e che analoga istanza viene presentata da Pietrobono Savoldi agente per la comunità di Gardone. Ciò permette di ritenere che anche i mulini esistenti nella valle d'Inzino girino spesso a vuoto. A complicare ulteriormente la situazione sopravviene la peste che imperversa dal 1629 al 1631. Anche Inzino è funestato dalla mortale epidemia. Se ne ha una pur generica conferma nella lettera che il sacerdote Bartolomeo Fantoni scrive al cancelliere vescovile il 28 febbraio 1631. Nel documento si afferma che il paese è infetto non poco. Questa è al presente l'unica testimonianza della quale si dispone poichè i registri dell'archivio parrocchiale e di quello comunale sono dispersi. Marco Cominassi sostiene che nella "Centrata del Castello" sarebbe sorto fin da questa pestilenza il Lazzaretto d'Inzino. È superfluo aggiungere che si tratta di un'affermazione del tutto dubbia, priva, almeno fino ad oggi, di un sicuro apporto documentale. E invece cosa certa che la peste fa sentire per lungo tempo i suoi effetti sotto l'aspetto economico; se poi ci si mette anche il governo con le sue tasse, si capisce bene come il capitano veneto Francesco Corner possa scrivere che la Valtrompia è addirittura sopraffatta dai debiti. La situazione non migliora nemmeno negli anni Quaranta del secolo XVII se è vero che nel 1645 il capitano Girolamo Venier interviene duramente per arginare con efficacia i debiti contratti dai Comuni valtrumplini, vuoi per corrispondere quanto richiesto dal fisco governativo, vuoi, e soprattutto, per provvedere alle inderogabili e gravissime necessità delle loro popolazioni, specialmente in tempi di carestia e di pestilenza. Cade qui opportuna l'occasione per soffermarsi brevemente sulle magistrature comunali di Inzino così come compaiono nelle Ordinazioni del capitano Venier. Il Comune ha un solo console; fra i pubblici ufficiali sono poi da ricordare i Ragionati, o contabili, il Massaro, l'orologiaio, due Cavalieri delle Vettovaglie - addetti al controllo dei pesi e misure e della qualità della merce - un Campanaro per la tutela delle proprietà pubbliche e private e, particolare curioso, ben due becchini. Per poco non accade che questi ultimi debbano portare alla sepoltura qualche concittadino, vittima delle ire degli abitanti in Magno che, proprio in questo periodo, vengono spesso e violentemente alle mani con gli Inzinesi a motivo dei contrasti sempre insorgenti fra le due comunità. Dall'ottobre 1646 all'agosto 1647 si svolge il processo di separazione della chiesa di S. Martino in Magno dalla pieve d'Inzino. La vicenda si conclude con un accordo provvisorio che accoglie solo in parte le istanze della comunità di Magno e potrà essere rimesso in discussione alla morte dell'arciprete Francesco Stornati, di nomina pontificia. Nella seconda metà del Seicento, fino al 1669, la rinascita dell'industria armiera favorisce gli occupati in questo settore e, come si dice oggi, nell'indotto, ma non va dimenticato che è presente in Inzino anche un'attività artigianale minimamente diversificata accompagnata da una sia pur povera economia agricola. A questo proposito si può aggiungere che nel 1669 Gian Giacomo Pintossi, residente in Inzino ma originario di Polaveno, acquista un mulino. Nella primavera 1676 il Mella straripa e l'alluvione provoca ingenti danni agli opifici inzinesi. Molto probabilmente, in conseguenza di questo disastro, Stefano Bianchi, noto architetto e scultore, viene incaricato di progettare un nuovo ponte sul fiume, completato nel 1678. Anche il Settecento si annuncia, sotto il profilo sociale ed economico, come un secolo apportatore di gravi disagi. Su una popolazione che già vive poveramente, si abbattono di seguito balzelli governativi e calamità naturali. Circa il primo punto basti ricordare che nel 1718 lo stesso capitano veneto Andrea Renier scrive che i Sindaci della valle cominciano, sia pure timidamente, a querelarsi per la mano eccessivamente pesante usata dal governo nell'imporre tasse. Quanto alle calamità naturali, esse si ripetono con tragica frequenza. Particolarmente funesta è l'alluvione del 1738. 11 18 ottobre il Mella atterra edifici e ponti, allaga strade e terreni. Sono distrutte in particolare le travate della fucina detta "della Disciplina Nova e Vecchia", della fucina e rasega alla "Fontana di Ronco", la travata della fucina detta "Ansaldi". È distrutto il ponte che va alla Fontana, necessario per la condotta "dei carboni", cedono i "murassi" che servono da riparo alle fucine "da ferro"; in vicinanza della piazza. cancellata la strada pubblica che porta alla valle d'Inzino, al di là "della beata Vergine del Castello", per una larghezza di 580 braccia. 1 danni vengono stimati dai periti per migliaia di scudi. La più esauriente testimonianza sulle condizioni della società inzinese del Settecento si deve all'arciprete Carlo Zappetti, estensore della relazione sullo stato della parrocchia, preparata, probabilmente nel 1756, per la visita pastorale del vescovo Giovanni Molin. Il lungo documento - che, al pari di quello che riguarda l'alluvione del 1738, è stato acquisito alla ricerca storica da Carlo Sabatti - è di estremo interesse e merita un'attenta lettura. Lo Zappetti scrive che a Inzino non vi sono nobili nè benestanti che vivano di sola rendita ma esistono benestanti che hanno qualche onesto impiego. Tra costoro ricorda espressamente Quinto e Pietro Filipponi, Pietro Rizzinelli, Pietro e Giuseppe Gardoncini e infine Maurizio Badilari. Le famiglie di costoro assommano a 35 anime. La stessa cifra è raggiunta complessivamente dalle famiglie Fausti, Gitti e Piccini, tutti artefici che hanno qualche rendita propria. Seguono poi le famiglie di coloro che lavorano in parte per sè e in parte per terzi e quelle dei lavoratori del ferro che operano solo per altri e sono povere. Si nominano i Mazzelli, i Fada, i Crotta, i Cominazzi, i Sabatti, i Gardoncini, eredi del fu Domenico. Si tratta in totale di 34 persone. Seguono coloro che esercitano vari mestieri. L'arciprete nomina le famiglie del calzolaio Romani, del sarto Marini, dell'oste Ferraglio, del calogaro Ansaldi e dei mugnai Zinelli e Bonetti, per un totale di 21 persone. Fra un gruppo di oltre 67 persone che svolgono umili professioni compaiono il capomastro Domenico Fiorenza - che lavora alla ricostruzione del santuario di S. Bartolomeo in Magno e nella chiesa gardonese di S. Carlo - un Marchi, procuratore, un Sorzini, servitore della comunità, infine alcuni maestri di legname e carbonai e un maestro di scuola. Le famiglie Pedretti, Ora, Ardesi, Foresti, Salvinelli, Peli, sono catalogate tra i villici che lavorano i beni d'altri. Seguono ancora coloro che sono impiegati alla giornata nelle più modeste opere manuali. Compaiono in questa categoria le famiglie Belleri, Sterni, Sarazini, Antonini, Costanzi. Infine, ultimi nella scala sociale, i poverissimi e nullatenenti, che vivono d'elemosine. L'arciprete Zappetti osserva ancora che nel paese non vi sono ostetriche e all'occorrenza ci si rivolge a quelle di Gardone. Maestro di figlioli è il sacerdote Bartolomeo Treccani. Le fanciulle sono istruite da due maestre che insegnano alle loro allieve i rudimenti dell'alfabeto ma anche l'economia domestica. La ponderosa relazione introduce nella seconda metà del Settecento che, sotto l'aspetto sociale ed economico mantiene sostanzialmente le caratteristiche note; i tempi sono decisamente quelli delle vacche magre e le sciagure si succedono, si potrebbe dire, a ritmo incalzante. Nel 1757 un'altra disastrosa alluvione fa perdere agli artefici inzinesi 5 fuochi grossi, 3 magli e 3 fucinette "in concomitanza dell'edificio del fil di ferro". Così si esprime Marco Cominassi. Seguono nel 1762 la peste bovina e nel 1764 una grave carestia che porta alla sollevazione dei valsabbini e dei valtrumplini. Questi ultimi, in numero superiore al migliaio, marciano su Brescia per far valere davanti all'autorità veneta le ragioni della fame. La notizia si deve al nominato diarista gardonese Marco Cominassi il quale riferisce al 1764, anno di gravi amarezze, anche un episodio, di valore probabilmente aneddotico, ma non per questo meno gustoso. Secondo il cronista un tal Giuseppe Gardoncini, negoziante in chioderie, recatosi in Gardone per affari, passa a cavallo davanti alla spezieria Ussoli, avvolto in un tabarro nuovissimo, di colore rosso fiammeggiante. Al vederlo, un passante, pronto alla battuta, esclama indicando il Gardoncini: - Passa il diavolo! Dopo quell'episodio, al dire del Cominassi, l'abitazione di Giuseppe Gardoncini e dei suoi eredi è denominata "Casa del Diavolo". Lasciata l'aneddotica, la serietà notarile di Pietro Cancarini da Carcina informa che nel 1774 un'altra alluvione fa perdere ad Inzino due fuochi grossi, rende inservibile il mulino comunale - oggetto di continui attriti con Magno, composti con una convenzione mediata dal notaio Chinelli nel 1765 - e costruisce i canali che conducono l'acqua a sette edifici "per il lavoro delle canne e di diverse manifatture di ferarezze sottili". E ancora Marco Cominassi a ricordare che nel 1775, rap presentandosi un'altra terribile carestia, i valtrumplini e i valsabbini seminano lo sgomento in tutti i mercati della pianura bresciana, razziando a viva forza il grano e le vettovaglie delle quali hanno estrema necessità. Nel 1790, Giambattista Filippini, mercante fornito di buoni capitali è già proprietario di alcune officine, servendosi di tre maestri e di numerosi operai di Lecco, apre una piccola azienda per la produzione di filo di ferro. Nei fatti militari e politici che dalla fine della Repubblica di S. Marco conducono alla annessione del Bresciano alla Repubblica Cisalpina, si possono cogliere, al presente, solo pochi episodi che toccano direttamente Inzino. Nell'aprile 1797, poco oltre il paese, avviene uno scontro tra le truppe francesi e gli armati della Repubblica Bresciana; il 29 giugno seguente l'arciprete di S. Giorgio è tra i 50 sacerdoti che, riunitisi a Gardone, promettono obbedienza al nuovo governo. Dopo l'annessione del Bresciano alla Repubblica Cisalpina, il paese entra a far parte del primo distretto del Dipartimento del Mella. La realtà economica del primo quindicennio del secolo XIX ha, per ora, pochi punti di riferimento. Si segnalano in questa sede alcuni aspetti particolari. Giuseppe Franzini da Gardone, commissario straordinario del governo, in una relazione inviata il 21 dicembre 1801 scrive che a Inzino sono ancora in attività 3 fuochi grossi, 3 magli e 2 fucinette. Agli inizi dell'Ottocento gli Zanetti aprono una fabbrica di chioderie e cardini; dal 1811 le attività di allevamento soffrono qualche disagio per il bando delle capre disposte dal governo. Del periodo imperiale napoleonico, l'archivio parrocchiale inzinese conserva un documento abbastanza singolare, non tanto per il suo contenuto, già noto, quanto per il fatto che la testimonianza stessa sia sopravvissuta in un archivio locale, di modesta dotazione. Si tratta della copia della lettera, che Pio VII Chiaramonti, prigioniero di Napoleone per i ben noti contrasti tra il trono e l'altare, scrive il 6 luglio 1809 per raccomandarsi alle preghiere dei suoi "sudditi e diletti fedeli". Alcuni episodi bellici con ripetuti passaggi di truppe sul territori di Inzino si segnalano al tramontare delle fortune napoleoniche. Caduto l'astro del gran Corso, il Bresciano è dominato dagli Austriaci. Per tutta la prima metà dell'Ottocento nella situazione sociale ed economica non si producono rivoluzionarie modificazioni rispetto alla panoramica così ben delineata dall'arciprete Zappetti alla metà del Settecento. Lo prova - sia pure sotto la forma dell'informazione a campione - il luttuoso evento del colera diffusosi nel 1836. Dal 2 luglio al 26 ottobre l'epidemia miete 26 vittime, tra le quali si comprendono 2 possidenti - un Gardoncini e un Tancredi - e di seguito: 5 contadini, 2 lavoratori di fucina, 2 carbonai, 2 carrettieri, 2 fabbri e quindi un calzolaio, un falegname, un fruttivendolo e infine sarte, casalinghe e mendicanti. Una certa ripresa economica, dovuta anche a contingenti scelte governative, si verifica negli anni Quaranta soprattutto nel settore armiero che impiega parecchie centinaia di addetti tra Gardone, Inzino e paesi limitrofi. A interrompere questa parentesi di sollievo per l'economia interviene la tremenda alluvione dell'agosto 1850 che provoca danni di tale gravità da indurre lo stesso governo austriaco a promuovere una sistematica raccolta di fondi per aiutare le popolazioni valtrumpline colpite dal flagello. Il disastro, per Inzino, è di proporzioni spaventose. Quasi tutto il paese è distrutto: danni gravissimi soffre la stessa strada valligiana. La tradizione popolare sostiene che la furia delle acque sia stata mitigata in parte proprio dalla "Casa del Diavolo", di settecentesca memoria, la quale, resistendo alla forza d'urto dell'inondazione, avrebbe diviso l'onda di piena in due correnti, evitando, in tal modo, la totale rovina del paese. Nel decennio che si compie nel 1860 l'economia si mantiene debole. L'estimo del 1858 fa registrare una rendita censuaria di L. 9490,39 e un'imposta erariale di L. 2114,72. Significativo il confronto con Gardone che, per la prima voce, raggiunge 30.490,93 lire e per la seconda 12.556,56. Il contributo dato dagli inzinesi alle vicende che conducono all'unità d'Italia non è ancora stato debitamente approfondito. È noto che già dal marzo 1849 un gruppo di giovani, animati da Carlo Bardoncini, cancelliere della pretura, è pronto all'insurrezione ma non è attualmente dato sapere quanti, fra i bresciani che partecipano in buon gruppo alle vicende delle guerre risorgimentali, siano dichiaratamente inzinesi. Più abbondanti informazioni si hanno circa la linea seguita dal clero valtrumplino - e in particolare dai sacerdoti dell'antica pieve - nella lotta per la causa indipendentistica. Si può ricordare brevemente in questa sede che tra i preti `liberali' che fanno capo al prevosto di Gardone, Antonio Giovanelli, si annoverano sia l'arciprete di S. Giorgio, Pietro Bondioli sia il suo coadiutore, Bonaventura Bertarini. L'appoggio dato alla causa liberale e la circostanza specifica d'aver celebrato la festa dello Statuto, nonostante le contrarie disposizioni del vescovo Girolamo Verzeri, costano al vecchio arciprete Bondioli la revoca dell'incarico di vicario foraneo. Seguono le proteste dello stesso sindaco di Inzino, manifestazioni e cortei popolari di solidarietà con i "preti cantanti", polemiche giornalistiche, commissioni d'inchiesta, pressioni d'ogni genere fino al 1869, quando anche i più tenaci sacerdoti cominciano a sottomettersi ufficialmente, pur continuando a nutrire sentimenti patriottici. E noto che a difendere e propagare la causa nazionale in Valtrompia è impegnato in prima persona Giuseppe Zanardelli che, negli ultimi decenni dell'Ottocento, diviene praticamente il "feudatario politico" della valle. A contrastare la sua influenza sono soprattutto i cattolici che si organizzano in circoli ed istituzioni e s'impegnano anche in campo politico. Attivissimo è Domenico Tonini, insieme con don Arcangelo Saleri, parroco di Cimmo, paese nel quale ha la sua sede la Società Cattolica di Mutuo Soccorso di Valtrompia, della quale rimangono atti nell'archivio parrocchiale di Inzino, a partire dal 1884. Presidente del sodalizio, articolato in varie sezioni di diversi paesi della valle, è Domenico Tonini. Nel 1885 la sezione inzinese conta 61 soci con distintivo. Il 26 aprile 1885 il vescovo Corna Pellegrini benedice in Cimmo la bandiera della Società. Vincenzo Corsini, Domenico Tonini e Pietro Crescimbene aggiungono la loro firma a quella del segretario don Arcangelo Saleri in calce alla modifica dello Statuto, stesa nel 1887. L'impegno dei cattolici inzinesi strappa all'influenza zanardelliana dapprima la Congregazione di Carità - che ha assorbito sin dal 1861 tutte le Opere Pie - e quindi lo stesso Comune, conquistato nel 1895. Domenico Tonini è eletto sindaco. Sono gli anni nei quali la questione romana accende ancora contrasti. Il Tonini, appena eletto, rifiuta d'intitolare al XX Settembre la via principale del paese, opponendosi all'esecuzione d'una deliberazione della Giunta precedente. Ne nasce una vivace polemica ripresa anche dal giornale zanardelliano "La Provincia di Brescia". La questione finisce addirittura in Prefettura ma il Tonini continua a non voler sentir parlare di via XX Settembre. Persevera intanto nella sua opera di proselitismo, riuscendo a creare intorno a sè un gruppo di attivisti cattolici molto combattivo. Vi fanno parte, tra gli altri, Pietro Gualla, poi consigliere comunale a Brescia, e presidente generale dell'Unione Cattolica del Lavoro; Pasquale Tonini, presidente dell'Unione Professionale Trumplina, con sede in Gardone, e Francesco Botti, iniziatore e presidente dell'Unione degli stradini della provincia. La realtà economica della fine dell'Ottocento e degli inizi del Novecento presenta alcuni fatti degni di nota. Nell'ottobre 1899 è costituita la Società Anonima Cooperativa Unione Elettrica Gardone-Inzino per la produzione e il consumo di energia nei due paesi. Agli inizi del Novecento, Giuseppe Weill di Milano, che ha rilevato la ditta Frassine, specializzata nella produzione di lime, trasferisce lo stabilimento da San Vigilio a Inzino. Nuovo impulso economico riceve il paese dall'ottobre 1907, dopo l'inaugurazione del grande stabilimento della Fabbrica Bresciana d'Armi, occupante un'area di 5600 mq., con 330 operai, per una produzione giornaliera iniziale di 25 fucili e 120 rivoltelle. Attrezzi agricoli continuano ad essere prodotti nell'antica fucina di Bernardo Speranza. Nello stampaggio di pezzi per macchine agricole si distingue l'officina dei fratelli Mazzelli mentre proseguono nella loro attività gli Zanetti, produttori di chioderie e cardini. Sotto l'aspetto politico il primo quindicennio del secolo vede il progressivo venir meno della presenza zanardelliana, contrastata dai socialisti e dai cattolici inzinesi. Questi ultimi danno vita a istituzioni quali la Sezione Giovani - che nel 1904 conta 22 soci - il Ritrovo Giovanile, il Ritrovo Operaio Cattolico. La grande guerra del 1915-18 provoca tra i giovani militari inzinesi 8 vittime accertate - tante almeno sono quelle che compaiono sulla lapide inserita nel monumento dedicato ai Caduti. Dal 22 ottobre al 15 dicembre 1918 la 'spagnola' rapisce ai vivi altre 15 persone. Acceso il clima del primo dopoguerra. Già nel 1919 i socialisti aprono nel paese una loro sezione. I 15 aprile di quello stesso anno i cattolici fanno altrettanto per il Partito Popolare. Per i giovani è anche istituito, sempre nel 1919, il Circolo Pax. Arroventata la giornata del 1° maggio, con sciopero generale e concioni varie, compresa quella del gardonese Franzini, capofila riconosciuto dei socialisti locali. Nelle elezioni politiche del 16 novembre popolari e socialisti inzinesi si inseguono da vicino: 105 voti ottiene il partito di Sturzo; 120 i socialisti. Il sorpasso avviene già nelle amministrative del 1920, quando i popolari conquistano 170 voti a fronte dei 142 suffragi ottenuti dagli avversari. La crisi dell'occupazione che diventa particolarmente acuta nel 1922 conduce a un nuovo sviluppo dell'organizzazione socialista. Il partito apre un suo Circolo giovanile. In acque ben poco tranquille naviga invece la Cooperativa Fratellanza, di stretta osservanza 'rossa' che, insieme con altre analoghe, deve fondersi nella Cooperativa "Solidarietà" di Gardone. La conflittualità sociale del tempo conduce frattanto davanti ai giudici Felice Cedoni e Giuseppe Fabbrini, accusati di sovversione. Durante lo sciopero legalitario degli inizi d'agosto, i fratelli Angelo e Carlo Poli subiscono una sanguinosa aggressione. Nei primi anni della dittatura mussoliniana frequenti sono gli scontri tra fascisti e avversari politici. Particolarmente grave l'episodio del maggio 1923: Angelo Bosio uccide con un colpo di fucile lo squadrista Marco Scaramuzza, reduce da un'adunata tenutasi a Lumezzane S. Sebastiano. Nel settembre la Cooperativa "Solidarietà" viene sciolta mentre il controllo dei fascisti si estende a tutti gli aspetti della vita inzinese. Le elezioni del 1924 danno al listone dominato dal fascio 148 voti contro i 48 toccati ai popolari. Nel 1926 il Comune di Inzino inaugura il monumento ai Caduti. In quello stesso anno la Cooperativa Cattolica è devastata dagli squadristi. Nel 1927 la politica accentratrice del regime conduce alla soppressione delle autonomie amministrative di Inzino e Magno; i due paesi diventano frazioni del Comune di Gardone. La dittatura non può impedire ai cattolici di continuare ad operare attivamente nelle diverse organizzazioni. Efficiente e ben organizzata è soprattutto l'Azione Cattolica. Nel 1929 si fonda il Gruppo Uomini che, in una statistica dell'anno seguente risulta composto da 26 iscritti: altrettante sono le tesserate per il gruppo Donne Cattoliche, fondato nel 1925 mentre - il riferimento è sempre alla statistica del 1930 -, il Circolo giovanile Pax conta 50 tesserati e 35 soci aspiranti. Infine il Circolo Femminile, intitolato alla beata Bartolomea Capitanio, conta 40 tesserate, 25 aspiranti e 20 beniamine. Fra le "opere del regime", realizzate nel ventennio fascista, meritano almeno un cenno l'acquedotto della Rendena, iniziato nel novembre 1928 e terminato nel giugno 1929, su progetto dell'ing. Gennaro Stefanini; la costruzione della sede sociale della Sezione Combattenti, inaugurata nel marzo 1928; l'ampliamento dell'edificio scolastico, attuato nel 1935. Pesante il contributo di sangue offerto dagli inzinesi alla seconda guerra mondiale. Fra coloro che conobbero gli orrori dei campi di concentramento nazisti, merita un singolare ricordo Giuseppe Marizzoni, educatore di generazioni di suoi concittadini. Gli episodi della guerra partigiana annoverano tra le vittime più illustri Aldo Franceschetti, già attivissimo nelle opere parrocchiali di Inzino, ucciso in Valcamonica; Franco Moretti, diciassettenne, assassinato il 2 settembre 1944 mentre si reca da Cesovo a Inzino per compiere una missione di collegamento, e Ardito Zatti, caduto al passaggio di un autocarro tedesco il 27 aprile 1945. Fra le opere pubbliche realizzate dal Comune per la frazione Inzino in quest'ultimo quarantennio, oltre al grande sviluppo promosso nelle infrastrutture urbane e nell'edilizia abitativa sono da segnalare in particolare: ulteriori ampliamenti e rifacimenti interni nella scuola elementare, attuati in tempi diversi, dal 1949 al 1972; la costruzione della Scuola Materna "Lombardi", realizzata nel quinquennio amministrativo 1970-75 e recentemente scelta come sede del Centro Socio-Educativo per minori handicappati; l'edificazione, su un'area di 13.000 mq., del nuovo complesso della Scuola Media inaugurato il 19 ottobre 1974; l'ampliamento e la sistemazione del cimitero, attuati, in tempi diversi fino al 1985; la ristrutturazione dell'ex Mulino di Inzino, dal quale nel quinquennio amministrativo 1980-85 si sono ricavati alcuni piccoli appartamenti per persone anziane. Le opere parrocchiali hanno visto negli anni Cinquanta un ampliamento delle strutture oratoriane con la sistemazione del campo di calcio e la costruzione della nuova casa del curato, realizzata tra il 1956 e il 1957 su un terreno del Beneficio; una nuova pavimentazione della chiesa di S. Giorgio, compiuta nel 1960; la costruzione del cinema "Inzino", inaugurato il 1° dicembre 1967; la predisposizione dell'impianto elettrico delle campane nel 1973; il compimento di lavori di restauro all'esterno e all'interno della pieve, dal 1977 al 1983. Tradizionale nel paese il "Settembre Inzinese", sempre ricco di iniziative religiose, culturali, ricreative. Intensa anche l'attività sportiva che trova uno dei suoi momenti organizzativi più felici nella "S. Giorgio Gold - cicli Tanfoglio" la quale raggruppa nel 1982 circa 140 iscritti. Significativa la presenza del Coro della Montagna "Inzino" che ha celebrato nel 1980 il XXV anniversario della sua fondazione. Il sodalizio, voluto dal sacerdote Nicola Bragadina e tenacemente sostenuto dal presidente Mario Abbiatico, recentemente scomparso, è noto in tutta la provincia. La Compagnia Filodrammatica "Caicì", ricostituita da qualche anno, ripropone validamente alcuni fra i più significativi testi scritti per il teatro dialettale bresciano. Personaggi illustri. Cristoforo da Inzino, pittore. È citato da Camillo Boselli nel "Regesto artistico dei nota roganti in Brescia dall'anno 1500 all'anno 1560". pittore è padre di Paola, moglie di Bernardino da Saviore, libraio, il 5 aprile 1534 riceve un compenso di L. 50. Severino Sabatti (1888-1941). Sacerdote, superiore generale del C.A.I., cura in particolare la sistemazione di Rinelli). Vittorio Lombardi (1893-1957). Direttore gene rale del C.AI, cura in particolare la sistemazione di Rifugi del Gruppo Ortles-Cevedale. Amministratore della spedizione per la conquista del K 2 (1954), è munifico sostenitore di molte istituzioni sociali, in particolare degli asili infantili. Angelo (Salvatore) Gitti - 1908-1971. Attivamente partecipe delle iniziative dell'Azione Cattolica, fondatore del Gruppo Esploratori, è arrestato dal fascismo nel novembre del 1926, quando la sede del Gruppo viene devastata dagli squadristi. Propagandista e dirigente diocesano di A.C., organizza nelle fabbriche i "Raggi" e, durante la Resistenza è membro del C.L.N. a Gardone e in valle. Dopo la Liberazione aderisce alla Democrazia Cristiana. Dedicatosi soprattutto all'organizzazione sindacale, dal 1951 è consigliere nazionale della C.I.S.L. Deputato al Parlamento dal 1953, è rieletto in tutte le successive legislature.
CHIESA PARROCCHIALE DI S. GIORGIO M. Non si conosce con precisione quando sia stata costruita la primitiva chiesa plebanale ma, come sopra si è ricordato, i lavori compiuti all'interno della parrocchiale nel 1982 hanno fatto emergere i resti di un'abside a catino che si stima risalente al secolo XI. Allo stato attua le delle ricerche non è possibile ricostruire la storia delle varie trasformazioni che l'antica pieve subisce fino al secolo XVI. Una testimonianza indicativa, anche se forse viziata da una certa esagerazione, si coglie dalle dichiarazioni rilasciate dal gardonese Pietro de Gaytis, il 20 agosto 1543. Recando la sua deposizione nel corso del processo di separazione della chiesa di S. Marco dalla pieve d'Inzino, il testimone sostiene che la parrocchiale di S. Giorgio è antichissima e che l'arciprete, Pietro Malatesta, l'ha fatta recentemente riparare perchè pareva una spelonca. Intorno alla seconda metà del Cinquecento l'edificio sacro viene comunque radicalmente ristrutturato fino ad assumere le caratteristiche architettoniche e stilistiche che ancor oggi mantiene e che lo avvicinano ad una tipologia che riprende in tono minore le forme classicistiche del Beretta, del Todeschini e del Bagnatore. Gli atti della visita pastorale compiuta dal vescovo Domenico Bollani nel 1567 attestano che la parrocchiale è consacrata ma dalle ordinazioni del visitatore s'intende che il sacro edificio si presenta in condizioni che denotano un certo disordine. Il Bollani ordina infatti la demolizione di un altare eretto all'esterno del tempio; vuole che nella chiesa siano distrutti gli altari di S. Antonio, S. Bernardino, S. Bartolomeo, Santa Lucia, giudicati evidentemente inidonei; impone che l'altare di S. Rocco sia provvisto di croce e candelabri lignei; dispone che si chiuda una porta presso l'altare dei SS. Vito e Modesto e si apra invece una finestra. Il 5 aprile 1580, Vincenzo Antonini, visitatore delegato da san Carlo, rileva che la chiesa è rivolta ad est, è abbastanza ornata e provvista di cinque altari; ordina di elevare l'altar maggiore, di spostarlo quasi contro il muro e specifica che gli «homines» d'Inzino affermano di voler ingrandire la cappella che contiene l'altar maggiore, ma - ingiunge ancora il rev. Antonini - è necessario eliminare il muro e i gradini collocati all'ingresso del presbiterio, il cui pavimento debitamente abbassato, sia collegato al resto soltanto con tre gradini, mentre sul gradino superiore deve essere collocata una balaustra. Negli atti della visita pastorale, effettuata dal Vescovo Giovanni Dolfin il 25 giugno 1582, si annota che la pieve è lunga 35 passi e larga 21, cioè m. 51,765 e m. 31,059, mentre le «parietes» in qualche luogo sono «escavati». All'altar maggiore, che - come la chiesa - è rivolto verso oriente ed è collocato in «nicia prominente» secondo l'uso antico, si ascende con cinque gradini. Il pavimento è in parte a mosaico e in parte in «opere cementario». A meridione è posta una piccola navata. Il campanile è collocato verso settentrione, fuori dalla cappella del Corpus Domini, ed ha accesso alla chiesa per mezzo di una porta. Reca due campane. Intorno alla chiesa, a settentrione e ad occidente, c'è il cimitero, circondato da un muro. Due atti notarili documentano la lite, sorta il 19 marzo 1585 tra i comuni di Inzino e di Magno dopo che quest'ultimo ha rifiutato di pagare la propria parte delle spese sostenute negli anni passati per l'opera di rifacimento, ricostruzione e restauro della chiesa di S. Giorgio. Proprio il protrarsi della lite suggerisce alla popolazione di Magno di rivolgere un'istanza al vescovo di Brescia per ottenere l'indipendenza della chiesa di S. Martino dalla pieve. Il vescovo Marino Zorzi, visitando la parrocchiale inzinese nel 1606, ordina, tra l'altro, di spostare il battistero in fondo alla navata destra della chiesa, dove è eretto l'altare della Concezione. Aggiunge che, se nel termine di sei mesi l'ordine non sia stato eseguito, il battistero verrà interdetto e si dovranno far battezzare i bambini a Gardone. Nel 1625 Bernardino Macario annota che questo e gli altri decreti del vescovo sono stati puntualmente osservati. Negli atti della visita compiuta dall'Ordinario diocesano Marco Morosini, nel 1646, si leggono ordini per gli altari laterali della Scuola del SS. Sacramento del S. Rosario e di S. Carlo. Una Confraternita intitolata all'arcivescovo milanese ed a S. Lucia è, d'altra parte già attiva in Inzino nel 1614. A prescindere dalle minute ordinazioni, gli atti della visita che Bartolomeo Gradenigo compie nel 1684 sono importanti perchè riferiscono distintamente il titolo di ciascun altare laterale, seguendo un ordine che è destinato a rimanere immutato fino ai nostri giorni. Il vescovo nomina infatti, di seguito, l'altare di S. Carlo - che dal Settecento in poi avrà come contitolare San Luigi Gonzaga - e quelli del S. Rosario, del SS. Sacramento e del Suffragio, che è ultimato poco dopo. Dalle carte di questa visita si apprende altresì che la Scuola del S. Rosario è tenuta a far celebrare una messa la settimana - per 35 anni consecutivi, a decorrere dal maggio 1666 - in suffragio del defunto arciprete Francesco Storna ti. Durante la celebrazione di queste messe si dovrà suonare l'organo, per volontà del testatore. Una decrizione abbastanza precisa del tempio è contenuta nella "Informazione della Parrocchia d'Inzino", redatta nel 1756, secondo un formulario fatto predisporre dal vescovo Giovanni Molin. Nel documento si legge tra l'altro: «La Chiesa parrocchiale è sotto il titolo di S. Giorgio Martire, la di lei struttura materiale è a volto, con una nave (navata) alta in mezzo ed il coro a catino con due navi laterali più basse per lato delle quali vi sono due cappelle per parte. In fondo alla chiesa un'altra sacristia di ripostiglio dirimpetto alla quale vi è il battistero con la sua ferrata e pittura di S. Giovanni Battista. L'altar maggiore è consacrato ed ha la sua pietra sacra, intiera ed intatta, et lo copre tutto. Ha il suo tabernacolo di legno dorato, con la portella raddoppiata. La pala rappresenta il martirio del S. Titolare e cinta da Ancona di legno dorata in fondo alla quale vi sono i Depositi delle SS. Reliquie». Nella seconda metà del Settecento il coro viene trasformato. Lo sovrasta una elegante cupola mentre l'ancona in legno si sostituisce con una soasa in gesso. La pala viene allungata con una centina e si provvede un nuovo altare di marmo con un tabernacolo ugualmente marmoreo. Nella relazione presentata nel giugno 1838 dall'arciprete Felice Costardi al vescovo Carlo Domenico Ferrari l'altare del Rosario è designato con il titolo dell'Assunta mentre quello dei SS. Carlo e Luigi Gonzaga è indicato con il solo titolo del patrono della gioventù. In data 12 febbraio 1931 l'arciprete Giuseppe Lanzi informa che «la chiesa parrocchiale, che si trovava in uno stato deplorevole per le sue condizioni statiche e igieniche, venne, alla meglio, riparata nell'anno 1913, e nel medesimo anno venne decorata dal pittore Traini(ni) Giuseppe di Brescia. Nell'anno 1914 - specifica don Lanzi - vennero riparate e decorate, dal medesimo pittore, le cappelle laterali della chiesa. Finalmente nell'anno 1929 venne riparata e decorata la Sagristia parrocchiale, che era cadente, dal pittore Piardi da Pezzaze. Tutte queste opere furono eseguite mediante offerte della popolazione». Gli ultimi interventi vengono compiuti nel biennio 1981-82, per impulso dato dall'arciprete Pietro Pasquali. I lavori portano alla luce - come si è detto - testimonianze architettoniche della chiesa plebanale antica e vari affreschi di notevole interesse. Ad opera di Diego Voltolini vengono altresì restaurate soase in legno mentre Romeo Seccamani restituisce alla pubblica ammirazione il ciclo affrescato dei misteri del Rosario, all'altare della Madonna, ed alcune tele.
ESTERNO. Alla chiesa plebana si accede attraverso un elegante portichetto rinascimentale, armonioso nei tre archi a pieno centro poggianti su esili colonne di marmo bianco. La lunetta che sovrasta il portale è affrescata; il pregevole dipinto, che raffigura - al centro - la SS. Trinità e ai lati - l'Annunciazione, è attribuito a Floriano Ferramola (Brescia 1478 c. - 3 luglio 1528), discreto pittore al quale - tra l'altro - la critica assegna affreschi in S. Lorenzo fra Irma e Magno di Bovegno (del 1521) e nel presbiterio di S. Maria degli Angeli a Gardone V.T.
INTERNO. L'aula, dalle linee sobrie e severe, è notevole esempio di architettura sacra tardocinquecentesca. Presenta tre navate. La centrale, alquanto più larga, è divisa dalle altre due per mezzo di pilastri cruciformi costituiti da lesene con archi a pieno centro. Ogni navatella laterale è affiancata da due cappelle profondamente incassate. Guida alla chiesa. L'itinerario artistico che qui si propone prende l'avvio dalla navata laterale destra, rispetto a chi entra dal portale maggiore e, da sinistra, ritorna alla bussola. Immediatamente visibile, sulla parete destra, sopra il confessionale, una tela raffigurante san Lorenzo martire. Il dipinto che, forse, in origine, era una pala d'altare, è stato recentemente attribuito da Gaetano Panazza a Bernardino Gandino, artista di scuola manieristica, il quale fonde nella sua pittura suggestioni che gli derivano dal Moretto, con echi del Tintoretto, di Palma il Giovane e del Veronese. Un altare dedicato a S. Lorenzo è citato negli atti della visita alla pieve compiuta dal rev. Cristoforo Pilati il 2 settembre 1573; i «disciplinati» vi facevano celebrare messa. Il visitatore ordina che la «Disciplina» di S. Lorenzo sia unita alla «Scola» del Corpus Domini. Il 5 aprile 1580 il rev. Vincenzo Antonini, annota che tra le reliquie si conserva quella del «cilicio del Beato Lorenzo», la cui «Disciplina» è aggregata alla Confraternita del SS. Sacramento. Il 5 novembre 1601 varie indulgenze sono concesse ai «Disciplinati». Il culto tributato a S. Lorenzo è un ricordo anche dell'antica diaconia della pieve. Cappella dei SS. Carlo Borromeo e Luigi Gonzaga. L'altare, di buona fattura, arricchito da preziosi marmi di Sicilia, si può assegnare alla fine del Settecento. Lo sovrasta la pala raffigurante san Carlo che porge la comunione a san Luigi Gonzaga. Il dipinto, racchiuso in una soasa barocca, con cimasa dalla quale domina il Padre Eterno, è opera significativa del veronese Giorgio Anselmi, discepolo di Antonio Balestra. L'artista mostra nel suo lavoro evidenti influssi della scuola pittorica bolognese e specialmente di Guido Reni. Pittore e affreschista di valore, Giorgio Anselmi lascia opere sue in altre località del Bresciano: si devono a lui gli af freschi nella parrocchiale di Lodrino e in quella di Vobarno e i dipinti della soffitta della cappella del SS. Sacramento e del corridoio della chiesa di Desenzano. Cappella della Madonna del Rosario, già dell'omonima Scuola. Gli affreschi che ornano la volta presentano i quindici misteri del Rosario e sono di scuola bresciana. Come quelli coevi che decorano la fascia inferiore delle due finestre con paesaggio e fiori, rivelano uno stampo popolaresco, pur presentando reminiscenze desunte dal Moretto e dal Romanino. Giustamente Sandro Guerrini rileva che si possono ritenere le prime raffigurazioni ad affresco, in Valtrompia e probabilmente in tutto il Bresciano, riguardanti i «Misteri». Una segnalazione merita la soasa in stucco, dorata e policroma della fine del '600, che racchiude una mediocre statua lignea moderna della Madonna col Bambino, scolpita in Val Gardena e collocata nell'aprile 1944. Due angeli - in funzione di telamoni - sostengono la trabeazione, sovrastata dal re Davide e da un profeta che s'affiancano ad una cartella posta nella cimasa con un'invocazione alla. Vergine. In alto, due telette della metà del '600 (l'Annunciata e l'Angelo Gabriele) s'affiancano alla soasa, racchiuse in un'elegante cornice in gesso, dorata e policroma. L'anonimo artista dei due quadri a olio dimostra d'essere non immemore della tipologia stilistica di Pietro Ricchi detto il Lucchese (Lucca 1606 - Udine 1675). Sulla parete sinistra della cappella, vedesi un olio su tela, raffigurante la Natività di Maria. Nella te la, recentemente trasferita dalla sagrestia del santuari della Madonna del Castello, si individuano valori cromatici, luministici e plastici di buona qualità. L'opera può essere ragionevolmente assegnata alla prima metà del '600 e s'inserisce degnamente nell'ambito del tardo manierismo bresciano. Battistero. Nella parete di testa della navata di destra sono stati scoperti dei conci sagomati e intonacati su un lato, riutilizzati per riempire l'arco di un'abside risalente con ogni probabilità al sec. XI. Opportunamente si è ricostruita con mattoni l'abside antica, riutilizzando anche i conci ritrovati e valorizzando l'arco con notevoli avanzi affrescati, che il prof. Gaetano Panazza, insigne studioso d'arte, data al XII o al XIII secolo. La paziente ricomposizione di alcune pietre squadrate, collocate al centro del catino dell'abside, ci ha donato la pregevole anche se frammentaria immagine affrescata di un vescovo, con mitria e pastorale, che con ogni probabilità è S. Apollonio, vescovo bresciano della prima metà del sec. IV, al quale la tradizione attribuisce la diffusione del cristianesimo in Valtrompia. L'arco, decorato con motivi geometrici e floreali dai colori delicati e «puri», è ben conservato e racchiude la vasca battesimale, in marmo bianco, databile al secolo XVI, mentre il basamento è formato dallo spezzone d'un fusto di colonna con basamento decorato da foglie d'acanto, stimato della seconda metà del Quattrocento. Presbiterio. Lasciato il battistero, si accede alla cappella maggiore, architettonicamente dignitosa, sormontata da una graziosa cupola. Nei quattro pennacchi della cupola sono affrescati gli evangelisti, databili alla seconda metà del '700. Alla stessa epoca risalgono il marmoreo altar maggiore, dotato di un elegante tabernacolo, il pavimento del presbiterio, con ornamentazione a motivi floreali ottenuta incastonando preziose brecce gialle rosse e nere, e la soasa in stucco. Sulla parete che ci colloca alla destra di chi guarda l'altare maggiore, vedasi un olio su tela che presenta in alto la Madonna in gloria con il Bambino e, in basso, i santi Carlo Borromeo e Lucia. Il dipinto che negli anni cinquanta è stato sconciato da una maldestra, penosa ridipintura è attribuito dubitativamente da G. Panazza e S. Guerrini a Francesco Giugno o Zugno, soprattutto in relazione ai valori cromatici, ma è decisamente assegnato al Gandino da L. Anelli. La datazione dell'opera è da fissare al 1614, in relazione ad un documento reperito di recente nell'Archivio Vescovile di Brescia, nel quale si specifica che in tale anno è eretto l'altare dei santi Carlo e Lucia con relativa Confraternita. Volto lo sguardo all'altare maggiore, si osservi la pala che lo sovrasta: un olio su tela raffigurante il martirio di san Giorgio. Il dipinto è attribuito da Angelo Bonini a Pompeo Ghitti, pittore e incisore, formatosi nell'ambito del manierismo veneto-bresciano. Questa pala è stimata una delle opere migliori della maturità del Ghitti, con ascendenze veronesiane nelle cromie, nelle tipologie e nell'impianto scenografico, non immemori dell'Amigoni e dei manieristi operanti a Milano. Sulla parete sinistra del presbiterio, si osservi un altro olio su tela, firmato da Grazio Cossali e datato 1610. Raffigura il Padre Eterno, lo Spirito Santo e angeli con l'Immacolata, i ss. Vito e Modesto. In origine era la pala dell'altare laterale dedicato alla Concezione di Maria e ai santi martiri Vito e Modesto, corrispondente a quello attuale della Madonna del Rosario. L'opera non eccelle per invenzione, ma il disegno è sobrio, deciso, arricchito di colori preziosi. Si deve rilevare che una drastica pulitura della tela, effettuata durante un cosiddetto restauro seguito negli anni cinquanta, ha eliminato gran parte delle velature, mentre qualche ritocco grossolano ha offuscato la bellezza originaria dell'opera. Ai due santi martiri, dei quali si conservavano preziose reliquie, risulta già dedicato un altare nel 1567; se ne celebrava solennemente la festa sin dal 1582, mentre - come attestano gli atti della Visita Apostolica di S. Carlo del 1580 - era particolarmente venerata la chiave («clavis») detta dei santi Vito e Modesto, con la quale, fatto il segno della croce, si segnavano coloro che erano stati morsicati dai cani, ottenendo pronta guarigione, assicura l'estensore del documento. Affresco di san Giorgio. Lasciato il presbiterio, si veda, sulla parete di testa della navatella sinistra, un pregevole affresco che presenta san Giorgio a cavallo in lotta con il drago. L'attento restauro recentemente condotto a termine ha degnamente valorizzato il dipinto che, per la sua tipologia stilistica, si richiama al gotico internazionale. Cappella del Corpo di Cristo o del SS. Sacramento, già dell'omonima Scuola. La sua parete centrale presenta un interessantissimo frammento del grande affresco originale, avente per tema la Crocifissione, eseguito probabilmente intorno alla metà del Quattrocento. In alto spicca la croce, con il Cristo affiancato da due angeli adoranti e da altri quattro che reggono calici nei quali si raccolgono le gocce di sangue che sgorgano dalle ferite, secondo una tipologia iconografica più antica. La Madonna e S. Giovanni, dai volti intensamente espressivi, sono accoratamente compartecipi al dramma della morte del Signore. Un esiguo frammento della veste d'un tenue giallo-arancione, che «apparteneva» alla Maddalena dipinta ai piedi della croce, fa rimpiangere l'irreparabile perdita della fascia centrale dell'affresco, inconsultamente demolita in passato per ricavare una nicchia nella quale collocare una statua in gesso del S. Cuore. Attrae l'attenzione la figura del Cristo, d'impareggiabile bellezza: la sua anatomia è perfetta, il capo, dolcemente reclinato, ha un volto animato da intenso pathos; il colore degli incarnati del Redentore, ricavato da terra ed erbe verdi, è molto simile a quello usato magistralmente da Paolo Uccello nel chiostro «verde» di Santa Maria Novella a Firenze. La parete di destra della cappella rivela, in alto a destra, affreschi della metà del '400, con l'immagine di S. Antonio Abate, privato della testa a causa dello sfondamento praticato per costruire la volta della cappella, e con quella d'una Madonna col Bambino in trono, ricoperta dal pilastro di destra che sorregge l'arcone della cappella stessa. A questi dipinti è sottoposto quello rappresentante S. Lucia, pure del '400. A fianco della santa martire, verso il basso, si apre una finestra lobata, di rustico gusto gotico, probabilmente utilizzata per riporvi gli olii santi, le reliquie e addirittura l'Eucarestia. Un dipinto votivo, datato 1478, completa la decorazione di questa parete: si tratta di una Madonna in trono col Bambino, affiancata da san Giovanni Battista. Si vede ancora, sull'angolo formato da questa parete con quella centrale, la figura mutila di un frate. Con ogni probabilità è san Bernardino da Siena che regge un libro e porta un saio che ha il colore tipico di quello dei francescani delle origini. Rimuovendo l'altare in cemento è stato possibile scoprire la fascia decorativa che - in basso - orna la parete centrale; l'intonaco affrescato scende - al centro, al di sotto della predella - circa mezzo metro. Un concio, intonacato e dipinto con una frammentaria immagine d'una probabile Madonna, forse del 1300, è collocato nel basamento della predella. Cappella del SS. Redentore e del Crocifisso, già del Suffragio. L'altare ha una soasa barocca, datata 1684, opera d'intaglio gradevolmente raffinato. Nella cimasa domina una pregevole Madonna col Bambino, scolpita a tutto tondo, e sovrastante la nicchia nella quale è col locato un Crocifisso, dal robusto modellato, databile al secolo XVIII. Confessionale e tela di san Giovanni Battista. Volgendosi verso la bussola si dia uno sguardo al confessionale che s'accompagna all'altro, identico, collocato nell'opposta navatella. Entrambi si possono datare alla fine del 1686. Infatti il vescovo Bartolomeo Gradenigo, in occasione della visita del 18-19 maggio 1684, ordinò di provvedere due confessionali secondo la forma prescritta ed entro un anno; il primo settembre 1685 per l'esecuzione del decreto venne concesso un termine di altri sei mesi, con analoga dilazione autorizzata il 25 maggio 1686. Sopra il confessionale, lavoro d'ottima fattura, ornato di fiorami, frutta di elementi decorativi, si veda un olio su tela con cornice sagomata, scritta dipinta G.B.G.F.F. e datata 1681. L'abbreviazione può essere sciolta così: Giovanni Battista Gardoncini fece fare; i Gardoncini risultano essere tra gli antichi "originari" di Inzino. Il dipinto, di non eccelsa fattura, ritrae S. Giovanni in posizione inconsueta, se non bizzarra; il Santo è raffigurato di schiena, mentre rivolge il capo all'osservatore e alza un braccio, insieme reggendo la consueta croce. Organo. Sulla controfacciata è collocata l'imponente cantoria settecentesca dell'organo, dominata da una statua - forse secentesca - raffigurante S. Giorgio che uccide il drago e illegiadrita da due angeli musicanti del '700. L'organo è ottocentesco, con canne di buona lega, probabilmente accorciate; dodici canne di violeggianti risultano riposte all'interno della cassa, mentre due manette sono staccate. La pieve era dotata di organo almeno dalla seconda metà del 1600; infatti - come attesta anche una lapide murata nella parete sotto la cantoria, a sinistra del portale maggiore - fin dal 23 febbraio 1660 l'arciprete Francesco Stornati aveva disposto un legato pio in favore della Confraternita del S. Rosario con l'onere di celebrare delle messe e di far suonare in perpetuo l'organo. Lo strumento attuale ha subito tali e tanto gravi manomissioni e rifacimenti dalla fine dell'800 agli anni cinquanta da richiedere un urgente intervento di restauro. Sagrestia e Arredi Sacri. Alla sagrestia si accede direttamente dal presbiterio, varcando un ingresso che si apre a destra di chi guardi l'altare maggiore. Risale al secolo XVII e conserva un bancone con elegante calicera, con tre armadietti ornati di due telamoni di singolare fattura. Il vescovo Bartolomeo Gradenigo, visitando la parrocchiale nel maggio 1684, notava che nella sagrestia, che era stata copiosamente provvista di sacra suppellettile, era conservato un «armarium eleganter elaboratum» nel quale si custodivano gli arredi. Fra questi meritano segnalazione: un calice e tre cartegloria d'argento, il reliquiario detto di san Giorgio, i lamina d'argento, una pace anch'essa argentata e raffigurante la Pietà, arredi tutti che appartengono al Seicento. Preziosa opera di oreficeria del Settecento, è il turibolo d'argento del 1752; assegnabili al secolo XVIII sono anche due croci in lamina d'argento con fregi dorati. Tra i paramenti, un cenno meritano due tunicelle o dalmatiche e una pianeta del '600, in seta rossa e oro, con splendidi fiori pure trapunti d'oro.
SANTUARIO DEL S. NOME DI MARIA o della "MADONNA DEL CASTELLO". Le origini del santuario sono in gran parte avvolte dalla leggenda. Una tradizione orale popolare - tramandatasi fino ai nostri giorni - sostiene che in località "Castèl" - sperone di roccia a nord della valle d' Inzino - sia apparsa la Madonna, «che guardava verso Magno». Là fu in seguito costruita una cappelletta, dotata di un dipinto raffigurante appunto la Madonna, oggetto d'una viva devozione da parte delle popolazioni d'Inzino e di Magno. L'esistenza di questa «santella» è documentata da un atto della prima metà del 1500, scoperto da Sandro Guerrini presso il fondo del «Notarile» dell'Archivio di Stato di Brescia. Secondo lo storiografo gardonese Marco Cominassi (1803-1877) che cita una tradizione orale, la cappelletta rovinò a valle durante un furioso temporale. Del resto ancor oggi in tale località si possono rinvenire avanzi - pur scarsi - di muratura, testimonianza dell'antica sacra costruzione. Ma qui è opportuno chiarire il significato del toponimo «Castèl», per non lasciarsi ingannare da fantasiose congetture. "Castèl" significa località più elevata rispetto ad altre di una zona, di un paese; è un nome comune di luogo, che non si riferisce necessariamente ad un castello medievale. Del resto, l'esistenza d'un castello a Inzino non è documentata ne da resti architettonici ne da sicure testimonianze storiche. La denominazione di «Madonna del Castello» deriva soltanto dal fatto che la località in cui sorgeva l'antica cappelletta si chiamava e si chiama «Castèl». Il toponimo è citato in una pergamena, conservata nell'Archivio Parrocchiale d'Inzino, datata 9 aprile 1285: è la testimonianza storica più antica finora nota riguardante tale località citata come esistente sul territorio del comune d'Inzino. (Un atto notarile del 1 aprile 1669, rogato da Giacomino Rizzini di Magno, cita un mulino, acquistato da Gian Giacomo Pintossi di Polaveno, abitante in Gardone, «molaro... [posto] nella valle d'Inzino in contrata de castello»). La data del 1704, incisa sull'architrave della porta principale del santuario, si riferisce alla sua prima edificazione. La storia di questa chiesetta è ricostruibile attraverso altri documenti, finora inediti. Il 20 giugno 1732 Andrea Rizzini di Magno, ma abitante ad Inzino da molti anni, nel suo testamento «iure legati lascia alla chiesa della Beata Vergine di Castello nella Valle d'Inzino lire cento planetti amore Dei» ed istituisce suo "erede" l'altare della Madonna del Rosario nella pieve di S. Giorgio. Nella «relazione» riguardante la parrocchia d'Inzino, consegnata al cardinale Angelo Maria Querini, vescovo di Brescia, in occasione della visita pastorale effettuata il 15-16 settembre 1735, il pievano annota che i suoi parrocchiani sono 450 e che c'è un «oratorio» [cioè una chiesetta] recentemente construtto [costruito] e dedicato alla Beata Vergine nella valle d'Inzino quale non ha obligo alcuno, alla di cui custodia sta Giuseppe Bonetti romito, da Corteselle, [Corticelle], d'anni 62, quale veste sempre l'abito religioso et è d'ottimi costumi». (La relazione è allegata agli atti della visita pastorale del Querini). Giovanna Badilari nel suo testamento del 9 luglio 1765 dispone che il frutto ricavato annualmente da un capitale di L. 1050 sia speso per far celebrare 18 messe all'anno, in giorno di sabato, al santuario. (Tale «obligatione [è] desunta da un antico libbro della Beata Vergine del Castello a foi 47», come cita una minuta, datata 5 dicembre 1827, sottoscritta da 3 fabbriceri d'Inzino). Nello «stato della chiesa parrocchiale d'Inzino» allegato agli atti della visita pastorale di mons. Gabrio Maria Nava, effettuata nel 1809, il parroco annota che nella «chiesa ausiliaria della Beata Vergine... celebrasi la messa tre volte all'anno per devozione della Commune e fra l'anno dai sacerdoti del paese per sola devozione». Nel 1855, in occasione della visita pastorale del vescovo Girolamo Verzeri, effettuata il 24-25 aprile, l'arciprete plebano e vicario foraneo consegna la relazione, datata 24 aprile, con un preciso riferimento al «santuario sotto l'invocazione del Nome di Maria, detto volgarmente Madonna del Castello, nella Valle d'Inzino, ove annualmente si cantano tre messe dal parroco, cioè nella domenica del SS. Nome di Maria, e per antica consuetudine nella quarta di settembre e nella seconda di gennaio. Inoltre si celebrano molte altre messe, si cantano messe di obbligo della fabbriceria... Si celebrano molte altre [messe] per divo ti del paese e di altri paesi anche lontani. Ha qualche entrata, ma unita con quella della fabbriceria... Per devozione si va qualche volta processionalmente al santuario». Dopo queste pur brevi e frammentarie note storiche, è opportuno rilevare l'importanza di alcune espressioni artistiche che abbelliscono la chiesa. Non si può non ricordare lo splendido organo del '600, che attende d'esser pienamente valorizzato, magari anche attraverso qualche concerto... Non si è mai deplorata abbastanza la perdita di numerosi ex-voto o tavolette votive dipinte, testimonianza della profonda pietà popolare e dei «miracoli» operati da questa Madonna. È doveroso segnalare un'interessante notizia, riferita da mons. Luigi Falsina, un tempo curato a Gardone: il Falsina vide - dietro il dipinto che raffigurava la Madonna col Bambino - alcuni affreschi di indubbio interesse storico-artistico. Non meno pregevoli due dipinti, conservati in sagrestia: il più bello, forse del '600, assai rovinato dall'umidità, rappresenta la Natività di Maria; l'altro, del '700, raffigura la nascita di Gesù: sono due opere, di nobile fattura, che attendono... un restauro altrettanto pregevole.
ORATORIO DI S. ROCCO Una chiesetta dedicata a S. Rocco è citata negli Atti della visita del vescovo Vincenzo Giustiniani in data 16 ottobre 1636, oltre che negli Atti della visita del vescovo Marco Morosini del 15-16 ottobre 1646. Aveva un unico altare e vi si celebrava solo per devozione. Non è improbabile che il sacro tempio sia stato edificata poco dopo la «peste crudele» che colpì il paese soprattutto nel 1630-1631. Non vi sono molte notizie sull'oratorio. Negli Atti della visita del 13 marzo 1657 è espressa la disposizione che l'altare sia provvisto di palio e che vengano poste almeno tele a tutte le finestre. Nella relazione del parroco Lelio Richiedei, consegnata al vescovo Marin Giorgi junior in occasione della visita pastorale effettuata a settembre 1668, si attesta che l'oratorio è dedicato anche a S. Nicola da Tolentino e che vi si celebra soltanto nei giorni della festa di questo santo e del taumaturgo Rocco. Nella relazione del parroco dell'aprile 1855 è citata come chiesa detta di S. Rocco, S. Mauro e S. Antonio e anche indicata come dedicata al solo S. Antonio e vi si aggiunge che "da due anni per devozione si canta messa il giorno di S. Rocco e si celebrano alcune poche messe". Non ha entrate. Da altre notizie sappiamo che si trovava in Inzino di sotto ed era sulla strada principale (l'antica Valeriana) ed era di diritto pubblico. Purtroppo non molti anni fa la chiesetta venne profanata e trasformata in abitazione ed in vetreria. Pievani di S. Giorgio. Mafiolo (1389, 22 dicembre) de Turno de Cumis» è nominato arciprete della pieve dal vescovo Tommaso Visconti; egli è citato come meritevole, familiare e commensale del prelato, che gli concede il diritto di usufruire liberamente di lasciapassare con cavalli e cose, senza pagare gabelle ne pedaggi. Filippino Zoli di Magno, (1428) «Rector plebis de Inzino». Nicola «de Laude, archipresbiter». Giovannino arciprete (1458). Zanino o Giovannino «da Uden» (Odeno in Valsabbia?), arciprete (1482) «tiene le due chiese di Magno e di Lodrino per mezzo di cappellani». «Zaninus de Bombardis de Inzino», arciprete; (1490, 2 agosto). Fa pubblicare il precetto 27 giugno 1489 del Dott. Tommaso Luzzago contro gli usurpatori dei beni della pieve. Pietro Malatesta (1494, 15 dicembre). Alessio «dè Sallo aut de Sancto Felice» (1566, 19 aprile). Gian Paolo Profeta di Bovegno (1606, 4-5 aprile). Francesco Stornati (1628) (di nomina pontificia). Lelio Richiedei (1666). Giovanni Maria Borghetti di Marmentino; (1678, 30 aprile); già parroco di Marmentino dal 24 maggio 1664, concorse ad Inzino, alla cui pleba nia fu promosso con bolla pontificia il 30 aprile 1678, ma il 17 maggio 1674 riebbe l'investitura di Marmentino dove morì a 55 anni il 7 luglio 1687. Franco Lanfranchi (1679). Sigismondo Zoboli (1693 (?) - 1703). Francesco Ussoli, gardonese (1718) già economo della parrocchia si S. Marco nella vacanza dal settembre 1701 al marzo 1703, e già curato del prevosto Gian Francesco Martinelli; rimane curato a Gardone fino al febbraio 1712, quando passerà come curato mercenario a Bagolino, donde nel 1717 ritornerà come pievano di Inzino; vi restò fino al 22 aprile 1734, anno della morte. Antonio Bettinzoli (1735, 15-16 settembre). Carlo Zappetti, (1745, 1 agosto) eletto arciprete d'Inzino a 42 anni nel luglio 1745; fu arciprete dal 1° agosto e morì il 17.2.1759 ad Inzino. Vincenzo Montini (1759). Giovanbattista Montini (1778, 14 luglio) arciprete e vicario foraneo. Benedetto Pasini di Calvagese; (1781, 25 gennaio) muore il 7 marzo 1828; nel 1786 si allontana dalla parrocchia per motivi di salute; viene perciò provvisto un vicario. Felice Costardi di Palosco (1809) vicario economo; viene nominato parroco nel 1828. Pietro Bondioli (1850, 9 settembre). Giovanni Fiorini di Palazzolo, (1868, 6 aprile) di anni 29; era vicario parrocchiale a Concesio dove nel 1871 diventa parroco. Il beneficio viene conferito il 7 aprile 1868. Pietro Recaldini di Travagliato (1871, 28 dicembre); già economo spirituale di Azzano Mella; il beneficio viene conferito il 3.1.1872. Bortolo Buccio (1882, 12 agosto), nominato con nomina papale; il beneficio è conferito il 28 novembre 1882; rinuncia il 10.5.1904. Giuseppe Lanzi; (1904, 7 giugno) rinuncia in data 27 aprile 1939. Giacomo Zerneri; (1939, 2 giugno) rinuncia in data 29 dicembre 1939 per malferma salute. Bernardo Almici; (1929, 30 dicembre) rinuncia il 30 giugno 1974. Franco Tambalotti; (1974, 10 settembre) rinuncia alla Parrocchia nel 1976. Pasquali Pietro di Villa Carcina, (1976) nato il 9/7/1929 e ordinato il 14/6/1953; dal 30 dic. 1976. (Collab. di Francesco Trovati e di Carlo Sabatti).